Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Identità d’impresa

Una ricerca sui cambiamenti organizzativi fa meglio comprendere le relazioni umane dentro e fuori la persona

 

Imprese fatte di donne e uomini. Imprenditori ma anche operai, manager  ma anche impiegati. L’assunto è già noto, ma serve sempre ricordarne il centro: non c’è organizzazione della produzione che funzioni come si deve senza intenti condivisi. In questo ambito è anche importante comprendere cosa accade di fronte al cambiamento.

E’ per cercare di dare una risposta a questo tema che Giovanni Di Stefano, Francesca Manerchia, Alessia Pantaleo, Alessia Liga (tutti ricercatori dell’Università di Palermo), hanno condotto l’indagine su cosa accade quando qualcosa nell’organizzazione assume assetti diversi da prima.

Più precisamente, come spiegano gli autori, la ricerca “indaga come il cambiamento organizzativo produce delle conseguenze sul piano dell’identità professionale e personale dei lavoratori, oltre che sulla qualità della loro identificazione con l’organizzazione”. Il caso oggetto di studio è molto preciso: 12 dipendenti di un piccolo presidio ospedaliero, colpito da un processo di ridimensionamento a causa di una rimodulazione del personale e dei posti letto. A questi è stata somministrata un’intervista narrativa con l’obiettivo di indagare “l’impatto del cambiamento organizzativo in corso sulle identità personali e professionali”. Caso specifico e particolare, dunque, che vale però per altre situazioni simili. Vicende nelle quali, per effetto di decisioni dovute magari a fattori esterni, la squadra cambia, l’organizzazione si evolve, arrivano nuovi “capi”, altri vanno, nuovi paradigmi organizzativi prendono il posto di quelli precedenti, addirittura uffici e fabbriche vengono spostati.

La domanda di fondo alla quale rispondere è: come cambia l’identità e la vita delle persone?

Spiegano ancora gli autori: “Le interviste, esplorate tramite procedure di analisi statistica del contenuto, hanno fatto emergere come i lavoratori che tendono a identificarsi maggiormente con il proprio ruolo professionale, patiscono ripercussioni negative sulla rappresentazione di sé, venendo meno l’identificazione con l’azienda, percepita come instabile e non in grado di offrire sicurezze. La precarietà percepita in questa fase di transizione mette in crisi l’identità professionale e i processi di metabolizzazione del cambiamento, condizionando le scelte personali e la vita quotidiana dei soggetti coinvolti”.

Insomma, cambia l’impresa e cambia il mondo, dentro e fuori chi ci lavora.

L’indagine di Di Stefano, Manerchia, Pantaleo e  Liga non è sempre di facilissima lettura, ma accompagna chi legge lungo un percorso prima teorica e poi sul campo, che apre visioni importanti per completare quella più generale su come produzione e lavoro vengono vissuti per davvero. Scrivono ad un certo punto gli autori: “Le organizzazioni in cui operiamo, rappresentano (…) il fondo istituzionale comune in cui risiedono le fondamenta della nostra identità”.

Identità in transizione. Il senso di sé personale e professionale in rapporto al cambiamento organizzativo

Giovanni Di Stefano, Francesca Manerchia, Alessia Pantaleo, Alessia Liga

Narrare i gruppi .Etnografia dell’interazione quotidiana.  Prospettive cliniche e sociali, vol. 12, n° 2, dicembre 2017

Una ricerca sui cambiamenti organizzativi fa meglio comprendere le relazioni umane dentro e fuori la persona

 

Imprese fatte di donne e uomini. Imprenditori ma anche operai, manager  ma anche impiegati. L’assunto è già noto, ma serve sempre ricordarne il centro: non c’è organizzazione della produzione che funzioni come si deve senza intenti condivisi. In questo ambito è anche importante comprendere cosa accade di fronte al cambiamento.

E’ per cercare di dare una risposta a questo tema che Giovanni Di Stefano, Francesca Manerchia, Alessia Pantaleo, Alessia Liga (tutti ricercatori dell’Università di Palermo), hanno condotto l’indagine su cosa accade quando qualcosa nell’organizzazione assume assetti diversi da prima.

Più precisamente, come spiegano gli autori, la ricerca “indaga come il cambiamento organizzativo produce delle conseguenze sul piano dell’identità professionale e personale dei lavoratori, oltre che sulla qualità della loro identificazione con l’organizzazione”. Il caso oggetto di studio è molto preciso: 12 dipendenti di un piccolo presidio ospedaliero, colpito da un processo di ridimensionamento a causa di una rimodulazione del personale e dei posti letto. A questi è stata somministrata un’intervista narrativa con l’obiettivo di indagare “l’impatto del cambiamento organizzativo in corso sulle identità personali e professionali”. Caso specifico e particolare, dunque, che vale però per altre situazioni simili. Vicende nelle quali, per effetto di decisioni dovute magari a fattori esterni, la squadra cambia, l’organizzazione si evolve, arrivano nuovi “capi”, altri vanno, nuovi paradigmi organizzativi prendono il posto di quelli precedenti, addirittura uffici e fabbriche vengono spostati.

La domanda di fondo alla quale rispondere è: come cambia l’identità e la vita delle persone?

Spiegano ancora gli autori: “Le interviste, esplorate tramite procedure di analisi statistica del contenuto, hanno fatto emergere come i lavoratori che tendono a identificarsi maggiormente con il proprio ruolo professionale, patiscono ripercussioni negative sulla rappresentazione di sé, venendo meno l’identificazione con l’azienda, percepita come instabile e non in grado di offrire sicurezze. La precarietà percepita in questa fase di transizione mette in crisi l’identità professionale e i processi di metabolizzazione del cambiamento, condizionando le scelte personali e la vita quotidiana dei soggetti coinvolti”.

Insomma, cambia l’impresa e cambia il mondo, dentro e fuori chi ci lavora.

L’indagine di Di Stefano, Manerchia, Pantaleo e  Liga non è sempre di facilissima lettura, ma accompagna chi legge lungo un percorso prima teorica e poi sul campo, che apre visioni importanti per completare quella più generale su come produzione e lavoro vengono vissuti per davvero. Scrivono ad un certo punto gli autori: “Le organizzazioni in cui operiamo, rappresentano (…) il fondo istituzionale comune in cui risiedono le fondamenta della nostra identità”.

Identità in transizione. Il senso di sé personale e professionale in rapporto al cambiamento organizzativo

Giovanni Di Stefano, Francesca Manerchia, Alessia Pantaleo, Alessia Liga

Narrare i gruppi .Etnografia dell’interazione quotidiana.  Prospettive cliniche e sociali, vol. 12, n° 2, dicembre 2017

Sostenibilità sociale e ambientale ed economia civile: una buona scelta per fare crescere imprese e Paese

L’industria è conoscenza. Competenze con solide radici nella tradizione del “bello e ben fatto” e intelligente apertura all’innovazione. E cultura politecnica che fa sintesi tra scienza, tecnologia e saperi umanistici. La sua competitività, soprattutto in Italia, fa leva sulle capacità di cogliere tempestivamente il cambiamento e di adattarvi produzioni e prodotti, avendo “la qualità” come valore distintivo. E, negli sconvolgimenti della globalizzazione più impetuosa e della crescita delle diseguaglianze sociali e dei gravi rischi ambientali, è proprio l’industria, la manifattura innovativa, a poter essere attore protagonista di sostenibilità e inclusione sociale. Ha ragione Paolo Bricco quando scrive che “la sostenibilità è la nuova chiave a stella” (Il Sole24Ore, 16 febbraio). Era, la “chiave a stella”, lo strumento essenziale della meccanica, dell’industria, dell’operosità competente, caro a un grande scrittore come Primo Levi (che proprio così intitolò uno dei suoi libri di maggior successo, tutto costruito attorno al tecnico Tino Faussone, operaio specializzato nel montaggio di tralicci, ponti e gru). Oggi, dunque, sostenibilità come cardine dell’impresa, fattore di sviluppo, attrezzatura per costruire equilibri sociali ed economici migliori.

