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Cultura digitale nelle scuole, le proposte di riforma e il bisogno di conoscenza critica e responsabile

Un decalogo del Ministero dell’Istruzione sull’uso dei telefonini in classe, come strumento didattico, appena arrivato nelle scuole italiane. E una discussione molto partecipata sulla necessità di migliorare, appunto nelle scuole, la conoscenza del mondo digitale, sino alla proposta di creare un vero e proprio “liceo di cultura digitale”. Sono temi chiave per lo sviluppo economico del Paese, ma anche e forse soprattutto per il sistema di relazioni culturali e sociali, per l’informazione e, perché no?, per la stessa tenuta di lungo periodo della nostra democrazia.

Opportuno dibattito, dunque. Cui dà un contributo essenziale Francesco Profumo, ex ministro della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca (ma anche ex presidente del Cnr ed ex rettore del Politecnico di Torino e adesso presidente della Fondazione San Paolo, una delle più prestigiose istituzioni culturali e sociali italiane).

In un articolo su “Avvenire” (19 gennaio), intervenendo in un dibattito avviato dal quotidiano della Conferenza Episcopale, il professor Profumo giudica positiva l’idea del “liceo della cultura digitale”, insiste su una riforma del sistema formativo che ancora troppo risente dei canoni dell’educazione formulati negli anni Venti del Novecento dal ministro Giovanni Gentile e ispirati da idealismo e storicismo crociano e guarda alle prospettive del mercato del lavoro nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi: un lavoro “che non è solo funzione del cambiamento tecnologico, ma è influenzato anche da un insieme di altre variabili, quali la sostenibilità ambientale, la globalizzazione, il cambiamento demografico, l’aumento delle diseguaglianze, l’incertezza del quadro politico”.

Tutte questioni che chiedono nuovi metodi di insegnamento e apprendimento e nuovi programmi: “Diventa fondamentale alfabetizzarsi e sviluppare le conoscenze e competenze digitali non solo attraverso l’utilizzo di modalità informali, ma anche attraverso l’utilizzo di metodologie formali, da acquisire in ambito scolastico e attraverso esperienze di alternanza scuola-lavoro”. Forse, appunto, “un liceo digitale”. O fors’anche – val la pena aggiungere – un impegno robusto di cultura digitale in tutte le strutture scolastiche, dalla scuola dell’obbligo alle tante e diverse scuole superiori.

Il “decalogo” del ministero è utile, anche se parziale. Vale la pena pensare, più ambiziosamente, a una “educazione digitale responsabile” (Pierangelo Soldavini, “Il Sole24Ore”, 21 gennaio) e quadrare all’uso di telefonini e tablet come strumenti d’apprendimento di cui avere chiari anche limiti e potenzialità. Dante, Petrarca e la geografia on line? Perché no? Purché non si perda la dimensione delle studio come impegno serio, ricerca, responsabilità, senza cadere vittime d’un modo banalizzato nella sua sola dimensione ludica.

Siamo infatti di fronte a culture e mestieri che cambiano. Profumo ha proprio ragione. Servono conoscenze migliori. Non tanto competenze, che si acquisiscono nel corso del tempo, sapendo bene quanto sia e sarà sempre più diffuso il bisogno di formazione permanente, d’un long life learnig. Quanto, appunto, conoscenze. E capacità di ragionamento critico. Un metodo, molto più che una tecnica. Una capacità di entrare criticamente nel merito delle questioni: “Adess ghe capissarem on quaicoss:  andemm a guardagh denter”, c’è scritto sulla parte d’ingresso della Fondazione Pirelli, per capire qualcosa “guardiamo dentro” una macchina, un processo, una tecnologia, secondo la battuta attribuita all’ingegner Luigi Emanueli, scienziato e uomo d’impresa nei primi decenni del Novecento, stagione d’impetuosa crescita Pirelli, eccellenza hi tech e sofisticata “civiltà delle macchine”.

Il merito critico delle questioni. Proprio quel metodo che la cultura scientifica del Novecento ci ha lasciato in eredità: l’abitudine alla “falsificazione” cara a Karl Popper e alla sua “società aperta” (provare sempre a smentire un’acquisizione scientifica, cercare nuovi dati e fare nuovi esperimenti per verificarne meglio fondatezza e infondatezza e poi andare avanti), la consapevolezza che la scienza sia una condizione in evoluzione, in cui nulla è dato per sempre. Ne è attualissima testimonianza anche il dibattito, spesso aspro e tagliente, nella prima metà del Novecento tra Niels Bohr e Albert Einstein sui fondamenti della fisica quantistica, la relatività, la casualità, il “principio di indeterminazione” e sulle questioni scientifiche ed etiche (lo racconta bene Gabriella Greison in “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani).

La critica, dunque. Secondo la lezione di Kant. Sapendo che tra le caratteristiche del mondo digitale c’è il costante cambiamento che riguarda relazioni, materiali, tecnologie, ambienti, abitudini di vita e lavoro. Che investe il mondo digitale stesso. E, proprio adesso, non soltanto le sue logiche ma anche la sua stessa “accettabilità”, la sua legittimazione sociale.

“Il mondo nuovo della Silicon Valley che spaventa tutta l’America”, ha raccontato su “la Repubblica” (15 gennaio) Enrico Moretti, economista alla University of California (il suo libro più noto è “La nuova economia del lavoro”, Mondadori), documentando come l’universo hi tech, innovativo, globale, cosmopolita, colto, liberal, di alto reddito ed elevata sensibilità per l’ambiente e i diritti civili, sia sempre più inviso, negli Usa, non solo all’opinione pubblica della destra rappresentata da Trump ma anche ad ambienti di sinistra, democratici, che temono violazioni della privacy, disinformazione da fake news senza argini sufficienti e abuso di posizione dominante dei colossi digitali ai danni dei consumatori. Le recenti rivelazioni sulla vulnerabilità dei sistemi informatici e sulle speculazioni finanziarie collegate hanno peggiorato il quadro.

Che il sistema dei valori e della fiducia nel mondo digital sia in crisi lo conferma anche la copertina di “The Economist” nell’ultimo numero in edicola. “Taming the titans”, dice il titolo, su un inquietante fondo rosso cupo animato da tre mostri d’acciaio con i simboli di Amazon, Facebook e Google. Un avvertimento a neutralizzare o rendere inoffensivi quei giganti: “Come possono essere controllati?”.

È un ribaltamento di senso e consenso che fa molto riflettere. L’opposizione non può essere fatta alla Trump, populista e “luddista”.

Il mondo digital è la nostra realtà, nelle attività produttive, nei movimenti, nei rapporti interpersonali, nella salvaguardia dell’ambiente e nella costruzione e gestione di più abitabili smart city. Con processi positivi. E radicali miglioramenti della qualità di vita e lavoro.  Dunque serve più cultura critica, una sapiente attitudine a capirne e governarne i processi e le prospettive. A partire dalla scuola, appunto. I nativi digitali e cioè i nostri figli e nipoti non possono che esserne sempre più gli attori consapevoli.

Un decalogo del Ministero dell’Istruzione sull’uso dei telefonini in classe, come strumento didattico, appena arrivato nelle scuole italiane. E una discussione molto partecipata sulla necessità di migliorare, appunto nelle scuole, la conoscenza del mondo digitale, sino alla proposta di creare un vero e proprio “liceo di cultura digitale”. Sono temi chiave per lo sviluppo economico del Paese, ma anche e forse soprattutto per il sistema di relazioni culturali e sociali, per l’informazione e, perché no?, per la stessa tenuta di lungo periodo della nostra democrazia.

Opportuno dibattito, dunque. Cui dà un contributo essenziale Francesco Profumo, ex ministro della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca (ma anche ex presidente del Cnr ed ex rettore del Politecnico di Torino e adesso presidente della Fondazione San Paolo, una delle più prestigiose istituzioni culturali e sociali italiane).

In un articolo su “Avvenire” (19 gennaio), intervenendo in un dibattito avviato dal quotidiano della Conferenza Episcopale, il professor Profumo giudica positiva l’idea del “liceo della cultura digitale”, insiste su una riforma del sistema formativo che ancora troppo risente dei canoni dell’educazione formulati negli anni Venti del Novecento dal ministro Giovanni Gentile e ispirati da idealismo e storicismo crociano e guarda alle prospettive del mercato del lavoro nei suoi aspetti qualitativi e quantitativi: un lavoro “che non è solo funzione del cambiamento tecnologico, ma è influenzato anche da un insieme di altre variabili, quali la sostenibilità ambientale, la globalizzazione, il cambiamento demografico, l’aumento delle diseguaglianze, l’incertezza del quadro politico”.

Tutte questioni che chiedono nuovi metodi di insegnamento e apprendimento e nuovi programmi: “Diventa fondamentale alfabetizzarsi e sviluppare le conoscenze e competenze digitali non solo attraverso l’utilizzo di modalità informali, ma anche attraverso l’utilizzo di metodologie formali, da acquisire in ambito scolastico e attraverso esperienze di alternanza scuola-lavoro”. Forse, appunto, “un liceo digitale”. O fors’anche – val la pena aggiungere – un impegno robusto di cultura digitale in tutte le strutture scolastiche, dalla scuola dell’obbligo alle tante e diverse scuole superiori.

Il “decalogo” del ministero è utile, anche se parziale. Vale la pena pensare, più ambiziosamente, a una “educazione digitale responsabile” (Pierangelo Soldavini, “Il Sole24Ore”, 21 gennaio) e quadrare all’uso di telefonini e tablet come strumenti d’apprendimento di cui avere chiari anche limiti e potenzialità. Dante, Petrarca e la geografia on line? Perché no? Purché non si perda la dimensione delle studio come impegno serio, ricerca, responsabilità, senza cadere vittime d’un modo banalizzato nella sua sola dimensione ludica.