“Le sostenibili carte dell’Italia” è stato, appunto, il titolo del convegno con cui il Centro Studi Confindustria ha aperto, giovedì 15, le due giornate delle Assise Generali dell’organizzazione degli imprenditori a Verona, delineando le iniziative in corso in moltissime imprese e gli impegni strategici da sostenere per “lo sviluppo inclusivo che riduca le diseguaglianze” e tuteli l’ambiente, considerato appunto come fattore essenziale di migliore qualità della vita e del lavoro e dunque come cardine di buona crescita.

C’è un “Manifesto sulla responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0” in dieci punti (innovazione, ricerca, formazione, integrità e contrasto alla corruzione, inclusione sociale e di genere, nuove scelte di governance aziendale, iniziative per fare crescere la consapevolezza dei maggiori problemi ambientali e sociali che hanno impatto su imprese e territori). E se ne discuterà a lungo, coinvolgendo tutti gli stakeholders e i decisori politici. “Lavorare su un differente modello di sviluppo”, dice in sintesi Rossana Revello, presidente del Gruppo Tecnico confindustriale sulla sostenibilità. La “morale del tornio”, l’idea d’una economia meglio equilibrata, civile, inclusiva, attenta alle persone e ai loro valori, fondata sul senso di responsabilità delle imprese, è una strategia su cui vale la pena insistere.

Su questa prospettiva ha molto insistito il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nelle conclusioni delle Assise, davanti a un vero e proprio “popolo degli imprenditori”, come hanno scritto i commentatori più acuti, per dare conto di una platea che non è né “salotto buono” né circolo dei “poteri forti” ma parte essenziale di un’Italia che vuole puntare con forza su crescita e responsabilità.

La strategia è quella di un “Piano per l’Italia”, 250 miliardi, in cinque anni ,di investimenti in infrastrutture e innovazione, finanziati anche con gli eurobond e in grado di creare 1,8 milioni di nuovi occupati, portando il Paese verso il 2% di aumento del Pil. E in questo piano la sostenibilità è un capitolo fondamentale. Anche per stimolare investimenti, interni e internazionali.

Gli investimenti finanziari in settori e in imprese sostenibili – documenta il Centro Studi Confindustria – valgono 23mila miliardi (dato 2015), un quarto del monte investimenti totali, e sono in crescita: il 25% in più, rispetto ai due anni precedenti. Il 52,6% di questi investimenti finisce in Europa, manifattura d’alto livello, rapporto stretto tra industrie e territori, mano d’opera di qualità, diffusa sensibilità ai temi sociali e dell’ambiente, interesse a costruire paradigmi di sviluppo in questa direzione. “La società e il mercato”, secondo un grande storico, Fernand Braudel, sono sempre stati i soggetti d’una netta dicotomia nella nostra storia. Adesso, appunto la sostenibilità può sanarla.

Sostenibilità come “chiave a stella” di sviluppo anche per gli interessi diretti delle imprese. Le B-Corp, le Benefit Corporation (le imprese che fanno propri i valori della sostenibilità e lo certificano), sono 2.400 in tutto il mondo e il loro numero è in aumento. 54 sono le italiane. Beneficiano di maggior attenzione da parte degli investitori, ma anche dei consumatori (lo documenta il Diversity Brand Index, realizzato dall’associazione Diversity e dalla società di consulenza Focus Management; Corriere della Sera, 9 febbraio). Crescono di più e meglio. Fanno utili anche nel lungo periodo. “Operare con integrità si traduce in migliori performance finanziarie”, sostiene l’Ethisphere Institute, che ogni anni pubblica il World’s Most Ethical Company Report e dichiara che le compagnie incluse nella classifica (l’italiana Illy, per esempio) hanno registrato negli ultimi cinque anni performance superiori del 10,7% rispetto all’indice delle società americane ad alta capitalizzazione.

Le scelte etiche e di sostenibilità fanno bene ai bilanci. Le imprese italiane, da sempre innervate nel territorio e con una robusta sensibilità alle relazioni sociali, ne sono testimoni esemplare. Non solo le grandi, quotate in Borsa e internazionalizzate. Ma anche le piccole e medie, in cui si diffondono strumenti di welfare aziendale e di territorio molto innovativi, si sta attenti alle dimensioni della “fabbrica bella” accogliente, luminosa, sicura, di basso impatto ambientale, si lavora secondo culture di “comunità” e di “inclusione” che affondano le radici della migliore cultura d’impresa elaborata nel lungo corso del Novecento, da Ivrea olivettiana alle Marche, da Milano metropoli accogliente alle aree lombarde, emiliane e venete in cui innovazione e socialità convivono, pur tra conflitti e limiti.

Sostenibilità come scelta di lungo periodo, dunque. Consapevole e aperta. La certificazione dei propri comportamenti da parte di analisti e certificatori indipendenti è essenziale. Anche da questo punto di vista le imprese italiane sono avanguardia. Lo documenta il Sustainability Yearbook 2018  di RobecoSAM, la società che stila ogni anni il Dow Jones Sustainability Index, analizzando le performances economico-finanziaria, ambientale e sociale che determinano la sostenibilità aziendale. 2.479 le società esaminate, in sessanta settori industriali. Quest’anno, tra le 70 migliori,  tre società italiane si sono aggiudicate il riconoscimento Gold Class: la Pirelli (al vertice mondiale tra le imprese del settore “auto componente”), la Saipem e la Cnh. La sostenibilità ha un grande valore. E fa crescere. E’, insomma, una impegnativa scelta civile. E anche un buon affare.

L’industria è conoscenza. Competenze con solide radici nella tradizione del “bello e ben fatto” e intelligente apertura all’innovazione. E cultura politecnica che fa sintesi tra scienza, tecnologia e saperi umanistici. La sua competitività, soprattutto in Italia, fa leva sulle capacità di cogliere tempestivamente il cambiamento e di adattarvi produzioni e prodotti, avendo “la qualità” come valore distintivo. E, negli sconvolgimenti della globalizzazione più impetuosa e della crescita delle diseguaglianze sociali e dei gravi rischi ambientali, è proprio l’industria, la manifattura innovativa, a poter essere attore protagonista di sostenibilità e inclusione sociale. Ha ragione Paolo Bricco quando scrive che “la sostenibilità è la nuova chiave a stella” (Il Sole24Ore, 16 febbraio). Era, la “chiave a stella”, lo strumento essenziale della meccanica, dell’industria, dell’operosità competente, caro a un grande scrittore come Primo Levi (che proprio così intitolò uno dei suoi libri di maggior successo, tutto costruito attorno al tecnico Tino Faussone, operaio specializzato nel montaggio di tralicci, ponti e gru). Oggi, dunque, sostenibilità come cardine dell’impresa, fattore di sviluppo, attrezzatura per costruire equilibri sociali ed economici migliori.

“Le sostenibili carte dell’Italia” è stato, appunto, il titolo del convegno con cui il Centro Studi Confindustria ha aperto, giovedì 15, le due giornate delle Assise Generali dell’organizzazione degli imprenditori a Verona, delineando le iniziative in corso in moltissime imprese e gli impegni strategici da sostenere per “lo sviluppo inclusivo che riduca le diseguaglianze” e tuteli l’ambiente, considerato appunto come fattore essenziale di migliore qualità della vita e del lavoro e dunque come cardine di buona crescita.

C’è un “Manifesto sulla responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0” in dieci punti (innovazione, ricerca, formazione, integrità e contrasto alla corruzione, inclusione sociale e di genere, nuove scelte di governance aziendale, iniziative per fare crescere la consapevolezza dei maggiori problemi ambientali e sociali che hanno impatto su imprese e territori). E se ne discuterà a lungo, coinvolgendo tutti gli stakeholders e i decisori politici. “Lavorare su un differente modello di sviluppo”, dice in sintesi Rossana Revello, presidente del Gruppo Tecnico confindustriale sulla sostenibilità. La “morale del tornio”, l’idea d’una economia meglio equilibrata, civile, inclusiva, attenta alle persone e ai loro valori, fondata sul senso di responsabilità delle imprese, è una strategia su cui vale la pena insistere.

Su questa prospettiva ha molto insistito il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nelle conclusioni delle Assise, davanti a un vero e proprio “popolo degli imprenditori”, come hanno scritto i commentatori più acuti, per dare conto di una platea che non è né “salotto buono” né circolo dei “poteri forti” ma parte essenziale di un’Italia che vuole puntare con forza su crescita e responsabilità.

La strategia è quella di un “Piano per l’Italia”, 250 miliardi, in cinque anni ,di investimenti in infrastrutture e innovazione, finanziati anche con gli eurobond e in grado di creare 1,8 milioni di nuovi occupati, portando il Paese verso il 2% di aumento del Pil. E in questo piano la sostenibilità è un capitolo fondamentale. Anche per stimolare investimenti, interni e internazionali.

Gli investimenti finanziari in settori e in imprese sostenibili – documenta il Centro Studi Confindustria – valgono 23mila miliardi (dato 2015), un quarto del monte investimenti totali, e sono in crescita: il 25% in più, rispetto ai due anni precedenti. Il 52,6% di questi investimenti finisce in Europa, manifattura d’alto livello, rapporto stretto tra industrie e territori, mano d’opera di qualità, diffusa sensibilità ai temi sociali e dell’ambiente, interesse a costruire paradigmi di sviluppo in questa direzione. “La società e il mercato”, secondo un grande storico, Fernand Braudel, sono sempre stati i soggetti d’una netta dicotomia nella nostra storia. Adesso, appunto la sostenibilità può sanarla.

Sostenibilità come “chiave a stella” di sviluppo anche per gli interessi diretti delle imprese. Le B-Corp, le Benefit Corporation (le imprese che fanno propri i valori della sostenibilità e lo certificano), sono 2.400 in tutto il mondo e il loro numero è in aumento. 54 sono le italiane. Beneficiano di maggior attenzione da parte degli investitori, ma anche dei consumatori (lo documenta il Diversity Brand Index, realizzato dall’associazione Diversity e dalla società di consulenza Focus Management; Corriere della Sera, 9 febbraio). Crescono di più e meglio. Fanno utili anche nel lungo periodo. “Operare con integrità si traduce in migliori performance finanziarie”, sostiene l’Ethisphere Institute, che ogni anni pubblica il World’s Most Ethical Company Report e dichiara che le compagnie incluse nella classifica (l’italiana Illy, per esempio) hanno registrato negli ultimi cinque anni performance superiori del 10,7% rispetto all’indice delle società americane ad alta capitalizzazione.

Le scelte etiche e di sostenibilità fanno bene ai bilanci. Le imprese italiane, da sempre innervate nel territorio e con una robusta sensibilità alle relazioni sociali, ne sono testimoni esemplare. Non solo le grandi, quotate in Borsa e internazionalizzate. Ma anche le piccole e medie, in cui si diffondono strumenti di welfare aziendale e di territorio molto innovativi, si sta attenti alle dimensioni della “fabbrica bella” accogliente, luminosa, sicura, di basso impatto ambientale, si lavora secondo culture di “comunità” e di “inclusione” che affondano le radici della migliore cultura d’impresa elaborata nel lungo corso del Novecento, da Ivrea olivettiana alle Marche, da Milano metropoli accogliente alle aree lombarde, emiliane e venete in cui innovazione e socialità convivono, pur tra conflitti e limiti.

Sostenibilità come scelta di lungo periodo, dunque. Consapevole e aperta. La certificazione dei propri comportamenti da parte di analisti e certificatori indipendenti è essenziale. Anche da questo punto di vista le imprese italiane sono avanguardia. Lo documenta il Sustainability Yearbook 2018  di RobecoSAM, la società che stila ogni anni il Dow Jones Sustainability Index, analizzando le performances economico-finanziaria, ambientale e sociale che determinano la sostenibilità aziendale. 2.479 le società esaminate, in sessanta settori industriali. Quest’anno, tra le 70 migliori,  tre società italiane si sono aggiudicate il riconoscimento Gold Class: la Pirelli (al vertice mondiale tra le imprese del settore “auto componente”), la Saipem e la Cnh. La sostenibilità ha un grande valore. E fa crescere. E’, insomma, una impegnativa scelta civile. E anche un buon affare.

Fondazione Pirelli parteciperà alla Fiera Internazionale dell’Editoria

La Fondazione Pirelli a Tempo di Libri

Football d’autore sulla “Pirelli”: Brera e Nutrizio

Il primo, Gianni Brera, è un “gran padano” di San Zenone al Po, classe 1919, partigiano della Repubblica dell’Ossola dopo l’8 settembre del 1943. L’altro Nino Nutrizio, è un dalmata di Traù — Trogir quando diventerà croata — classe 1911, prigioniero di guerra in India fino al 1946. I destini di Gianni Brera e di Nino Nutrizio — forse i più grandi giornalisti sportivi del Novecento — si incrociano fatalmente nella Milano della carta stampata che nel Dopoguerra sta tentando velocemente di rinascere. Brera “mastica” di calcio fin da ragazzino e, tornato dal fronte, nel 1945 approda alla Gazzetta dello Sport: ne diventa direttore nel giro di qualche anno. Nutrizio viene dal Secolo XIX: le vicende belliche lo costringono però, tornato in borghese, a ricominciare tutto da capo nella sua professione di giornalista. Nel 1952 il grande salto: l’industriale Carlo Pesenti gli affida la direzione de La Notte, quotidiano milanese del pomeriggio. Sarà un successo clamoroso.

Di lì a poco anche Gianni Brera, nel 1956, va a dirigere la redazione sportiva de Il Giorno: le vendite  del quotidiano si moltiplicano. I due direttori — Il Giorno, La Notte — non possono non incontrarsi anche sulle pagine della “Rivista Pirelli”, che già in quei vivissimi anni Cinquanta si affida alle più grandi firme in circolazione. Il calcio — sport nazionale, assieme al ciclismo — spetta naturalmente a Gianni Brera e Nino Nutrizio. Ed è, come oggi, un altissimo esercizio di vis critica. Nutrizio non digerisce l’eliminazione immediata dell’Italia dai Mondiali in Svizzera, nel giugno del 1954, e neppure gli piace che il diciassettenne Giuseppe Virgili passi dall’Udinese alla Fiorentina per l’astronomica cifra di 60 milioni di lire. Nell’articolo “Il malato milionario”, sul n°4 del 1954, afferma che nel mondo sportivo tutti, calciatori e ciclisti, motociclisti e ginnasti, allenatori e dirigenti sono rovinati dal dio denaro, “per guadagnare tanti soldi, per non lavorare nei campi o nella officina, per avere la bella casa e la bella automobile, per indossare i bei vestiti…”. Gli fa eco Brera, pochi mesi dopo, nel gennaio 1955, con “Vita difficile del giocatore di calcio”. “Forse perchè pian piano è andato scivolando nel gladiatorismo e dunque nella smaccata ricerca di guadagno, lo sport italiano non ha ancora avuto degni cantori”: l’incipit dell’articolo ne riassume in pieno il contenuto. Stesso anno, nel numero 6 di dicembre, Nutrizio se la prende con il calcio difensivista: il ben noto “catenaccio”, “spettacolo odioso di almeno sei partite su nove ogni domenica”, sintomo del “preoccupante decadimento del calcio italiano”. Nell’articolo del gennaio 1957 Nutrizio avverte — tra l’altro — che con una simile mentalità si rischia di non andare ai Mondiali di Calcio in Svezia, in programma di lì a pochi mesi. Si sa come finisce: l’Italia non si qualifica. I Mondiali del 1958 li vince il Brasile, battendo i padroni di casa svedesi. Brera, noto cultore del calcio difensivista “all’italiana” che Nutrizio detesta, può finalmente salutare la trasformazione dei sudamericani da “cicale scialacquatrici” a “formiche” attente e caute in difesa. È una “Metamorfosi, come titola il pezzo sulla rivista n°4 del 1958, ultimo articolo di Brera.

Sono stati due grandi visionari del calcio, Brera e Nutrizio: basta rileggere i loro pezzi sulla rivista “Pirelli” per rendersi conto di quanto le loro affermazioni siano ancora attuali.