Siamo infatti di fronte a culture e mestieri che cambiano. Profumo ha proprio ragione. Servono conoscenze migliori. Non tanto competenze, che si acquisiscono nel corso del tempo, sapendo bene quanto sia e sarà sempre più diffuso il bisogno di formazione permanente, d’un long life learnig. Quanto, appunto, conoscenze. E capacità di ragionamento critico. Un metodo, molto più che una tecnica. Una capacità di entrare criticamente nel merito delle questioni: “Adess ghe capissarem on quaicoss:  andemm a guardagh denter”, c’è scritto sulla parte d’ingresso della Fondazione Pirelli, per capire qualcosa “guardiamo dentro” una macchina, un processo, una tecnologia, secondo la battuta attribuita all’ingegner Luigi Emanueli, scienziato e uomo d’impresa nei primi decenni del Novecento, stagione d’impetuosa crescita Pirelli, eccellenza hi tech e sofisticata “civiltà delle macchine”.

Il merito critico delle questioni. Proprio quel metodo che la cultura scientifica del Novecento ci ha lasciato in eredità: l’abitudine alla “falsificazione” cara a Karl Popper e alla sua “società aperta” (provare sempre a smentire un’acquisizione scientifica, cercare nuovi dati e fare nuovi esperimenti per verificarne meglio fondatezza e infondatezza e poi andare avanti), la consapevolezza che la scienza sia una condizione in evoluzione, in cui nulla è dato per sempre. Ne è attualissima testimonianza anche il dibattito, spesso aspro e tagliente, nella prima metà del Novecento tra Niels Bohr e Albert Einstein sui fondamenti della fisica quantistica, la relatività, la casualità, il “principio di indeterminazione” e sulle questioni scientifiche ed etiche (lo racconta bene Gabriella Greison in “L’incredibile cena dei fisici quantistici”, Salani).

La critica, dunque. Secondo la lezione di Kant. Sapendo che tra le caratteristiche del mondo digitale c’è il costante cambiamento che riguarda relazioni, materiali, tecnologie, ambienti, abitudini di vita e lavoro. Che investe il mondo digitale stesso. E, proprio adesso, non soltanto le sue logiche ma anche la sua stessa “accettabilità”, la sua legittimazione sociale.

“Il mondo nuovo della Silicon Valley che spaventa tutta l’America”, ha raccontato su “la Repubblica” (15 gennaio) Enrico Moretti, economista alla University of California (il suo libro più noto è “La nuova economia del lavoro”, Mondadori), documentando come l’universo hi tech, innovativo, globale, cosmopolita, colto, liberal, di alto reddito ed elevata sensibilità per l’ambiente e i diritti civili, sia sempre più inviso, negli Usa, non solo all’opinione pubblica della destra rappresentata da Trump ma anche ad ambienti di sinistra, democratici, che temono violazioni della privacy, disinformazione da fake news senza argini sufficienti e abuso di posizione dominante dei colossi digitali ai danni dei consumatori. Le recenti rivelazioni sulla vulnerabilità dei sistemi informatici e sulle speculazioni finanziarie collegate hanno peggiorato il quadro.

Che il sistema dei valori e della fiducia nel mondo digital sia in crisi lo conferma anche la copertina di “The Economist” nell’ultimo numero in edicola. “Taming the titans”, dice il titolo, su un inquietante fondo rosso cupo animato da tre mostri d’acciaio con i simboli di Amazon, Facebook e Google. Un avvertimento a neutralizzare o rendere inoffensivi quei giganti: “Come possono essere controllati?”.

È un ribaltamento di senso e consenso che fa molto riflettere. L’opposizione non può essere fatta alla Trump, populista e “luddista”.

Il mondo digital è la nostra realtà, nelle attività produttive, nei movimenti, nei rapporti interpersonali, nella salvaguardia dell’ambiente e nella costruzione e gestione di più abitabili smart city. Con processi positivi. E radicali miglioramenti della qualità di vita e lavoro.  Dunque serve più cultura critica, una sapiente attitudine a capirne e governarne i processi e le prospettive. A partire dalla scuola, appunto. I nativi digitali e cioè i nostri figli e nipoti non possono che esserne sempre più gli attori consapevoli.

Buone fondazioni d’impresa

Una ricerca approfondisce la realtà e il ruolo di queste entità nell’ambito della responsabilità sociale delle aziende oltre che nel welfare

 

L’impresa attenta al sistema sociale che la circonda è ormai cosa nota seppur non sempre così diffusa. Eppure, quella che viene indicata come Responsabilità sociale d’impresa fa bene al territorio e all’impresa stessa. E le fondazioni continuano ad essere uno degli strumenti d’eccellenza e più completi che le aziende hanno a disposizione. Occorre però capire a fondo natura, azione e obiettivi delle diverse strutture presenti all’interno del sistema industriale italiano (e non solo). A questo serve, per esempio, lo studio di Chiara Lodi Rizzini ed Eleonora Noia su “Le Fondazioni di impresa di fronte a un welfare state in trasformazione” pubblicato recentemente nell’ambito di una raccolta più ampia sul secondo welfare in Italia.

Obiettivo della ricerca, spiegano le autrici, è quello di indagare “quale spazio occupano, e potranno occupare in futuro, le Fondazioni di impresa in un welfare state in mutamento”. Viene quindi aggiunto: “Queste realtà risultano in grado di contribuire all’innovazione degli strumenti e dei servizi sociali. Guardando ai progetti avviati negli anni recenti, inoltre, le Fondazioni di impresa presentano in molti casi gli elementi distintivi del secondo welfare: adottano progetti e modelli di intervento che promuovono l’innovazione sociale; finalizzano spesso le proprie attività all’empowerment dei destinatari; impiegano modelli di governance volti al coinvolgimento delle comunità nelle quali operano; contribuiscono allo stanziamento di risorse economiche aggiuntive”. Sono, in altri termini, punti importanti d’azione sul territorio per le imprese che le creano, ma anche occasioni di studio di progetti innovativi che affrontano  insieme imprese e problemi sociali.

L’articolo affronta quindi in una prima parte le principali caratteristiche, i limiti e le potenzialità delle Fondazioni di impresa italiane, anche alla luce delle tendenze recenti in ambito di responsabilità sociale d’impresa oltre che di filantropia di impresa. La seconda parte dell’analisi si concentra invece sul ruolo delle Fondazioni di impresa come attori di secondo welfare, a partire dalle esperienze concrete di alcune delle principali realtà che lavorano nel Paese.

“Le Fondazioni di impresa dimostrano di poter occupare un proprio spazio nel panorama del welfare”, è la conclusione generale della ricerca. Che tuttavia non nasconde rischi e pericoli del loro agire. Emerge l’equilibrio delicato fra cultura del produrre e ragionamenti di bilancio.

Il lavoro di Lodi Rizzini e Noia ha il gran merito di essere scritto in maniera chiara e franca e di farsi comprendere anche attraverso una serie di diagrammi e schemi che sintetizzano con efficacia la realtà e l’azione delle Fondazioni d’impresa italiane in questi anni. Una buona base per capire e fare meglio.

Le Fondazioni di impresa di fronte a un welfare state in trasformazione

Chiara Lodi Rizzini, Eleonora Noia

in Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia 2017, F. Maino e M. Ferrera (a cura di), 2017

Una ricerca approfondisce la realtà e il ruolo di queste entità nell’ambito della responsabilità sociale delle aziende oltre che nel welfare

 

L’impresa attenta al sistema sociale che la circonda è ormai cosa nota seppur non sempre così diffusa. Eppure, quella che viene indicata come Responsabilità sociale d’impresa fa bene al territorio e all’impresa stessa. E le fondazioni continuano ad essere uno degli strumenti d’eccellenza e più completi che le aziende hanno a disposizione. Occorre però capire a fondo natura, azione e obiettivi delle diverse strutture presenti all’interno del sistema industriale italiano (e non solo). A questo serve, per esempio, lo studio di Chiara Lodi Rizzini ed Eleonora Noia su “Le Fondazioni di impresa di fronte a un welfare state in trasformazione” pubblicato recentemente nell’ambito di una raccolta più ampia sul secondo welfare in Italia.

Obiettivo della ricerca, spiegano le autrici, è quello di indagare “quale spazio occupano, e potranno occupare in futuro, le Fondazioni di impresa in un welfare state in mutamento”. Viene quindi aggiunto: “Queste realtà risultano in grado di contribuire all’innovazione degli strumenti e dei servizi sociali. Guardando ai progetti avviati negli anni recenti, inoltre, le Fondazioni di impresa presentano in molti casi gli elementi distintivi del secondo welfare: adottano progetti e modelli di intervento che promuovono l’innovazione sociale; finalizzano spesso le proprie attività all’empowerment dei destinatari; impiegano modelli di governance volti al coinvolgimento delle comunità nelle quali operano; contribuiscono allo stanziamento di risorse economiche aggiuntive”. Sono, in altri termini, punti importanti d’azione sul territorio per le imprese che le creano, ma anche occasioni di studio di progetti innovativi che affrontano  insieme imprese e problemi sociali.

L’articolo affronta quindi in una prima parte le principali caratteristiche, i limiti e le potenzialità delle Fondazioni di impresa italiane, anche alla luce delle tendenze recenti in ambito di responsabilità sociale d’impresa oltre che di filantropia di impresa. La seconda parte dell’analisi si concentra invece sul ruolo delle Fondazioni di impresa come attori di secondo welfare, a partire dalle esperienze concrete di alcune delle principali realtà che lavorano nel Paese.

“Le Fondazioni di impresa dimostrano di poter occupare un proprio spazio nel panorama del welfare”, è la conclusione generale della ricerca. Che tuttavia non nasconde rischi e pericoli del loro agire. Emerge l’equilibrio delicato fra cultura del produrre e ragionamenti di bilancio.