Il primo, Gianni Brera, è un “gran padano” di San Zenone al Po, classe 1919, partigiano della Repubblica dell’Ossola dopo l’8 settembre del 1943. L’altro Nino Nutrizio, è un dalmata di Traù — Trogir quando diventerà croata — classe 1911, prigioniero di guerra in India fino al 1946. I destini di Gianni Brera e di Nino Nutrizio — forse i più grandi giornalisti sportivi del Novecento — si incrociano fatalmente nella Milano della carta stampata che nel Dopoguerra sta tentando velocemente di rinascere. Brera “mastica” di calcio fin da ragazzino e, tornato dal fronte, nel 1945 approda alla Gazzetta dello Sport: ne diventa direttore nel giro di qualche anno. Nutrizio viene dal Secolo XIX: le vicende belliche lo costringono però, tornato in borghese, a ricominciare tutto da capo nella sua professione di giornalista. Nel 1952 il grande salto: l’industriale Carlo Pesenti gli affida la direzione de La Notte, quotidiano milanese del pomeriggio. Sarà un successo clamoroso.

Di lì a poco anche Gianni Brera, nel 1956, va a dirigere la redazione sportiva de Il Giorno: le vendite  del quotidiano si moltiplicano. I due direttori — Il Giorno, La Notte — non possono non incontrarsi anche sulle pagine della “Rivista Pirelli”, che già in quei vivissimi anni Cinquanta si affida alle più grandi firme in circolazione. Il calcio — sport nazionale, assieme al ciclismo — spetta naturalmente a Gianni Brera e Nino Nutrizio. Ed è, come oggi, un altissimo esercizio di vis critica. Nutrizio non digerisce l’eliminazione immediata dell’Italia dai Mondiali in Svizzera, nel giugno del 1954, e neppure gli piace che il diciassettenne Giuseppe Virgili passi dall’Udinese alla Fiorentina per l’astronomica cifra di 60 milioni di lire. Nell’articolo “Il malato milionario”, sul n°4 del 1954, afferma che nel mondo sportivo tutti, calciatori e ciclisti, motociclisti e ginnasti, allenatori e dirigenti sono rovinati dal dio denaro, “per guadagnare tanti soldi, per non lavorare nei campi o nella officina, per avere la bella casa e la bella automobile, per indossare i bei vestiti…”. Gli fa eco Brera, pochi mesi dopo, nel gennaio 1955, con “Vita difficile del giocatore di calcio”. “Forse perchè pian piano è andato scivolando nel gladiatorismo e dunque nella smaccata ricerca di guadagno, lo sport italiano non ha ancora avuto degni cantori”: l’incipit dell’articolo ne riassume in pieno il contenuto. Stesso anno, nel numero 6 di dicembre, Nutrizio se la prende con il calcio difensivista: il ben noto “catenaccio”, “spettacolo odioso di almeno sei partite su nove ogni domenica”, sintomo del “preoccupante decadimento del calcio italiano”. Nell’articolo del gennaio 1957 Nutrizio avverte — tra l’altro — che con una simile mentalità si rischia di non andare ai Mondiali di Calcio in Svezia, in programma di lì a pochi mesi. Si sa come finisce: l’Italia non si qualifica. I Mondiali del 1958 li vince il Brasile, battendo i padroni di casa svedesi. Brera, noto cultore del calcio difensivista “all’italiana” che Nutrizio detesta, può finalmente salutare la trasformazione dei sudamericani da “cicale scialacquatrici” a “formiche” attente e caute in difesa. È una “Metamorfosi, come titola il pezzo sulla rivista n°4 del 1958, ultimo articolo di Brera.

Sono stati due grandi visionari del calcio, Brera e Nutrizio: basta rileggere i loro pezzi sulla rivista “Pirelli” per rendersi conto di quanto le loro affermazioni siano ancora attuali.

Multimedia

Images

Fondazione Pirelli a “Tempo di libri” con la cultura della fabbrica e dell’innovazione

Dall’8 al 12 marzo 2018 Fondazione Pirelli parteciperà per la prima volta a “Tempo di libri”, la Fiera internazionale dell’editoria a Fieramilanocity  per raccontare la cultura di impresa delll’azienda con un programma di eventi fra scienza, arte, letteratura e innovazione.

Uno spazio espositivo per narrare – attraverso pubblicazioni, immagini ed eventi quali laboratori creativi e reading – la cultura d’impresa di Pirelli, fondata sul continuo dialogo tra ricerca scientifica e cultura umanistica, innovazione, tecnologia e creatività.

Numerosi gli eventi proposti allo Spazio Pirelli: il 9 e 10 marzo, gli attori Marco S. Bellocchio, Fabrizio Martorelli  e Beppe Salmetti interpreteranno alcuni brani tratti dalla storica rivista “Pirelli”, mentre l’8, 9, 10 e 12 marzo saranno gli alunni delle scuole a diventare protagonisti della manifestazione. I laboratori didattici ideati per l’occasione permetteranno agli studenti di confrontarsi con i grandi autori della rivista “Pirelli”, come ad esempio Dino Buzzati e i suoi marziani alla scoperta della gomma, e di cimentarsi nell’arte del racconto a partire da materiali digitalizzati provenienti dall’Archivio Storico Pirelli. Le scuole in visita potranno inoltre illustrare i testi scelti per le letture, approfondire la loro conoscenza della città di Milano e delle sue trasformazioni avvenute nell’ultimo secolo, fino a immaginarne un edificio del futuro.

Tra scienza arte e letteratura: la cultura politecnica di Pirelli 

La storia dello sviluppo scientifico in Pirelli s’intreccia con quella della promozione dell’arte e della cultura, con un immutato interesse  – anche in questi ambiti – per l’innovazione. Ne è un esempio la collaborazione con artisti e fotografi di fama internazionale quali, tra gli altri, Bruno Munari, Riccardo Manzi, Raymond Savignac, Arno Hammacher, Peter Lindbergh, Stefan Glerum, Pokras Lampas ma anche grafici e designer come Bob Noorda, Lora Lamm, Armando Testa. L’integrazione tra cultura scientifica e cultura umanistica è testimoniata dalle pagine di “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, rivista bimestrale pubblicata dall’azienda tra il 1948-1972, dove grandi protagonisti della cultura quali, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, Leonardo Sinisgalli, Piero Chiara e ancora Umberto Eco, Dino Buzzati e Gillo Dorfles, hanno dato vita a un fecondo dibattito culturale. Un dialogo e un confronto ancora oggi attuali grazie alle collaborazioni di Pirelli con autori quali Hans Magnus Enzensberger, Guillermo Martinez, William Least Heat-Moon, Javier Cercas, Hanif Kureishi, Javier Marías, che, insieme al contributo di grafici e artisti, arricchiscono alcuni dei volumi dei bilanci aziendali degli ultimi anni.

Pirelli è stata molto attiva anche nella promozione della lettura sul luogo di lavoro sin dalla prima biblioteca aziendale istituita nel 1928. In tempi più recenti l’azienda ha aperto una biblioteca nell’Headquarters di Milano Bicocca e una all’interno dello stabilimento di Bollate, in aggiunta a quella del Polo Industriale di Settimo Torinese. Le biblioteche aziendali, parti integranti di numerosi progetti volti al miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente di lavoro, sono, oggi come allora, un luogo vivo e dinamico, dove i dipendenti possono trovare migliaia di volumi – tra i quali gli ultimi bestsellers di narrativa – ma anche testi di storia, saggistica, cataloghi d’arte e libri per i più piccoli.

Dall’8 al 12 marzo 2018 Fondazione Pirelli parteciperà per la prima volta a “Tempo di libri”, la Fiera internazionale dell’editoria a Fieramilanocity  per raccontare la cultura di impresa delll’azienda con un programma di eventi fra scienza, arte, letteratura e innovazione.

Uno spazio espositivo per narrare – attraverso pubblicazioni, immagini ed eventi quali laboratori creativi e reading – la cultura d’impresa di Pirelli, fondata sul continuo dialogo tra ricerca scientifica e cultura umanistica, innovazione, tecnologia e creatività.

Numerosi gli eventi proposti allo Spazio Pirelli: il 9 e 10 marzo, gli attori Marco S. Bellocchio, Fabrizio Martorelli  e Beppe Salmetti interpreteranno alcuni brani tratti dalla storica rivista “Pirelli”, mentre l’8, 9, 10 e 12 marzo saranno gli alunni delle scuole a diventare protagonisti della manifestazione. I laboratori didattici ideati per l’occasione permetteranno agli studenti di confrontarsi con i grandi autori della rivista “Pirelli”, come ad esempio Dino Buzzati e i suoi marziani alla scoperta della gomma, e di cimentarsi nell’arte del racconto a partire da materiali digitalizzati provenienti dall’Archivio Storico Pirelli. Le scuole in visita potranno inoltre illustrare i testi scelti per le letture, approfondire la loro conoscenza della città di Milano e delle sue trasformazioni avvenute nell’ultimo secolo, fino a immaginarne un edificio del futuro.