Il lavoro di Lodi Rizzini e Noia ha il gran merito di essere scritto in maniera chiara e franca e di farsi comprendere anche attraverso una serie di diagrammi e schemi che sintetizzano con efficacia la realtà e l’azione delle Fondazioni d’impresa italiane in questi anni. Una buona base per capire e fare meglio.

Le Fondazioni di impresa di fronte a un welfare state in trasformazione

Chiara Lodi Rizzini, Eleonora Noia

in Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia 2017, F. Maino e M. Ferrera (a cura di), 2017

L’oro che fa crescere la cultura d’impresa

L’ultimo libro di Salvatore Rossi racconta una storia che imprenditori e manager devono conoscere

La buona cultura d’impresa si nutre anche di buona storia. Non arida erudizione, ma fonte di indicazioni sul passato per capire meglio il presente, agire con maggiore attenzione, gestire la propria organizzazione produttiva con accorta saggezza, guardare al ruolo dell’impresa al di là dei numeri rossi e neri di bilancio. Necessità per tutti, la conoscenza storica dei fatti dell’economia è ancora più importante per imprenditori e manager. Leggere “Oro” di Salvatore Rossi (attuale Direttore generale di Banca d’Italia), è quindi un atto doveroso per chi vuole capire di più dell’economia di oggi, ma anche qualcosa da fare con il gusto di conoscere temi che influenzano la vita un po’ di tutti, anche se pochi se ne accorgono.

Rossi è un economista capace di raccontare e far capire quello che racconta. Il ragionamento ruota attorno al significato dell’oro nella storia e nell’economia del passato oltre che di oggi. Partendo da una constatazione. L’oro si lega a un sentimento ancestrale: la fiducia che sempre e ovunque, nel presente e nel futuro, potrà essere scambiato. E non solo. L’oro è da sempre simbolo di ricchezza, bellezza, divinità, potere. Ma anche di risparmio e di scambio. Chi lo possiede lo conserva al sicuro in scrigni, casseforti, forzieri e caveaux. Anche oggi, nell’era della digitalizzazione delle nostre vite. Rossi si chiede perché. E cerca di rispondere a questa domanda partendo da una constatazione: l’oro è un mistero che resiste da seimila anni. Oggi, nell’era del denaro di carta e del denaro virtuale, l’oro dovrebbe apparirci anacronistico. Eppure non è dimenticato affatto da chi cerca un porto sicuro per i propri risparmi. A cominciare dagli Stati e dalle banche centrali, questo metallo resta il bene-rifugio per eccellenza, perno delle economie e dei sistemi monetari.

Per spiegare e far comprendere, Rossi inizia dalle persone (con il racconto affascinante e drammatico di quanto accadde in Banca d’Italia nel ’43), per poi continuare sempre a scrivere dei legami fra oro e persone oltre che con le forme economiche che queste hanno costruito nel tempo e permettendosi digressioni importanti come quella sulla produzione e sulla distribuzione di ricchezza. Oro attualismo, dunque.

Ne emerge una storia notevole, ma anche e soprattutto una vicenda nella quale è fitto l’intreccio fra economia e umanità, fra produzione e uso della stessa, fra ricchezza e povertà. Dote rara nei “tecnici”, quella della chiarezza e limpidezza con le quali Rossi ha scritto “Oro”, fanno di questo libro una preziosità da leggere d’un fiato. Una buona storia per una buona cultura d’impresa.

Oro

Salvatore Rossi

Il Mulino, 2018

L’ultimo libro di Salvatore Rossi racconta una storia che imprenditori e manager devono conoscere

La buona cultura d’impresa si nutre anche di buona storia. Non arida erudizione, ma fonte di indicazioni sul passato per capire meglio il presente, agire con maggiore attenzione, gestire la propria organizzazione produttiva con accorta saggezza, guardare al ruolo dell’impresa al di là dei numeri rossi e neri di bilancio. Necessità per tutti, la conoscenza storica dei fatti dell’economia è ancora più importante per imprenditori e manager. Leggere “Oro” di Salvatore Rossi (attuale Direttore generale di Banca d’Italia), è quindi un atto doveroso per chi vuole capire di più dell’economia di oggi, ma anche qualcosa da fare con il gusto di conoscere temi che influenzano la vita un po’ di tutti, anche se pochi se ne accorgono.

Rossi è un economista capace di raccontare e far capire quello che racconta. Il ragionamento ruota attorno al significato dell’oro nella storia e nell’economia del passato oltre che di oggi. Partendo da una constatazione. L’oro si lega a un sentimento ancestrale: la fiducia che sempre e ovunque, nel presente e nel futuro, potrà essere scambiato. E non solo. L’oro è da sempre simbolo di ricchezza, bellezza, divinità, potere. Ma anche di risparmio e di scambio. Chi lo possiede lo conserva al sicuro in scrigni, casseforti, forzieri e caveaux. Anche oggi, nell’era della digitalizzazione delle nostre vite. Rossi si chiede perché. E cerca di rispondere a questa domanda partendo da una constatazione: l’oro è un mistero che resiste da seimila anni. Oggi, nell’era del denaro di carta e del denaro virtuale, l’oro dovrebbe apparirci anacronistico. Eppure non è dimenticato affatto da chi cerca un porto sicuro per i propri risparmi. A cominciare dagli Stati e dalle banche centrali, questo metallo resta il bene-rifugio per eccellenza, perno delle economie e dei sistemi monetari.

Per spiegare e far comprendere, Rossi inizia dalle persone (con il racconto affascinante e drammatico di quanto accadde in Banca d’Italia nel ’43), per poi continuare sempre a scrivere dei legami fra oro e persone oltre che con le forme economiche che queste hanno costruito nel tempo e permettendosi digressioni importanti come quella sulla produzione e sulla distribuzione di ricchezza. Oro attualismo, dunque.

Ne emerge una storia notevole, ma anche e soprattutto una vicenda nella quale è fitto l’intreccio fra economia e umanità, fra produzione e uso della stessa, fra ricchezza e povertà. Dote rara nei “tecnici”, quella della chiarezza e limpidezza con le quali Rossi ha scritto “Oro”, fanno di questo libro una preziosità da leggere d’un fiato. Una buona storia per una buona cultura d’impresa.

Oro

Salvatore Rossi

Il Mulino, 2018

Pirelli: tutto per lo sci

Gennaio, tempo di sci e di sciatori. Ed è sul numero di gennaio 1949 della rivista “Pirelli”, nell’articolo “Gli accessori che fanno felici”, che si legge una definizione davvero fantasiosa dello sciatore: “ un ‘secondo’ con contorno: intorno alla carne circola una certa quantità di verdure […] di bell’aspetto e gradevoli, così agli accessori dello sciatore si richiedono diverse qualità -praticità, durata, minimo ingombro- che li rendano piacevoli non al palato, ma all’uso”. Sono tanti gli accessori che possono migliorare la vita dello sciatore. E sono tutti accessori in gomma Pirelli. Le cinghie usate per legare gli sci o per fissare gli scarponi agli attacchi, ad esempio: “che non devono essere una fonte di moccoli  -cosa che frequentemente sono le cinghiette di cuoio indurite dal gelo”. Per non indurre in turpiloquio lo sciatore, basta farli in gomma.

Lo ripete anche l’articolo di Nino NutrizioLe funivie hanno aperto le porte  della montagna”, pubblicato sempre sulla rivista “Pirelli” nel numero di dicembre 1949: “solo chi ha provato la fatica di manovrare con le mani inguantate, apprezza l’utilità delle piccole cose di facile montaggio. E’ sufficiente una lieve pressione, perchè la bella delle nevi abbia sciolto il cinturino di gomma che lega gli sci e i bastoni”. La “bella delle nevi” citata da Nutrizio è una ragazza bionda che riappare in foto nella stessa pagina per promuovere un altro accessorio indispensabile per lo sciatore moderno: i leggerissimi bastoncini da sci con impugnature e rotelle in indistruttibile gomma Pirelli. E spetta sempre alla stessa bionda sciatrice “di classe” chiudere idealmente l’inverno 1949 interpretando -per la quarta di copertina dell’ultimo numero del 1949 della Rivista- tutta la linea Pirelli per lo sci: oltre a cinghiette e bastoncini, qui in evidenza ci sono sia la praticissima giacca a vento Pirelli sia naturalmente le suole in gomma Alpina degli scarponi.

Nel 1951 cambia la sciatrice: la “bella delle nevi” lascia il posto alla “sciatrice di Madesimo”, ma non cambia “Il fascino delle piccole comodità”, come racconta l’articolo di Vittorio Bonicelli pubblicato nella rivista “Pirelli” di dicembre e dedicato alle mille opportunità che la gomma offre allo sciatore moderno. “La mia riconoscenza va anche ai moderni e semplicissimi congegni che rendono possibile il trasporto di sci e bagagli sul tetto di una automobile, senza le strazianti zuffe di una volta con i grovigli di corde bagnate e allentate”. Sullo sviluppo del portasci -tra l’altro- era intervenuto nientemeno che il genio dell’ingegner Carlo Barassi, che nella vita di ogni giorno si occupava di progettare pneumatici Pirelli ma non sapeva resistere alla sua passione di inventore. Così, tra un Cinturato e un BS3, Barassi aveva ideato un avveniristico portasci in tessuto elastico e gommapiuma, brevetto Pirelli-Kartell, adatto alle Topolino dell’epoca.

E qui siamo all’“accessorio” forse più importante per uno sciatore: l’automobile, che lo deve portare nel più breve tempo possibile e in tutta sicurezza ai piedi dei campi innevati. Non è azzardato considerare come un prodotto “Pirelli per lo sci” anche il pneumatico Inverno, che nel 1950 ha sostituito il vecchio Artiglio d’anteguerra dando vita alla linea di pneumatici specializzati per neve e ghiaccio. L’immagine pubblicitaria del Pirelli Inverno è curata dal giovanissimo ma già affermato designer olandese Bob Noorda. E infine, qualora l’automobilista-sciatore sia incautamente sprovvisto di pneumatici adatti, nessun problema:  ecco le catene Pirelli antisdrucciolevoli con crociere in gomma, da applicare al normale pneumatico Stella Bianca per continuare a viaggiare senza incognite anche su neve e ghiaccio. Pieno di entusiasmo lo sciatore nei primi anni Cinquanta del Novecento cercava sui campi innevati di dimenticare gli anni precedenti: un “secondo con contorno” di accessori in gomma Pirelli.

Gennaio, tempo di sci e di sciatori. Ed è sul numero di gennaio 1949 della rivista “Pirelli”, nell’articolo “Gli accessori che fanno felici”, che si legge una definizione davvero fantasiosa dello sciatore: “ un ‘secondo’ con contorno: intorno alla carne circola una certa quantità di verdure […] di bell’aspetto e gradevoli, così agli accessori dello sciatore si richiedono diverse qualità -praticità, durata, minimo ingombro- che li rendano piacevoli non al palato, ma all’uso”. Sono tanti gli accessori che possono migliorare la vita dello sciatore. E sono tutti accessori in gomma Pirelli. Le cinghie usate per legare gli sci o per fissare gli scarponi agli attacchi, ad esempio: “che non devono essere una fonte di moccoli  -cosa che frequentemente sono le cinghiette di cuoio indurite dal gelo”. Per non indurre in turpiloquio lo sciatore, basta farli in gomma.

Lo ripete anche l’articolo di Nino NutrizioLe funivie hanno aperto le porte  della montagna”, pubblicato sempre sulla rivista “Pirelli” nel numero di dicembre 1949: “solo chi ha provato la fatica di manovrare con le mani inguantate, apprezza l’utilità delle piccole cose di facile montaggio. E’ sufficiente una lieve pressione, perchè la bella delle nevi abbia sciolto il cinturino di gomma che lega gli sci e i bastoni”. La “bella delle nevi” citata da Nutrizio è una ragazza bionda che riappare in foto nella stessa pagina per promuovere un altro accessorio indispensabile per lo sciatore moderno: i leggerissimi bastoncini da sci con impugnature e rotelle in indistruttibile gomma Pirelli. E spetta sempre alla stessa bionda sciatrice “di classe” chiudere idealmente l’inverno 1949 interpretando -per la quarta di copertina dell’ultimo numero del 1949 della Rivista- tutta la linea Pirelli per lo sci: oltre a cinghiette e bastoncini, qui in evidenza ci sono sia la praticissima giacca a vento Pirelli sia naturalmente le suole in gomma Alpina degli scarponi.

Nel 1951 cambia la sciatrice: la “bella delle nevi” lascia il posto alla “sciatrice di Madesimo”, ma non cambia “Il fascino delle piccole comodità”, come racconta l’articolo di Vittorio Bonicelli pubblicato nella rivista “Pirelli” di dicembre e dedicato alle mille opportunità che la gomma offre allo sciatore moderno. “La mia riconoscenza va anche ai moderni e semplicissimi congegni che rendono possibile il trasporto di sci e bagagli sul tetto di una automobile, senza le strazianti zuffe di una volta con i grovigli di corde bagnate e allentate”. Sullo sviluppo del portasci -tra l’altro- era intervenuto nientemeno che il genio dell’ingegner Carlo Barassi, che nella vita di ogni giorno si occupava di progettare pneumatici Pirelli ma non sapeva resistere alla sua passione di inventore. Così, tra un Cinturato e un BS3, Barassi aveva ideato un avveniristico portasci in tessuto elastico e gommapiuma, brevetto Pirelli-Kartell, adatto alle Topolino dell’epoca.

E qui siamo all’“accessorio” forse più importante per uno sciatore: l’automobile, che lo deve portare nel più breve tempo possibile e in tutta sicurezza ai piedi dei campi innevati. Non è azzardato considerare come un prodotto “Pirelli per lo sci” anche il pneumatico Inverno, che nel 1950 ha sostituito il vecchio Artiglio d’anteguerra dando vita alla linea di pneumatici specializzati per neve e ghiaccio. L’immagine pubblicitaria del Pirelli Inverno è curata dal giovanissimo ma già affermato designer olandese Bob Noorda. E infine, qualora l’automobilista-sciatore sia incautamente sprovvisto di pneumatici adatti, nessun problema:  ecco le catene Pirelli antisdrucciolevoli con crociere in gomma, da applicare al normale pneumatico Stella Bianca per continuare a viaggiare senza incognite anche su neve e ghiaccio. Pieno di entusiasmo lo sciatore nei primi anni Cinquanta del Novecento cercava sui campi innevati di dimenticare gli anni precedenti: un “secondo con contorno” di accessori in gomma Pirelli.

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Eccezionale ordinaria impresa

In un libro 24 storie d’aziende e di imprenditori che riescono a conciliare buoni bilanci e buona cultura del produrre

Le impese sono fatte per davvero di donne e uomini coraggiosi. Gente che si impegna, un po’ visionaria, non folle ma determinata. E’ poi da queste condizioni umane che nasce e cresce la cultura d’impresa che nel tempo rende unica ogni realtà produttiva che si rispetti. E, come spesso accade, è proprio dal racconto delle esperienze già fatte che si impara di più, oltre a conoscere meglio e a fondo i motivi del successo (e talvolta dell’insuccesso) di quanto è accaduto.

È per questo che è utile e importante leggere “Storie di ordinaria economia” di Massimo Folador pubblicato qualche settimana fa.

Il libro raccoglie le testimonianze di 24 imprese e dei protagonisti che le animano.  Storie, racconti di uomini e donne – appunto –, prima che di organizzazioni della produzione. Storie dalle quali emerge innanzitutto una predisposizione a guidare l’azienda gradualmente, a tratti quasi rallentando; essere imprenditori e manager quasi avendo una vista lunga del buon padre di famiglia e soprattutto in controtendenza rispetto ai ritmi pressanti del cambiamento. Camminare invece di correre. E anche con questo, non perdere nessun appuntamento importante, arrivare puntuali ad ogni impegno aziendale.

Il libro di Folador in circa 150 pagine fa quindi emergere le vicende di aziende che hanno deciso di mettere a bilancio il benessere del loro capitale umano e la loro capacità di agire socialmente sul territorio in cui operano. E non si tratta solo di realtà piccole, sparse magari in territori sconosciuti, ai margini dell’economia. Nel gran gruppo di aziende che Folador porta alla ribalta c’è di tutto.  Pagina dopo pagina si incontrano le storie di Add Value, AIDDA, Arimondo, Assimoco, Banca Etica, Basf, Call&Call, Cemon, CivitasViate, Cooperativa sociale Ai Rucc, Eurospin, GOEL, Gruppo Teddy, Gulliver, Loccioni, Manital, Nau, Ospedale di Locarno, Pedrollo,Phonetica, Sacchi, Yamamay. Cui si aggiungono le realtà culturali e sportive dell’Orchestra Sinfonica Rossini e l’esperienza del Rugby Parabiago. Organizzazioni efficienti della produzione – ci mancherebbe altro -, ma gestite con un passo diverso e in comparti diversissimi che vanno dalla distribuzione alla chimica, passando per l’arte e la cultura, per la finanza e la logistica oppure la sanità.

Scrive l’autore ad un certo punto del libro cercando di sintetizzare il senso di ciò che vi è raccontato: “Come per i contadini che ogni giorno sperimentano ciò che serve fare perché il raccolto sia abbondante, predisponendo il terreno per quelli successivi, così anche nel mondo dell’impresa oggi è divenuto importante «scrutare il terreno» dentro cui «seminiamo» le nostre azioni”. Bella l’introduzione di Marco Girardo che, descrivendo le condizioni in cui le imprese oggi devono operare, dice della presenza di “un tiro alla fune tra la fuga in avanti del mercato e la ricerca della qualità che richiederebbe invece tempi più lunghi e un’attenzione diversa”.

“Storie di ordinaria economia” racconta proprio come si può vincere al quotidiano tiro alla fune delle imprese.

Storie di ordinaria economia

Massimo Folador

Guerini Next, 2017

In un libro 24 storie d’aziende e di imprenditori che riescono a conciliare buoni bilanci e buona cultura del produrre

Le impese sono fatte per davvero di donne e uomini coraggiosi. Gente che si impegna, un po’ visionaria, non folle ma determinata. E’ poi da queste condizioni umane che nasce e cresce la cultura d’impresa che nel tempo rende unica ogni realtà produttiva che si rispetti. E, come spesso accade, è proprio dal racconto delle esperienze già fatte che si impara di più, oltre a conoscere meglio e a fondo i motivi del successo (e talvolta dell’insuccesso) di quanto è accaduto.

È per questo che è utile e importante leggere “Storie di ordinaria economia” di Massimo Folador pubblicato qualche settimana fa.

Il libro raccoglie le testimonianze di 24 imprese e dei protagonisti che le animano.  Storie, racconti di uomini e donne – appunto –, prima che di organizzazioni della produzione. Storie dalle quali emerge innanzitutto una predisposizione a guidare l’azienda gradualmente, a tratti quasi rallentando; essere imprenditori e manager quasi avendo una vista lunga del buon padre di famiglia e soprattutto in controtendenza rispetto ai ritmi pressanti del cambiamento. Camminare invece di correre. E anche con questo, non perdere nessun appuntamento importante, arrivare puntuali ad ogni impegno aziendale.