Tra scienza arte e letteratura: la cultura politecnica di Pirelli 

La storia dello sviluppo scientifico in Pirelli s’intreccia con quella della promozione dell’arte e della cultura, con un immutato interesse  – anche in questi ambiti – per l’innovazione. Ne è un esempio la collaborazione con artisti e fotografi di fama internazionale quali, tra gli altri, Bruno Munari, Riccardo Manzi, Raymond Savignac, Arno Hammacher, Peter Lindbergh, Stefan Glerum, Pokras Lampas ma anche grafici e designer come Bob Noorda, Lora Lamm, Armando Testa. L’integrazione tra cultura scientifica e cultura umanistica è testimoniata dalle pagine di “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, rivista bimestrale pubblicata dall’azienda tra il 1948-1972, dove grandi protagonisti della cultura quali, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, Leonardo Sinisgalli, Piero Chiara e ancora Umberto Eco, Dino Buzzati e Gillo Dorfles, hanno dato vita a un fecondo dibattito culturale. Un dialogo e un confronto ancora oggi attuali grazie alle collaborazioni di Pirelli con autori quali Hans Magnus Enzensberger, Guillermo Martinez, William Least Heat-Moon, Javier Cercas, Hanif Kureishi, Javier Marías, che, insieme al contributo di grafici e artisti, arricchiscono alcuni dei volumi dei bilanci aziendali degli ultimi anni.

Pirelli è stata molto attiva anche nella promozione della lettura sul luogo di lavoro sin dalla prima biblioteca aziendale istituita nel 1928. In tempi più recenti l’azienda ha aperto una biblioteca nell’Headquarters di Milano Bicocca e una all’interno dello stabilimento di Bollate, in aggiunta a quella del Polo Industriale di Settimo Torinese. Le biblioteche aziendali, parti integranti di numerosi progetti volti al miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente di lavoro, sono, oggi come allora, un luogo vivo e dinamico, dove i dipendenti possono trovare migliaia di volumi – tra i quali gli ultimi bestsellers di narrativa – ma anche testi di storia, saggistica, cataloghi d’arte e libri per i più piccoli.

Multimedia

Tutto
Images
Video

Dove sono le imprese

Il consueto rapporto Nomisma “sul mondo” rappresenta una buona guida per capire la collocazione dei sistemi di produzione e le loro prospettive

Dove siamo e dove andiamo? Si tratta di due interrogativi che ogni imprenditore e ogni manager che voglia essere tale deve porsi. Perché la consapevolezza del dove si è e quella del dove si va, sono fondamentali per una buona impresa. A tutti i livelli. Per questo fa bene a tutti leggere “The world in 2018” curato da Andrea E. Goldstein e Julia K. Culver per Nomisma e da poco pubblicato.

Il rapporto ha l’obiettivo di rispondere ad una domanda sola – cosa accadrà nel 2018? -, declinata in una serie di quesiti più particolari. Le risposte sono affidate ad una serie importante di “osservatori” della realtà, esperti ai massimi livelli delle singole aree di ricerca toccate dalla raccolta.

Fra i temi più importanti che vengono sviluppati, quelli relativi alla solidità della ripresa economica, al ruolo dell’Europa e alla sua capacità di gestire i grandi fenomeni migratori, ma anche il duello fra progressismo, nazionalismo e populismo. Senza contare la prospettiva di nuovi assetti geopolitici nell’era Trump e quindi l’evoluzione dello scenario internazionale. Toccati anche i temi relativi ai cambiamenti climatici e quindi dell’ambiente, così come quelli della smart cities, della sharing economy e della legislazione relativa ad internet. Un’attenzione particolare, inoltre, viene posta all’energia, al lavoro e al commercio. Mentre vengono poi approfondite la situazioni di singoli Paesi significativamente più importanti (Usa, Giappone, Italia, Germania, India, Spagna, Brasile), oltre che le caratteristiche di determinate aree problematiche dalla Brexit ai diversi metodi di imposizione fiscale.

Il volume curato da Goldstein e Culver ha il gran pregio di raccogliere una serie di ricerche che sintetizzano in poche pagine problemi densi e importanti, facendoli comprendere. Da leggere.

The world in 2018

Andrea E. Goldstein, Julia K. Culver (a cura di)

Nomisma, 2018

Il consueto rapporto Nomisma “sul mondo” rappresenta una buona guida per capire la collocazione dei sistemi di produzione e le loro prospettive

Dove siamo e dove andiamo? Si tratta di due interrogativi che ogni imprenditore e ogni manager che voglia essere tale deve porsi. Perché la consapevolezza del dove si è e quella del dove si va, sono fondamentali per una buona impresa. A tutti i livelli. Per questo fa bene a tutti leggere “The world in 2018” curato da Andrea E. Goldstein e Julia K. Culver per Nomisma e da poco pubblicato.

Il rapporto ha l’obiettivo di rispondere ad una domanda sola – cosa accadrà nel 2018? -, declinata in una serie di quesiti più particolari. Le risposte sono affidate ad una serie importante di “osservatori” della realtà, esperti ai massimi livelli delle singole aree di ricerca toccate dalla raccolta.

Fra i temi più importanti che vengono sviluppati, quelli relativi alla solidità della ripresa economica, al ruolo dell’Europa e alla sua capacità di gestire i grandi fenomeni migratori, ma anche il duello fra progressismo, nazionalismo e populismo. Senza contare la prospettiva di nuovi assetti geopolitici nell’era Trump e quindi l’evoluzione dello scenario internazionale. Toccati anche i temi relativi ai cambiamenti climatici e quindi dell’ambiente, così come quelli della smart cities, della sharing economy e della legislazione relativa ad internet. Un’attenzione particolare, inoltre, viene posta all’energia, al lavoro e al commercio. Mentre vengono poi approfondite la situazioni di singoli Paesi significativamente più importanti (Usa, Giappone, Italia, Germania, India, Spagna, Brasile), oltre che le caratteristiche di determinate aree problematiche dalla Brexit ai diversi metodi di imposizione fiscale.

Il volume curato da Goldstein e Culver ha il gran pregio di raccogliere una serie di ricerche che sintetizzano in poche pagine problemi densi e importanti, facendoli comprendere. Da leggere.

The world in 2018

Andrea E. Goldstein, Julia K. Culver (a cura di)

Nomisma, 2018

Viaggio d’istruzione. Anche per le imprese

Raccolti in volume i 60 contributi apparsi su il Mulino che raccontano l’Italia di oggi

 

Un viaggio per capire meglio il luogo dove si vive, si lavora, si produce. Un viaggio fatto oggi, non tanto pensando a quanto è accaduto ma a quanto potrebbe accadere. Ed un viaggio che fa bene a tutti, anche a chi si occupa di impresa.

È il senso di “Viaggio in Italia”, curato da Gianfranco Viesti e Bruno Simili per la rivista il Mulino e riproposto in volume da poche settimane. Raccolta di 60 interventi (apparsi negli ultimi mesi), il “viaggio del Mulino” parte esplicitamente da altri viaggi passati (quello di Goethe di duecento anni fa e quello più recente di Guido Piovene), ma non ne scimmiotta nulla e, anzi, aggiunge e attualizza un quadro dell’Italia che efficacemente viene riassunto nel sottotitolo della raccolta: “Racconto di un Paese difficile e bellissimo”.