Il libro di Folador in circa 150 pagine fa quindi emergere le vicende di aziende che hanno deciso di mettere a bilancio il benessere del loro capitale umano e la loro capacità di agire socialmente sul territorio in cui operano. E non si tratta solo di realtà piccole, sparse magari in territori sconosciuti, ai margini dell’economia. Nel gran gruppo di aziende che Folador porta alla ribalta c’è di tutto.  Pagina dopo pagina si incontrano le storie di Add Value, AIDDA, Arimondo, Assimoco, Banca Etica, Basf, Call&Call, Cemon, CivitasViate, Cooperativa sociale Ai Rucc, Eurospin, GOEL, Gruppo Teddy, Gulliver, Loccioni, Manital, Nau, Ospedale di Locarno, Pedrollo,Phonetica, Sacchi, Yamamay. Cui si aggiungono le realtà culturali e sportive dell’Orchestra Sinfonica Rossini e l’esperienza del Rugby Parabiago. Organizzazioni efficienti della produzione – ci mancherebbe altro -, ma gestite con un passo diverso e in comparti diversissimi che vanno dalla distribuzione alla chimica, passando per l’arte e la cultura, per la finanza e la logistica oppure la sanità.

Scrive l’autore ad un certo punto del libro cercando di sintetizzare il senso di ciò che vi è raccontato: “Come per i contadini che ogni giorno sperimentano ciò che serve fare perché il raccolto sia abbondante, predisponendo il terreno per quelli successivi, così anche nel mondo dell’impresa oggi è divenuto importante «scrutare il terreno» dentro cui «seminiamo» le nostre azioni”. Bella l’introduzione di Marco Girardo che, descrivendo le condizioni in cui le imprese oggi devono operare, dice della presenza di “un tiro alla fune tra la fuga in avanti del mercato e la ricerca della qualità che richiederebbe invece tempi più lunghi e un’attenzione diversa”.

“Storie di ordinaria economia” racconta proprio come si può vincere al quotidiano tiro alla fune delle imprese.

Storie di ordinaria economia

Massimo Folador

Guerini Next, 2017

Innovare in rete e fare bene al territorio

Un articolo dell’Università della Tuscia approfondisce il virtuoso legame fra reti d’impresa e innovazione ambientale

 

L’attività delle imprese coinvolge anche l’ambiente che le circonda. Assunto apparentemente ormai ovvio, la constatazione dei legami fra attività produttiva a territorio (naturale e umano), che la circonda, devono ancora essere esplorati in maniera compiuta.

A questo contribuisce anche l’intervento di Giulio Guarini, Giuseppe Garofalo, Arianna Moschetti (del Dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa, Università degli studi della Tuscia), apparso su Argomenti – Rivista di economia, cultura e ricerca sociale.

“Reti d’impresa ambientali e innovazione: un’applicazione per l’Italia” è una corretta e puntuale analisi teorica e operativa delle relazioni che intercorrono fra imprese, reti d’impresa e innovazione ambientale. Scrivono in particolare gli autori che obiettivo dell’articolo è “quello di analizzare il ruolo delle reti d’impresa ambientali nei processi di innovazione”.

L’articolo quindi prende le mosse da una analisi teorica dell’innovazione e dell’innovazione ambientale in particolare. Il ruolo delle reti emerge come fondamentale. “Lo stretto legame tra reti d’impresa e innovazione – viene spiegato -, emerge come fenomeno dinamico: l’interazione tra diversi attori con diverse competenze e qualifiche aiuta a creare nuova conoscenza e quindi innovazioni, specialmente come risultato della complementarità tra i diversi saperi”.

Dopo la teoria, l’articolo passa ad una analisi operativa costituita da due parti. Prima di tutto una vera mappatura delle imprese che in Italia aderiscono a “reti ambientali”, e poi un approfondimento relativo alle caratteristiche organizzative e strutturali delle aziende coinvolte.

L’indagine di Guarini, Garofalo e Moschetti non è una lettura facilissima, molti sono i passaggi matematici e analitici, ma si tratta di un articolo che – dopo l’analisi -, riesce comunque a dare una sintesi chiara di un tema complesso.

Reti d’impresa ambientali e innovazione: un’applicazione per l’Italia

Giulio Guarini, Giuseppe Garofalo, Arianna Moschetti

Argomenti – Rivista di economia, cultura e ricerca sociale, terza serie, 8/2017

Un articolo dell’Università della Tuscia approfondisce il virtuoso legame fra reti d’impresa e innovazione ambientale

 

L’attività delle imprese coinvolge anche l’ambiente che le circonda. Assunto apparentemente ormai ovvio, la constatazione dei legami fra attività produttiva a territorio (naturale e umano), che la circonda, devono ancora essere esplorati in maniera compiuta.

A questo contribuisce anche l’intervento di Giulio Guarini, Giuseppe Garofalo, Arianna Moschetti (del Dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa, Università degli studi della Tuscia), apparso su Argomenti – Rivista di economia, cultura e ricerca sociale.

“Reti d’impresa ambientali e innovazione: un’applicazione per l’Italia” è una corretta e puntuale analisi teorica e operativa delle relazioni che intercorrono fra imprese, reti d’impresa e innovazione ambientale. Scrivono in particolare gli autori che obiettivo dell’articolo è “quello di analizzare il ruolo delle reti d’impresa ambientali nei processi di innovazione”.

L’articolo quindi prende le mosse da una analisi teorica dell’innovazione e dell’innovazione ambientale in particolare. Il ruolo delle reti emerge come fondamentale. “Lo stretto legame tra reti d’impresa e innovazione – viene spiegato -, emerge come fenomeno dinamico: l’interazione tra diversi attori con diverse competenze e qualifiche aiuta a creare nuova conoscenza e quindi innovazioni, specialmente come risultato della complementarità tra i diversi saperi”.

Dopo la teoria, l’articolo passa ad una analisi operativa costituita da due parti. Prima di tutto una vera mappatura delle imprese che in Italia aderiscono a “reti ambientali”, e poi un approfondimento relativo alle caratteristiche organizzative e strutturali delle aziende coinvolte.

L’indagine di Guarini, Garofalo e Moschetti non è una lettura facilissima, molti sono i passaggi matematici e analitici, ma si tratta di un articolo che – dopo l’analisi -, riesce comunque a dare una sintesi chiara di un tema complesso.

Reti d’impresa ambientali e innovazione: un’applicazione per l’Italia

Giulio Guarini, Giuseppe Garofalo, Arianna Moschetti

Argomenti – Rivista di economia, cultura e ricerca sociale, terza serie, 8/2017

Disagio sociale e rancori aggravano la crisi della “cittadella liberale”: che risposte dare?

Mercato, democrazia rappresentativa e globalizzazione sono sul banco degli imputati”. E “non sono le invasioni dei nuovi barbari a minacciare la cittadella liberale, sono le fondamenta della cittadella stessa a dare segni di cedimento”. Il giudizio è di Mattia Ferraresi, brillante giornalista, che da New York racconta gli Usa ai lettori de “Il Foglio”. E sta nelle pagine de “Il secolo greve”, un’analisi lucida, pubblicata da Marsilio, che va “alle origini del nuovo disordine globale”. Quel “greve” che contraddistingue i nostri faticosi e controversi Anni Duemila indica pesantezza, oppressione psicologica, dolore ma anche volgarità. E’ la cifra distintiva di tempi in cui il discorso pubblico s’è ridotto a schematici slogan partigiani e il linguaggio della politica, anche ad alti livelli istituzionali, non risponde più ai criteri della dialettica, della retorica, della costruzione del consenso ma serve solo ad aizzare i fans e insultare “i nemici”.

L’inchiesta di Ferraresi è dunque politica, sociale e culturale. Guarda all’attualità degli Stati Uniti, nella stagione della presidenza Trump, oramai arrivata a un anno di vita. Cerca le ragioni d’una insofferenza radicale per le culture del cosiddetto “ordine liberale” (appunto la democrazia rappresentativa, il mercato, le relazioni internazionali di colloquio e scambio, tutto quello che un grande scienziato liberale, Karl Popper, aveva sinteticamente chiamato “la società aperta”). E avverte: “Le recrudescenze dei nazionalismi, il mito dello strongman, la ruggente politica dell’identità sono scomposte conseguenze di un disagio: sottovalutarlo significa voltarsi dall’altra parte nella speranza che gli impresentabili populisti vengano sconfitti e la malattia scompaia da sé”.

Ecco una parola chiave. Disagio. Un tema sempre più attuale: “Left behind – How to help places hurt by globalisation”, aveva titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre 2017 per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva (ne avevamo parlato nel blog del 7 novembre scorso).

Un disagio economico (i ceti medi che non hanno avuto alcun reale vantaggio economico dalla globalizzazione e anzi hanno subìto le conseguenze negative delle radicali modifiche produttive, in termini di salari e posti di lavoro). E un disagio sociale e culturale, che investe gran parte delle nuove generazioni. Quelle, per esempio, dei trentenni e quarantenni, che è stata illusa dalle promesse d’un migliore futuro da effetti positivi di liberalizzazioni, flessibilità e globalizzazione e oggi invece vive nello sconforto dei sogni rimpiccioliti, immiseriti, infranti, del lavoro precario, delle immiserite prospettive di crescita. Le dà voce, tra gli altri, Raffaele Alberto Ventura in “Teoria della classe disagiata”, minimum fax. Documentando le crepe d’un minuscolo individualismo, le conseguenze della frattura del “patto generazionale”, i limiti d’una cultura “ridotta al mercato”. Un altro grave elemento di crisi politica e sociale, di sfiducia nella politica, nelle istituzioni (l’Europa, tra le altre), nelle possibilità di futuro. Facendo crescere “il rancore” (come documentato dall’ultimo Rapporto Censis) e i “risentimenti”: alimenti psicologici cinicamente sfruttati da chi, in politica, alimenta paura e vende rivolte, non responsabili riforme.

In stagioni di così radicali cambiamenti economici e sociali succede, appunto, che aumentino le diseguaglianze e le ingiustizie. Le due questioni sono ben diverse tra loro, come spiega Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015 (“IlSole24Ore”, 27 dicembre 2017): le prime fanno parte del ciclo economico e hanno anche aspetti positivi (stimolano competizione, mostrano gli effetti del premio al merito), purché non eccessive. Le seconde vengono giustamente percepite negativamente. Il problema politico con cui fare i conti, nel “secolo greve”, è la qualità della risposta.

Torna in mente l’antica lezione di Karl Marx: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi meriti” (una frase diventata poi riferimento per ogni legislazione liberale, riformista, socialdemocratica). Ma anche la sfida, ancora aperta di coniugare libertà e giustizia sociale (“Giustizia e libertà” è uno slogan che appartiene alla migliore cultura politica, quella dei liberali e democratici come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e poi Norberto Bobbio e gli originali “radicali” riuniti attorno alle pagine de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, da recuperare al discorso pubblico contemporaneo).

Temi forti, su cui approfondire le riflessioni, anche con filosofi attenti ai temi dell’etica pubblica e della responsabilità. Come Martha C. Nussbaum in “Rabbia e perdono – La generosità come giustizia”, Il Mulino. Nella società in cui crescono intolleranze e rancori e vengono messe in discussioni le ragioni stesse della convivenza civile, in nome di nazionalismi, razzismi e populismi antichi e nuovi, vale la pena andare alle radici dei sistemi di relazione, nelle piccole e grandi comunità. La Nussbaum insiste sull’analisi della “rabbia”, “velenosa e popolare”, legata “all’affermazione del rispetto personale, negli uomini alla virilità e nelle donne alla rivendicazione dell’eguaglianza”. Giuste partenze, spesso. Che però, distorte anche dalla pervasività dei nuovi media, alimentano circuiti viziosi di conflitti e contrapposizioni. Meglio, suggerisce la Nussbaum, rivedere le idee di perdono, punizione e giustizia, invocando “meno vendetta e più riconciliazione”: “L’ingiustizia dev’essere contrastata con un’azione coraggiosa ma soprattutto strategica. Costruire un mondo umanamente ‘abitabile’ richiede intelligenza, autocontrollo e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male”. E’ un forte impegno morale. Ma anche un lungimirante discorso sulla sopravvivenza della democrazia.

Accanto alla lungimiranza, c’è l’urgenza, per evitare che degrado e disagio si aggravino. E per non fare passare inutilmente altro tempo.

C’era chi aveva già visto chiaro, nelle tendenze di crisi, più di vent’anni fa. Ma non era stato ascoltato. Come Christopher Lasch, uno dei maggiori storici delle idee, autore nel 1994 di “La ribellione delle élite”, pubblicato allora in Italia da Feltrinelli: la perdita del contatto tra aristocrazie economiche ed intellettuali e “la gente normale”, il multiculturalismo snob, il liberalismo benestante di finanzieri, manager, artisti di successo e comunicatori, smart people sempre in viaggio, in movimento, pervasi da “una visione turistica del mondo”. Sono state le élite a “ribellarsi” alla masse, argomentava provocatoriamente Lasch, criticando con sguardo da uomo di sinistra una serie di vizi che già allora stavano minando le fondamenta solidali della stessa democrazia americana (alcuni di quegli atteggiamenti da “radical chic” erano stati messi in ridicolo, già nel 1970, dalle polemiche di Tom Wolfe, scrittore conservatore). Adesso il libro è di nuovo salito alla ribalta, riletto e rilanciato da uomini di destra, come Steve Bannon, a lungo sostenitore della presidenza Trump (ha strani percorsi, la storia…). E torna in libreria anche in Italia,  pubblicato da Neri Pozza, con un nuovo titolo, “La rivolta delle élite” e un sottotitolo esplicito: “Il tradimento della democrazia”. Con un suggerimento ancora valido, per evitare nuove fratture tra poteri economici e culturali e middle class, alimentando così gravi populismi: costruire comunità fondate su valori condivisi, confronto aperto, inclusione sociale, eguaglianza delle opportunità, competenze responsabili, mutua collaborazione. Ridare, insomma, attualità alla buona democrazia e all’economia “civile”.

Mercato, democrazia rappresentativa e globalizzazione sono sul banco degli imputati”. E “non sono le invasioni dei nuovi barbari a minacciare la cittadella liberale, sono le fondamenta della cittadella stessa a dare segni di cedimento”. Il giudizio è di Mattia Ferraresi, brillante giornalista, che da New York racconta gli Usa ai lettori de “Il Foglio”. E sta nelle pagine de “Il secolo greve”, un’analisi lucida, pubblicata da Marsilio, che va “alle origini del nuovo disordine globale”. Quel “greve” che contraddistingue i nostri faticosi e controversi Anni Duemila indica pesantezza, oppressione psicologica, dolore ma anche volgarità. E’ la cifra distintiva di tempi in cui il discorso pubblico s’è ridotto a schematici slogan partigiani e il linguaggio della politica, anche ad alti livelli istituzionali, non risponde più ai criteri della dialettica, della retorica, della costruzione del consenso ma serve solo ad aizzare i fans e insultare “i nemici”.

L’inchiesta di Ferraresi è dunque politica, sociale e culturale. Guarda all’attualità degli Stati Uniti, nella stagione della presidenza Trump, oramai arrivata a un anno di vita. Cerca le ragioni d’una insofferenza radicale per le culture del cosiddetto “ordine liberale” (appunto la democrazia rappresentativa, il mercato, le relazioni internazionali di colloquio e scambio, tutto quello che un grande scienziato liberale, Karl Popper, aveva sinteticamente chiamato “la società aperta”). E avverte: “Le recrudescenze dei nazionalismi, il mito dello strongman, la ruggente politica dell’identità sono scomposte conseguenze di un disagio: sottovalutarlo significa voltarsi dall’altra parte nella speranza che gli impresentabili populisti vengano sconfitti e la malattia scompaia da sé”.

Ecco una parola chiave. Disagio. Un tema sempre più attuale: “Left behind – How to help places hurt by globalisation”, aveva titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre 2017 per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva (ne avevamo parlato nel blog del 7 novembre scorso).

Un disagio economico (i ceti medi che non hanno avuto alcun reale vantaggio economico dalla globalizzazione e anzi hanno subìto le conseguenze negative delle radicali modifiche produttive, in termini di salari e posti di lavoro). E un disagio sociale e culturale, che investe gran parte delle nuove generazioni. Quelle, per esempio, dei trentenni e quarantenni, che è stata illusa dalle promesse d’un migliore futuro da effetti positivi di liberalizzazioni, flessibilità e globalizzazione e oggi invece vive nello sconforto dei sogni rimpiccioliti, immiseriti, infranti, del lavoro precario, delle immiserite prospettive di crescita. Le dà voce, tra gli altri, Raffaele Alberto Ventura in “Teoria della classe disagiata”, minimum fax. Documentando le crepe d’un minuscolo individualismo, le conseguenze della frattura del “patto generazionale”, i limiti d’una cultura “ridotta al mercato”. Un altro grave elemento di crisi politica e sociale, di sfiducia nella politica, nelle istituzioni (l’Europa, tra le altre), nelle possibilità di futuro. Facendo crescere “il rancore” (come documentato dall’ultimo Rapporto Censis) e i “risentimenti”: alimenti psicologici cinicamente sfruttati da chi, in politica, alimenta paura e vende rivolte, non responsabili riforme.

In stagioni di così radicali cambiamenti economici e sociali succede, appunto, che aumentino le diseguaglianze e le ingiustizie. Le due questioni sono ben diverse tra loro, come spiega Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015 (“IlSole24Ore”, 27 dicembre 2017): le prime fanno parte del ciclo economico e hanno anche aspetti positivi (stimolano competizione, mostrano gli effetti del premio al merito), purché non eccessive. Le seconde vengono giustamente percepite negativamente. Il problema politico con cui fare i conti, nel “secolo greve”, è la qualità della risposta.

Torna in mente l’antica lezione di Karl Marx: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi meriti” (una frase diventata poi riferimento per ogni legislazione liberale, riformista, socialdemocratica). Ma anche la sfida, ancora aperta di coniugare libertà e giustizia sociale (“Giustizia e libertà” è uno slogan che appartiene alla migliore cultura politica, quella dei liberali e democratici come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e poi Norberto Bobbio e gli originali “radicali” riuniti attorno alle pagine de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, da recuperare al discorso pubblico contemporaneo).

Temi forti, su cui approfondire le riflessioni, anche con filosofi attenti ai temi dell’etica pubblica e della responsabilità. Come Martha C. Nussbaum in “Rabbia e perdono – La generosità come giustizia”, Il Mulino. Nella società in cui crescono intolleranze e rancori e vengono messe in discussioni le ragioni stesse della convivenza civile, in nome di nazionalismi, razzismi e populismi antichi e nuovi, vale la pena andare alle radici dei sistemi di relazione, nelle piccole e grandi comunità. La Nussbaum insiste sull’analisi della “rabbia”, “velenosa e popolare”, legata “all’affermazione del rispetto personale, negli uomini alla virilità e nelle donne alla rivendicazione dell’eguaglianza”. Giuste partenze, spesso. Che però, distorte anche dalla pervasività dei nuovi media, alimentano circuiti viziosi di conflitti e contrapposizioni. Meglio, suggerisce la Nussbaum, rivedere le idee di perdono, punizione e giustizia, invocando “meno vendetta e più riconciliazione”: “L’ingiustizia dev’essere contrastata con un’azione coraggiosa ma soprattutto strategica. Costruire un mondo umanamente ‘abitabile’ richiede intelligenza, autocontrollo e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male”. E’ un forte impegno morale. Ma anche un lungimirante discorso sulla sopravvivenza della democrazia.

Accanto alla lungimiranza, c’è l’urgenza, per evitare che degrado e disagio si aggravino. E per non fare passare inutilmente altro tempo.