Proprio di racconto si tratta, composto lungo la Penisola grazie a una straordinaria rete di collaboratori che, il nostro Paese, lo studiano e lo analizzano per mestiere ogni giorno. Quasi istantanee (tutti gli interventi hanno il gran pregio di essere brevi ma non per questo superficiali), che seguono la realtà e non uno schema fisso. Ad essere colte, quindi, le realtà di grandi città ma anche di intere regioni, oppure di singole aree geografiche. Per tutte le tappe, l’accento è proprio sul racconto e sulla narrazione piuttosto che sul numero. Un accorgimento da non sottovalutare, che i curatori del volume sottolineano spiegando: “Via via che arrivavano le corrispondenze dalle varie città, dalle regioni, dai territori maturava l’impressione che questo viaggio aggiungesse diversi elementi alla comprensione di un’Italia che, paradossalmente, viene descritta con regolarità da grafici e tabelle, con abbondanza di cifre e percentuali, ma che in realtà non conosciamo se non in piccola parte. Siamo sommersi di dati e conosciamo così poco quel che succede nel nostro Paese, specie nel nuovo secolo e con la grande crisi”.

Qualità contro sterile quantità dunque. Un approccio alla realtà che dà i suoi frutti attraverso la narrazione (nella quale i numeri esistono ma non sono prevaricanti), e l’interpretazione che lascia però spazio all’informazione utile per farsi un’idea da soli. Senza trascurare nulla, ma senza dare spazio ai facili entusiasmi così come agli altrettanto facili pessimismi.

“Viaggio in Italia” è dunque una lettura non solo importante ma affascinante; utile anche per chi – uomo d’impresa -, deve comprendere il senso dell’organizzazione produttiva alla quale lavora.

Viaggio in Italia

Gianfranco Viesti, Bruno Simili (a cura di)

Mulino, 2018 (il Mulino n. 6/2017)

Raccolti in volume i 60 contributi apparsi su il Mulino che raccontano l’Italia di oggi

 

Un viaggio per capire meglio il luogo dove si vive, si lavora, si produce. Un viaggio fatto oggi, non tanto pensando a quanto è accaduto ma a quanto potrebbe accadere. Ed un viaggio che fa bene a tutti, anche a chi si occupa di impresa.

È il senso di “Viaggio in Italia”, curato da Gianfranco Viesti e Bruno Simili per la rivista il Mulino e riproposto in volume da poche settimane. Raccolta di 60 interventi (apparsi negli ultimi mesi), il “viaggio del Mulino” parte esplicitamente da altri viaggi passati (quello di Goethe di duecento anni fa e quello più recente di Guido Piovene), ma non ne scimmiotta nulla e, anzi, aggiunge e attualizza un quadro dell’Italia che efficacemente viene riassunto nel sottotitolo della raccolta: “Racconto di un Paese difficile e bellissimo”.

Proprio di racconto si tratta, composto lungo la Penisola grazie a una straordinaria rete di collaboratori che, il nostro Paese, lo studiano e lo analizzano per mestiere ogni giorno. Quasi istantanee (tutti gli interventi hanno il gran pregio di essere brevi ma non per questo superficiali), che seguono la realtà e non uno schema fisso. Ad essere colte, quindi, le realtà di grandi città ma anche di intere regioni, oppure di singole aree geografiche. Per tutte le tappe, l’accento è proprio sul racconto e sulla narrazione piuttosto che sul numero. Un accorgimento da non sottovalutare, che i curatori del volume sottolineano spiegando: “Via via che arrivavano le corrispondenze dalle varie città, dalle regioni, dai territori maturava l’impressione che questo viaggio aggiungesse diversi elementi alla comprensione di un’Italia che, paradossalmente, viene descritta con regolarità da grafici e tabelle, con abbondanza di cifre e percentuali, ma che in realtà non conosciamo se non in piccola parte. Siamo sommersi di dati e conosciamo così poco quel che succede nel nostro Paese, specie nel nuovo secolo e con la grande crisi”.

Qualità contro sterile quantità dunque. Un approccio alla realtà che dà i suoi frutti attraverso la narrazione (nella quale i numeri esistono ma non sono prevaricanti), e l’interpretazione che lascia però spazio all’informazione utile per farsi un’idea da soli. Senza trascurare nulla, ma senza dare spazio ai facili entusiasmi così come agli altrettanto facili pessimismi.

“Viaggio in Italia” è dunque una lettura non solo importante ma affascinante; utile anche per chi – uomo d’impresa -, deve comprendere il senso dell’organizzazione produttiva alla quale lavora.

Viaggio in Italia

Gianfranco Viesti, Bruno Simili (a cura di)

Mulino, 2018 (il Mulino n. 6/2017)

Le clamorose promesse elettorali, le incompetenze e il fallimento storico dell’idea della cuoca di Lenin

E’ una campagna elettorale segnata da clamorose promesse, numeri buttati lì a casaccio, propaganda che fa disinvoltamente leva su pur legittimi stati d’animo di preoccupazione e paura. Ecco quel che c’è sotto gli occhi di tutti, in una condizione di discorso pubblico approssimativo e denso di incompetenze. Gli osservatori e i cronisti della politica sanno bene che proprio le campagne elettorali, segnate da affannose ricerche di consenso, non sono mai state tra le pagine migliori della struttura stessa della democrazia liberale. Ma, come sempre, c’è modo e modo… E sta nella responsabilità di chi è, o pretende di diventare, “classe dirigente” e forza di governo, non allontanare troppo il piano della propaganda e delle promesse da quello dei programmi di governo concreti e realizzabili. Pena la crisi, nel tempo, del cardine stesso della democrazia: la fiducia.

Ecco due parole chiave: senso di responsabilità e costruzione di fiducia. Senza, c’è solo crisi.

L’incompetenza di chi vota è “l’inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia e godere dei suoi vantaggi”, ha ben spiegato un lucido studioso della politica, Angelo Panebianco (“Corriere della Sera”, 18 gennaio). L’incompetenza del votato, invece, è “una iattura”. E’ vero, Lenin aveva teorizzato, al momento della nascita dell’Urss, giusto un secolo fa, che il governo dei Soviet era per sua natura così efficiente e perfetto che avrebbe potuto essere presieduto anche da una cuoca. Ma la storia non gli ha proprio dato ragione. Né una cuoca ha mai governato né quel governo ha ben funzionato. Guardarsene, dunque, dall’idea di tornare all’incompetenza della cuoca di Lenin.

Meglio, invece, provare a discutere con intelligenza e lungimiranza sulle questioni economiche vere che ci sono sul tappeto. Sul ruolo dell’Italia in Europa, per esempio, in tempi in cui l’asse tra Francia e Germania prova a ridefinire gli equilibri di guida della Ue, con una strategia a “due velocità”. L’Italia starà dentro o si ritroverà ai margini? E quali ne sarebbero le conseguenze? Nazionalismi, sovranismi e propaganda anti-euro dove ci portano?

Una delle partite politiche essenziali, in questo scenario, riguarda il debito pubblico da ridurre, come ci chiede giustamente la Commissione Ue (il Pil cresce, ma le politiche di contenimento e rientro dal debito, anche durante un ciclo economico favorevole, non fanno sufficienti passi avanti). E le riforme da avviare o rafforzare: meno spesa pubblica corrente, maggiori investimenti in infrastrutture, innovazione, sviluppo.

Di debito pubblico, però, in campagna elettorale si parla pochissimo (nonostante le autorevoli sollecitazioni di Carlo Cottarelli, un economista di rilievo internazionale che conosce bene il tema: ha costituito un “Osservatorio” all’Università Cattolica di Milano e ha appena pubblicato “I sette peccati capitali dell’economia italiana”, Feltrinelli: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario tra Nord e Sud, difficoltà a convivere con l’euro). Ma quel debito è un macigno sul futuro, un freno alla crescita, una ferita per il destino delle giovani generazioni.

Non se ne parla, appunto. Abbondano, invece, le promesse di pensioni più alte e facili (abolendo la riforma Fornero), di redditi di cittadinanza, di finanziamenti e incentivi e di generici e generali tagli di tasse, senza però mai spiegare bene, agli elettori, i costi degli interventi e i modi per trovare le risorse finanziarie per farvi fronte. Forse aumentando il deficit e il debito pubblico?

Si parla poco anche di impresa, innovazione, lavoro produttivo, trasformazione digitale della manifattura, anche se è proprio dall’impresa che nascono ricchezza e lavoro, non certo dalla sovrabbondanza della spesa pubblica. “L’impresa rimossa dai partiti”, nota Dario Di Vico, che conosce bene attitudini e fragilità delle impese italiane (“Corriere della Sera”, 13 febbraio). E aggiunge: “La maggiore responsabilità di questa rimozione ricade sui segretari che, confezionando le liste, si sono ben guardati di inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro”. Dunque “il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici”.

Scarsa competenza, troppa propaganda. E, di propaganda in propaganda, c’è chi propone di abolire il Jobs Act, che ha migliorato il funzionamento del mercato del lavoro e stimolato occupazione. E chi, per “proteggere” le piccole imprese in crisi, parla di “dazi” sulle merci in ingresso sul nostro mercato, senza pensare però ai danni rilevanti per un’industria italiana fortemente orientata all’export e che morirebbe non di concorrenza a basso costo ma di chiusura sul povero mercato nazionale. E c’è ancora chi annuncia una “tassa sui robot”, idea bizzarra nata tempo fa da una battuta infelice di Bill Gates, ripresa da un paio di studiosi in vena di popolarità e adesso appunto rilanciata in campagna elettorale e giustamente condannata da Carlo Calenda, competente ministro dello Sviluppo economico: un’idea “suicida”.

L’Italia, per tenere in piedi e rendere competitiva la sua industria manifatturiera (con tutto il sistema dei servizi collegati) ha bisogno di stimolare, anche fiscalmente, l’innovazione e la trasformazione digital verso “Industria4.0”, come stanno facendo da qualche tempo i governi. Altro, appunto, che “tassare robot” (discorso ben diverso è affrontare i cambiamenti radicali nel mondo del lavoro, con seri provvedimenti di formazione e sostegno sociale su mercati professionali in trasformazione).

Vanità, nel senso di parole vaghe che sfidano l’aria. E incompetenze. Tutto ciò di cui l’economia, in tempi di fragile ripresa, non ha alcun bisogno. Confindustria, per riportare al centro dell’attenzione le questioni della crescita economica, più dinamica e inclusiva, ha convocato, per venerdì 16, le “Assise Generali” a Verona su temi come “Italia più semplice ed efficiente; scuola, formazione, lavoro e inclusione dei giovani; investimenti e sostenibilità ambientale e sociale; stimoli all’impresa che cambia; fisco a supporto di investimenti e crescita; Europa come miglior luogo per fare impresa”. Analisi, dati, fatti, progetti. Su cui chiamare i politici a prendere impegni con senso di responsabilità, a indicare prospettive. Con chiarezza e, si spera, credibilità e competenza.

E’ una campagna elettorale segnata da clamorose promesse, numeri buttati lì a casaccio, propaganda che fa disinvoltamente leva su pur legittimi stati d’animo di preoccupazione e paura. Ecco quel che c’è sotto gli occhi di tutti, in una condizione di discorso pubblico approssimativo e denso di incompetenze. Gli osservatori e i cronisti della politica sanno bene che proprio le campagne elettorali, segnate da affannose ricerche di consenso, non sono mai state tra le pagine migliori della struttura stessa della democrazia liberale. Ma, come sempre, c’è modo e modo… E sta nella responsabilità di chi è, o pretende di diventare, “classe dirigente” e forza di governo, non allontanare troppo il piano della propaganda e delle promesse da quello dei programmi di governo concreti e realizzabili. Pena la crisi, nel tempo, del cardine stesso della democrazia: la fiducia.

Ecco due parole chiave: senso di responsabilità e costruzione di fiducia. Senza, c’è solo crisi.

L’incompetenza di chi vota è “l’inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia e godere dei suoi vantaggi”, ha ben spiegato un lucido studioso della politica, Angelo Panebianco (“Corriere della Sera”, 18 gennaio). L’incompetenza del votato, invece, è “una iattura”. E’ vero, Lenin aveva teorizzato, al momento della nascita dell’Urss, giusto un secolo fa, che il governo dei Soviet era per sua natura così efficiente e perfetto che avrebbe potuto essere presieduto anche da una cuoca. Ma la storia non gli ha proprio dato ragione. Né una cuoca ha mai governato né quel governo ha ben funzionato. Guardarsene, dunque, dall’idea di tornare all’incompetenza della cuoca di Lenin.

Meglio, invece, provare a discutere con intelligenza e lungimiranza sulle questioni economiche vere che ci sono sul tappeto. Sul ruolo dell’Italia in Europa, per esempio, in tempi in cui l’asse tra Francia e Germania prova a ridefinire gli equilibri di guida della Ue, con una strategia a “due velocità”. L’Italia starà dentro o si ritroverà ai margini? E quali ne sarebbero le conseguenze? Nazionalismi, sovranismi e propaganda anti-euro dove ci portano?

Una delle partite politiche essenziali, in questo scenario, riguarda il debito pubblico da ridurre, come ci chiede giustamente la Commissione Ue (il Pil cresce, ma le politiche di contenimento e rientro dal debito, anche durante un ciclo economico favorevole, non fanno sufficienti passi avanti). E le riforme da avviare o rafforzare: meno spesa pubblica corrente, maggiori investimenti in infrastrutture, innovazione, sviluppo.

Di debito pubblico, però, in campagna elettorale si parla pochissimo (nonostante le autorevoli sollecitazioni di Carlo Cottarelli, un economista di rilievo internazionale che conosce bene il tema: ha costituito un “Osservatorio” all’Università Cattolica di Milano e ha appena pubblicato “I sette peccati capitali dell’economia italiana”, Feltrinelli: evasione fiscale, corruzione, eccesso di burocrazia, lentezza della giustizia, crollo demografico, divario tra Nord e Sud, difficoltà a convivere con l’euro). Ma quel debito è un macigno sul futuro, un freno alla crescita, una ferita per il destino delle giovani generazioni.

Non se ne parla, appunto. Abbondano, invece, le promesse di pensioni più alte e facili (abolendo la riforma Fornero), di redditi di cittadinanza, di finanziamenti e incentivi e di generici e generali tagli di tasse, senza però mai spiegare bene, agli elettori, i costi degli interventi e i modi per trovare le risorse finanziarie per farvi fronte. Forse aumentando il deficit e il debito pubblico?

Si parla poco anche di impresa, innovazione, lavoro produttivo, trasformazione digitale della manifattura, anche se è proprio dall’impresa che nascono ricchezza e lavoro, non certo dalla sovrabbondanza della spesa pubblica. “L’impresa rimossa dai partiti”, nota Dario Di Vico, che conosce bene attitudini e fragilità delle impese italiane (“Corriere della Sera”, 13 febbraio). E aggiunge: “La maggiore responsabilità di questa rimozione ricade sui segretari che, confezionando le liste, si sono ben guardati di inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro”. Dunque “il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici”.

Scarsa competenza, troppa propaganda. E, di propaganda in propaganda, c’è chi propone di abolire il Jobs Act, che ha migliorato il funzionamento del mercato del lavoro e stimolato occupazione. E chi, per “proteggere” le piccole imprese in crisi, parla di “dazi” sulle merci in ingresso sul nostro mercato, senza pensare però ai danni rilevanti per un’industria italiana fortemente orientata all’export e che morirebbe non di concorrenza a basso costo ma di chiusura sul povero mercato nazionale. E c’è ancora chi annuncia una “tassa sui robot”, idea bizzarra nata tempo fa da una battuta infelice di Bill Gates, ripresa da un paio di studiosi in vena di popolarità e adesso appunto rilanciata in campagna elettorale e giustamente condannata da Carlo Calenda, competente ministro dello Sviluppo economico: un’idea “suicida”.

L’Italia, per tenere in piedi e rendere competitiva la sua industria manifatturiera (con tutto il sistema dei servizi collegati) ha bisogno di stimolare, anche fiscalmente, l’innovazione e la trasformazione digital verso “Industria4.0”, come stanno facendo da qualche tempo i governi. Altro, appunto, che “tassare robot” (discorso ben diverso è affrontare i cambiamenti radicali nel mondo del lavoro, con seri provvedimenti di formazione e sostegno sociale su mercati professionali in trasformazione).