C’era chi aveva già visto chiaro, nelle tendenze di crisi, più di vent’anni fa. Ma non era stato ascoltato. Come Christopher Lasch, uno dei maggiori storici delle idee, autore nel 1994 di “La ribellione delle élite”, pubblicato allora in Italia da Feltrinelli: la perdita del contatto tra aristocrazie economiche ed intellettuali e “la gente normale”, il multiculturalismo snob, il liberalismo benestante di finanzieri, manager, artisti di successo e comunicatori, smart people sempre in viaggio, in movimento, pervasi da “una visione turistica del mondo”. Sono state le élite a “ribellarsi” alla masse, argomentava provocatoriamente Lasch, criticando con sguardo da uomo di sinistra una serie di vizi che già allora stavano minando le fondamenta solidali della stessa democrazia americana (alcuni di quegli atteggiamenti da “radical chic” erano stati messi in ridicolo, già nel 1970, dalle polemiche di Tom Wolfe, scrittore conservatore). Adesso il libro è di nuovo salito alla ribalta, riletto e rilanciato da uomini di destra, come Steve Bannon, a lungo sostenitore della presidenza Trump (ha strani percorsi, la storia…). E torna in libreria anche in Italia,  pubblicato da Neri Pozza, con un nuovo titolo, “La rivolta delle élite” e un sottotitolo esplicito: “Il tradimento della democrazia”. Con un suggerimento ancora valido, per evitare nuove fratture tra poteri economici e culturali e middle class, alimentando così gravi populismi: costruire comunità fondate su valori condivisi, confronto aperto, inclusione sociale, eguaglianza delle opportunità, competenze responsabili, mutua collaborazione. Ridare, insomma, attualità alla buona democrazia e all’economia “civile”.

Nasce nella neve il BS3

Fu molto nevoso l’inverno tra il ’55 e il ’56. L’ingegner Carlo Barassi era allora a capo dell’Ufficio Tecnologico della Direzione Tecnica Pneumatici Pirelli di Milano Bicocca. In azienda da quasi vent’anni, s’era fatto la fama di inventore estroverso e pieno di fantasia: un “sognatore dell’ingegno”, come lo era stato Luigi Emanueli prima di lui o Emanuele Jona prima ancora. Lunga tradizione d’inventiva pirelliana. Fu così che gli venne l’intuizione di riprendere l’invenzione dell’ingegner Lugli di qualche anno prima, che ancora non aveva trovato applicazione. Da anni alla guida del Laboratorio Fisico del Settore Gomma Pirelli, l’ingegner Giuseppe Lugli si era immaginato nientemeno che si potesse fare un pneumatico in cui carcassa e battistrada fossero indipendenti e intercambiabili. L’idea era quella di vulcanizzare indipendentemente carcassa e fascia battistrada per poi tenerle unite con la sola forza della pressione di gonfiaggio. Barassi piombò – è il caso di dire “a valanga” – sull’invenzione del collega: e se l’anello battistrada staccato fosse a sua volta diviso in tre fasce? E ogni fascia potesse comportarsi in modo diverso – e ottimizzato – rispetto alle altre due? Un Battistrada Separato, con 3 anelli intercambiabili per costruire un disegno invernale a prova di neve e ghiaccio… Finito l’inverno, poi, bastava sostituire i tre anelli a disegno Inverno con tre anelli a disegno Cinturato 367 e la stessa copertura cambiava tipo di utilizzo, diventando un pneumatico estivo. Semplicemente geniale.

Nell’autunno del 1959, il lancio del Pirelli BS3 fu un vero e proprio evento internazionale: il pneumatico costituito da una carcassa su cui montare separatamente tre diversi anelli battistrada fu vista come un’invenzione rivoluzionaria. Conferenza stampa al Salone di Torino, come a dire nel Tempio dell’Automobile. Con visita del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Un video di presentazione, girato allo Stadio del Ghiaccio di Cortina. Regia di Ermanno Scopinich, con le pattinatrici a rincorrere l’Alfa Romeo Giulietta, sicura sul ghiaccio grazie a quella magia di disegno battistrada del BS3. Da quell’inverno del Cinquantanove, per il Pirelli a Battistrada Separato inizia una carriera per molti versi complessa e interessante. Tiene a battesimo – ad esempio – il programma di apertura di gommisti presso gli Autogrill dell’Autostrada del Sole nel 1961: mentre ti fai cappuccino e brioche, eccoti montati i tuoi quattro BS3 per affrontare la neve in tutta sicurezza. E poi una improvvisa e vincente apparizione nei rally, disciplina motoristica che sta muovendo i suoi primi passi: geniale poter sostituire il disegno a seconda della prova speciale. Chiedere ai gentlemen-driver del Rally di Montecarlo 1961. E poi le pubblicità disegnate da Riccardo Manzi, con quell’omino assorto sotto la neve ma riparato dal suo BS3 come un ombrello…

Il BS3 fu un’invenzione. E come tale ebbe la sua parabola. Qualche anno dopo – 1964 – fu semplificato: non più tre anelli ma uno solo, sempre nell’opzione estivo/invernale. Divenne BS e basta. Si cominciò a pensare anche ai camion, perchè sostituiva facilmente la ricostruzione. E proprio quei rally che furono la palestra per il Battistrada Separato generarono l’idea di una linea di pneumatici capaci di unire le prestazioni invernali a quelle estive. Nascevano i Pirelli Winter: iniziava un nuovo racconto d’inverno.

Fu molto nevoso l’inverno tra il ’55 e il ’56. L’ingegner Carlo Barassi era allora a capo dell’Ufficio Tecnologico della Direzione Tecnica Pneumatici Pirelli di Milano Bicocca. In azienda da quasi vent’anni, s’era fatto la fama di inventore estroverso e pieno di fantasia: un “sognatore dell’ingegno”, come lo era stato Luigi Emanueli prima di lui o Emanuele Jona prima ancora. Lunga tradizione d’inventiva pirelliana. Fu così che gli venne l’intuizione di riprendere l’invenzione dell’ingegner Lugli di qualche anno prima, che ancora non aveva trovato applicazione. Da anni alla guida del Laboratorio Fisico del Settore Gomma Pirelli, l’ingegner Giuseppe Lugli si era immaginato nientemeno che si potesse fare un pneumatico in cui carcassa e battistrada fossero indipendenti e intercambiabili. L’idea era quella di vulcanizzare indipendentemente carcassa e fascia battistrada per poi tenerle unite con la sola forza della pressione di gonfiaggio. Barassi piombò – è il caso di dire “a valanga” – sull’invenzione del collega: e se l’anello battistrada staccato fosse a sua volta diviso in tre fasce? E ogni fascia potesse comportarsi in modo diverso – e ottimizzato – rispetto alle altre due? Un Battistrada Separato, con 3 anelli intercambiabili per costruire un disegno invernale a prova di neve e ghiaccio… Finito l’inverno, poi, bastava sostituire i tre anelli a disegno Inverno con tre anelli a disegno Cinturato 367 e la stessa copertura cambiava tipo di utilizzo, diventando un pneumatico estivo. Semplicemente geniale.

Nell’autunno del 1959, il lancio del Pirelli BS3 fu un vero e proprio evento internazionale: il pneumatico costituito da una carcassa su cui montare separatamente tre diversi anelli battistrada fu vista come un’invenzione rivoluzionaria. Conferenza stampa al Salone di Torino, come a dire nel Tempio dell’Automobile. Con visita del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Un video di presentazione, girato allo Stadio del Ghiaccio di Cortina. Regia di Ermanno Scopinich, con le pattinatrici a rincorrere l’Alfa Romeo Giulietta, sicura sul ghiaccio grazie a quella magia di disegno battistrada del BS3. Da quell’inverno del Cinquantanove, per il Pirelli a Battistrada Separato inizia una carriera per molti versi complessa e interessante. Tiene a battesimo – ad esempio – il programma di apertura di gommisti presso gli Autogrill dell’Autostrada del Sole nel 1961: mentre ti fai cappuccino e brioche, eccoti montati i tuoi quattro BS3 per affrontare la neve in tutta sicurezza. E poi una improvvisa e vincente apparizione nei rally, disciplina motoristica che sta muovendo i suoi primi passi: geniale poter sostituire il disegno a seconda della prova speciale. Chiedere ai gentlemen-driver del Rally di Montecarlo 1961. E poi le pubblicità disegnate da Riccardo Manzi, con quell’omino assorto sotto la neve ma riparato dal suo BS3 come un ombrello…

Il BS3 fu un’invenzione. E come tale ebbe la sua parabola. Qualche anno dopo – 1964 – fu semplificato: non più tre anelli ma uno solo, sempre nell’opzione estivo/invernale. Divenne BS e basta. Si cominciò a pensare anche ai camion, perchè sostituiva facilmente la ricostruzione. E proprio quei rally che furono la palestra per il Battistrada Separato generarono l’idea di una linea di pneumatici capaci di unire le prestazioni invernali a quelle estive. Nascevano i Pirelli Winter: iniziava un nuovo racconto d’inverno.

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La strada della sostenibilità d’impresa

Un libro di Ca’ Foscari sintetizza gli strumenti e lo stato dell’arte dell’azienda consapevole di quello che fa

 

L’azienda che sceglie una gestione attenta alla compatibilità con l’ambiente circostante (la cosiddetta sostenibilità), finisce per diventare un’impresa a tutto tondo. Attenta ai bilanci ma anche a quanto di non esattamente misurabile implica la sua attività. Esperienze diverse, però, costituiscono il vero patrimonio dell’impresa sostenibile; vicenda imprenditoriale che non può essere costretta entro una rigida teoria, quello della sostenibilità d’impresa è un tema che si “fa sul campo”.

“L’azienda sostenibile. Trend, strumenti e case study” – libro curato da Marco Fasan e Stefano Bianchi –, è allora una lettura da fare per entrare meglio nelle storie di sostenibilità di molte realtà produttive.