Vanità, nel senso di parole vaghe che sfidano l’aria. E incompetenze. Tutto ciò di cui l’economia, in tempi di fragile ripresa, non ha alcun bisogno. Confindustria, per riportare al centro dell’attenzione le questioni della crescita economica, più dinamica e inclusiva, ha convocato, per venerdì 16, le “Assise Generali” a Verona su temi come “Italia più semplice ed efficiente; scuola, formazione, lavoro e inclusione dei giovani; investimenti e sostenibilità ambientale e sociale; stimoli all’impresa che cambia; fisco a supporto di investimenti e crescita; Europa come miglior luogo per fare impresa”. Analisi, dati, fatti, progetti. Su cui chiamare i politici a prendere impegni con senso di responsabilità, a indicare prospettive. Con chiarezza e, si spera, credibilità e competenza.

Paesaggi ermetici. Ungaretti, Montale e Quasimodo per la Rivista Pirelli

Il Brasile arcaico e primitivo di Giuseppe Ungaretti, la Versilia lieve e allegra di Eugenio Montale, la Sicilia bianchissima di luce di Salvatore Quasimodo: tra il 1949 e il 1951, la classica triade degli scrittori ermetici italiani contribuisce a connotare la Rivista Pirelli, nata nel 1948, come un giornale aziendale aperto alle più grandi firme della letteratura contemporanea.

E’ già al massimo della fama Giuseppe Ungaretti quando pubblica, sulla Rivista n° 1 del 1949, la raccolta di sonetti “Vecchio Brasile”. Un componimento complesso e geniale: la traduzione in italiano delle “cronache” che il poeta brasiliano Oswald de Andrade, tra il 1924 e il 1925, ha immaginato come fossero scritte da esploratori e conquistatori di un’Amazzonia persa nella notte dei tempi. L’opera originale di Andrade s’intitola “Pau Brasil”  -l’Albero del  Brasile-  ed è espressione del movimento Modernista che negli anni Venti del Novecento anima il clima letterario del Paese sudamericano: in altre parole, la riscoperta di un Brasile dell’Età dell’Oro. Ungaretti, che ha insegnato all’Università di San Paolo dal 1936 al 1942, aggiunge a quelle di Andrade un’ulteriore “cronaca” scritta per la Rivista, di cui lui stesso è l’autore: si intitola “Boschetti di cahusù”. “Con la sua gomma/quegli Indi fanno bottiglie e otri…E seringa è la gomma/E chi la va estraendo è il seringueiro/E il seringal è lo strano boschetto…”. Le foto che accompagnano l’articolo sono state scattate quarant’anni prima da Alberto Pirelli,  figlio del Fondatore Giovanni Battista e vicepresidente della Pirelli nel 1949,  durante un suo viaggio di studio presso le piantagioni di caucciù a Manaus, in Amazzonia. Lo “scherzo ungarettiano” viene ripreso anni dopo  -Rivista Pirelli n° 1, 1953-  dal critico letterario Giansiro Ferrata come esempio di un vivere “dentro” la poesia.

Rivista Pirelli n°4, luglio 1949: “Vacanze in Versilia” porta la firma di Eugenio Montale. Diario minimo di una vacanza tra Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta: “un delizioso buco nascosto tra il verde”, con un pergolato d’uva acerba “per vedere senza essere veduto, come piace a me”. Il risultato è un racconto di lieve e stupefacente umorismo, denso di quella divertita leggerezza che il poeta sa dispensare a tratti, con parsimonia, per non turbare il suo distaccato riserbo. E come Montale racconta di Versilia per la Rivista, lo scrittore lucchese Ermanno Pea si sta accingendo a raccontare a sua volta per lo stesso giornale“Mezzo secolo della Versilia”, articolo pubblicato sul n° 4 del 1953. Salvatore Quasimodo ha già firmato per la Rivista nel 1949 la traduzione del XXIII Libro dell’Iliade, “Giochi funebri in onore di Patroclo”. Ma per restare in tema di paesaggi ermetici, non possiamo non andare a “Muri siciliani”, sul n° 5 del 1951. Poche righe, neppure mezza pagina, ma di estrema densità per descrivere un uomo che costruisce la propria casa sul mare di Trabia: l’Uomo operaio e padrone, architetto e ingegnere, l’Uomo a piedi nudi e dalle “mani di carta vetrata”, che ha “un’unghia violacea pestata da una trave”. E la sua casa è tagliata nella luce, una casa schiumante che potrebbe scivolare come un veliero dentro il mare. Una lettera d’amore che il poeta siciliano scrive a una terra che è stata greca ma anche primitiva, normanna, saracena, spagnola, alla ricerca di una memoria che rievochi “forme semplici e precise dove abita l’uomo che mi è stato compagno e amico per millenni”…

Il Brasile arcaico e primitivo di Giuseppe Ungaretti, la Versilia lieve e allegra di Eugenio Montale, la Sicilia bianchissima di luce di Salvatore Quasimodo: tra il 1949 e il 1951, la classica triade degli scrittori ermetici italiani contribuisce a connotare la Rivista Pirelli, nata nel 1948, come un giornale aziendale aperto alle più grandi firme della letteratura contemporanea.

E’ già al massimo della fama Giuseppe Ungaretti quando pubblica, sulla Rivista n° 1 del 1949, la raccolta di sonetti “Vecchio Brasile”. Un componimento complesso e geniale: la traduzione in italiano delle “cronache” che il poeta brasiliano Oswald de Andrade, tra il 1924 e il 1925, ha immaginato come fossero scritte da esploratori e conquistatori di un’Amazzonia persa nella notte dei tempi. L’opera originale di Andrade s’intitola “Pau Brasil”  -l’Albero del  Brasile-  ed è espressione del movimento Modernista che negli anni Venti del Novecento anima il clima letterario del Paese sudamericano: in altre parole, la riscoperta di un Brasile dell’Età dell’Oro. Ungaretti, che ha insegnato all’Università di San Paolo dal 1936 al 1942, aggiunge a quelle di Andrade un’ulteriore “cronaca” scritta per la Rivista, di cui lui stesso è l’autore: si intitola “Boschetti di cahusù”. “Con la sua gomma/quegli Indi fanno bottiglie e otri…E seringa è la gomma/E chi la va estraendo è il seringueiro/E il seringal è lo strano boschetto…”. Le foto che accompagnano l’articolo sono state scattate quarant’anni prima da Alberto Pirelli,  figlio del Fondatore Giovanni Battista e vicepresidente della Pirelli nel 1949,  durante un suo viaggio di studio presso le piantagioni di caucciù a Manaus, in Amazzonia. Lo “scherzo ungarettiano” viene ripreso anni dopo  -Rivista Pirelli n° 1, 1953-  dal critico letterario Giansiro Ferrata come esempio di un vivere “dentro” la poesia.

Rivista Pirelli n°4, luglio 1949: “Vacanze in Versilia” porta la firma di Eugenio Montale. Diario minimo di una vacanza tra Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta: “un delizioso buco nascosto tra il verde”, con un pergolato d’uva acerba “per vedere senza essere veduto, come piace a me”. Il risultato è un racconto di lieve e stupefacente umorismo, denso di quella divertita leggerezza che il poeta sa dispensare a tratti, con parsimonia, per non turbare il suo distaccato riserbo. E come Montale racconta di Versilia per la Rivista, lo scrittore lucchese Ermanno Pea si sta accingendo a raccontare a sua volta per lo stesso giornale“Mezzo secolo della Versilia”, articolo pubblicato sul n° 4 del 1953. Salvatore Quasimodo ha già firmato per la Rivista nel 1949 la traduzione del XXIII Libro dell’Iliade, “Giochi funebri in onore di Patroclo”. Ma per restare in tema di paesaggi ermetici, non possiamo non andare a “Muri siciliani”, sul n° 5 del 1951. Poche righe, neppure mezza pagina, ma di estrema densità per descrivere un uomo che costruisce la propria casa sul mare di Trabia: l’Uomo operaio e padrone, architetto e ingegnere, l’Uomo a piedi nudi e dalle “mani di carta vetrata”, che ha “un’unghia violacea pestata da una trave”. E la sua casa è tagliata nella luce, una casa schiumante che potrebbe scivolare come un veliero dentro il mare. Una lettera d’amore che il poeta siciliano scrive a una terra che è stata greca ma anche primitiva, normanna, saracena, spagnola, alla ricerca di una memoria che rievochi “forme semplici e precise dove abita l’uomo che mi è stato compagno e amico per millenni”…

Multimedia

Images

Podcast

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?