Viene spiegato nella presentazione del volume del Rettore di Ca’ Foscari: “Questa pubblicazione si focalizza su quelle organizzazioni che hanno deciso di impostare la propria azione nella prospettiva della sostenibilità, scegliendo volontariamente di fare impresa tenendo conto del loro impatto, non solo economico ma anche sociale e ambientale e di rendicontare il proprio operato in modo trasparente e puntuale a tutti gli stakeholder. Ne esce un racconto dinamico e vivace che racconta realtà diverse, ma tutte accomunate dallo sguardo fiero verso il futuro di chi ha scelto di operare in modo responsabile e inclusivo e ha saputo trasformare in opportunità per sé e per l’intera comunità ciò che per altre aziende e realtà costituisce mero adempimento”. Già, perché il merito del libro (oltre all’interesse generale dei suoi contenuti), è proprio quello di far comprendere il salto di livello fra “mero adempimento” volto alla sostenibilità e qualcosa di più e di diverso che le imprese possono avviare.

Il libro si muove quindi lungo il filo della teoria e della pratica, raccontando esperienze varie di sostenibilità (universitarie, legate al ciclo dei rifiuti, alla comunicazione e ai servizi), e cucendole insieme. Fra gli altri, viene toccato il tema delle Benefit Corporation (viste come entità che  “riconoscono la necessità di un cambio di paradigma e mirano a utilizzare il business come forza positiva di cambiamento”), così come dell’Integrated Reporting assunto come lo “standard di riferimento per il presente ed, ancora di più, per il futuro” per quanto riguarda la rendicontazione delle attività che vengono comunicate ai mercati di riferimento.

Il libro curato da Fasan e Bianchi – che fra l’altro le Edizioni Ca’ Foscari mettono a disposizione libera dei lettori –, è un buon modo per capire di più dell’attività dell’impresa sostenibile e magari per metterla in pratica con maggiore consapevolezza.

 

L’azienda sostenibile. Trend, strumenti e case study

a cura di Marco Fasan e Stefano Bianchi

Edizioni Ca’ Foscari, 2017

Un libro di Ca’ Foscari sintetizza gli strumenti e lo stato dell’arte dell’azienda consapevole di quello che fa

 

L’azienda che sceglie una gestione attenta alla compatibilità con l’ambiente circostante (la cosiddetta sostenibilità), finisce per diventare un’impresa a tutto tondo. Attenta ai bilanci ma anche a quanto di non esattamente misurabile implica la sua attività. Esperienze diverse, però, costituiscono il vero patrimonio dell’impresa sostenibile; vicenda imprenditoriale che non può essere costretta entro una rigida teoria, quello della sostenibilità d’impresa è un tema che si “fa sul campo”.

“L’azienda sostenibile. Trend, strumenti e case study” – libro curato da Marco Fasan e Stefano Bianchi –, è allora una lettura da fare per entrare meglio nelle storie di sostenibilità di molte realtà produttive.

Viene spiegato nella presentazione del volume del Rettore di Ca’ Foscari: “Questa pubblicazione si focalizza su quelle organizzazioni che hanno deciso di impostare la propria azione nella prospettiva della sostenibilità, scegliendo volontariamente di fare impresa tenendo conto del loro impatto, non solo economico ma anche sociale e ambientale e di rendicontare il proprio operato in modo trasparente e puntuale a tutti gli stakeholder. Ne esce un racconto dinamico e vivace che racconta realtà diverse, ma tutte accomunate dallo sguardo fiero verso il futuro di chi ha scelto di operare in modo responsabile e inclusivo e ha saputo trasformare in opportunità per sé e per l’intera comunità ciò che per altre aziende e realtà costituisce mero adempimento”. Già, perché il merito del libro (oltre all’interesse generale dei suoi contenuti), è proprio quello di far comprendere il salto di livello fra “mero adempimento” volto alla sostenibilità e qualcosa di più e di diverso che le imprese possono avviare.

Il libro si muove quindi lungo il filo della teoria e della pratica, raccontando esperienze varie di sostenibilità (universitarie, legate al ciclo dei rifiuti, alla comunicazione e ai servizi), e cucendole insieme. Fra gli altri, viene toccato il tema delle Benefit Corporation (viste come entità che  “riconoscono la necessità di un cambio di paradigma e mirano a utilizzare il business come forza positiva di cambiamento”), così come dell’Integrated Reporting assunto come lo “standard di riferimento per il presente ed, ancora di più, per il futuro” per quanto riguarda la rendicontazione delle attività che vengono comunicate ai mercati di riferimento.

Il libro curato da Fasan e Bianchi – che fra l’altro le Edizioni Ca’ Foscari mettono a disposizione libera dei lettori –, è un buon modo per capire di più dell’attività dell’impresa sostenibile e magari per metterla in pratica con maggiore consapevolezza.

 

L’azienda sostenibile. Trend, strumenti e case study

a cura di Marco Fasan e Stefano Bianchi

Edizioni Ca’ Foscari, 2017

La miglior impresa sostenibile

Sintetizzati in una tesi alla Ca’ Foscari gli elementi e i passaggi principali che delineano la Corporate Social Responsibility

 

Attraverso la maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, l’impresa può crescere dal punto di vista sociale oltre che economico. Ma occorrono indicazioni certe, parametri univoci, metodi di misurazione affidabili. E’ lungo questa strada che ha lavorato Silvia Garon con la sua tesi presentata alla Ca’ Foscari di Venezia. Il lavoro – non molte pagine ma scritte con chiarezza -, approfondisce il concetto di sostenibilità d’impresa, prima dal punto di vista teorico e poi da quello quantitativo per arrivare infine ad esaminare gli aspetti legati alla comunicazione della sostenibilità stessa. Vengono allora toccati i temi relativi alle diverse forme di sostenibilità (sociale, economica, ambientale), oltre che alle metodologie per la sua misurazione, per arrivare quindi a sviluppare, anche operativamente, i concetti di CSR (Corporate Social Responsibility) e quindi di Bilancio Sociale.

Silvia Garon lega quindi tutti i passaggi con una prima sintesi: “Attraverso strumenti come la Responsabilità Sociale d’Impresa e il Bilancio Sociale, stilato contestualmente al Bilancio d’Esercizio, sarà possibile coinvolgere tutti i principali portatori d’interesse dell’impresa delle attività da essa svolte, non limitandosi quindi ai soli aspetti finanziari e contabili, ma riuscendo a rendere consapevoli tutti gli  stakeholder sugli effetti e sulle ricadute che l’azienda produce nei loro confronti applicando una determinata politica sostenibile”.

Scrive quindi l’autrice nelle conclusioni: “Attraverso indici, misurazioni e costi sostenuti è possibile tracciare un profilo etico e sociale più completo al fine di confrontarsi con gli stakeholder ed analizzare le problematiche e i punti di forza dell’organizzazione”.

L’impresa sostenibile, quindi, come massima e più completa espressione di quella cultura del produrre che caratterizza le migliori avventure imprenditoriali, fatte di sapienza umana oltre che di capacità tecnica. Ma anche l’impresa che riesce a colloquiare con il territorio in cui “abita” e in cui “lavora”.

Il lavoro di Silvia Garon non contiene particolari novità dottrinali, ma ha il merito di essere scritto in modo esaustivo e riesce a dare i lineamenti fondamentali di un tema importante ma complesso, diffuso ma ancora poco conosciuto per davvero.

Sostenibilità d’Impresa 

Silvia Garon

Università Ca’ Foscari, Venezia, Corso di Laurea in Economia Aziendale, 2017

Sintetizzati in una tesi alla Ca’ Foscari gli elementi e i passaggi principali che delineano la Corporate Social Responsibility

 

Attraverso la maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, l’impresa può crescere dal punto di vista sociale oltre che economico. Ma occorrono indicazioni certe, parametri univoci, metodi di misurazione affidabili. E’ lungo questa strada che ha lavorato Silvia Garon con la sua tesi presentata alla Ca’ Foscari di Venezia. Il lavoro – non molte pagine ma scritte con chiarezza -, approfondisce il concetto di sostenibilità d’impresa, prima dal punto di vista teorico e poi da quello quantitativo per arrivare infine ad esaminare gli aspetti legati alla comunicazione della sostenibilità stessa. Vengono allora toccati i temi relativi alle diverse forme di sostenibilità (sociale, economica, ambientale), oltre che alle metodologie per la sua misurazione, per arrivare quindi a sviluppare, anche operativamente, i concetti di CSR (Corporate Social Responsibility) e quindi di Bilancio Sociale.

Silvia Garon lega quindi tutti i passaggi con una prima sintesi: “Attraverso strumenti come la Responsabilità Sociale d’Impresa e il Bilancio Sociale, stilato contestualmente al Bilancio d’Esercizio, sarà possibile coinvolgere tutti i principali portatori d’interesse dell’impresa delle attività da essa svolte, non limitandosi quindi ai soli aspetti finanziari e contabili, ma riuscendo a rendere consapevoli tutti gli  stakeholder sugli effetti e sulle ricadute che l’azienda produce nei loro confronti applicando una determinata politica sostenibile”.

Scrive quindi l’autrice nelle conclusioni: “Attraverso indici, misurazioni e costi sostenuti è possibile tracciare un profilo etico e sociale più completo al fine di confrontarsi con gli stakeholder ed analizzare le problematiche e i punti di forza dell’organizzazione”.

L’impresa sostenibile, quindi, come massima e più completa espressione di quella cultura del produrre che caratterizza le migliori avventure imprenditoriali, fatte di sapienza umana oltre che di capacità tecnica. Ma anche l’impresa che riesce a colloquiare con il territorio in cui “abita” e in cui “lavora”.

Il lavoro di Silvia Garon non contiene particolari novità dottrinali, ma ha il merito di essere scritto in modo esaustivo e riesce a dare i lineamenti fondamentali di un tema importante ma complesso, diffuso ma ancora poco conosciuto per davvero.

Sostenibilità d’Impresa 

Silvia Garon

Università Ca’ Foscari, Venezia, Corso di Laurea in Economia Aziendale, 2017

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