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Symbola, ritratto dell’Italia che lavora ed esporta ma senza dimenticare il peso del debito pubblico

Il 2018 è “l’anno della svolta”, perché “l’industria ha riacceso i motori”, l’export va meglio che mai, la crescita del Pil dell’1,5% del 2017 mostra di potersi ripetere sino al 2019, salgono redditi (+0,7% il reddito disponibile delle famiglie nel terzo trimestre 2017 rispetto all’anno precedente), potere d’acquisto (+1,1%), risparmi e investimenti, privati e pubblici. Diminuisce il carico fiscale (è al 40,3%, il livello più basso degli ultimi sei anni). I titoli de “IlSole24Ore” e del “Corriere della Sera” tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio sono ottimisti. Eppure in giro tira aria di scontentezza, di disagio, di crisi. Soldi in tasca ma musi lunghi. Perché?
Il rapporto Ipsos “Perils of perception” mette l’Italia in testa ai paesi europei per la distorta percezione di sé, al dodicesimo posto d’una classifica di 38 nazioni e che vede in cima il Sud Africa, seguito da Brasile, Filippine e Perù (i più lontani dalla realtà indicata dai dati sulla crescita economica e sociale) e all’ultimo posto la Svezia, patria del maggior realismo (“la Repubblica”, 4 gennaio). In sintesi: ci percepiamo negativamente, ci sottostimiamo, ci raccontiamo male.

È una conferma delle rilevazioni dell’ultimo Rapporto Censis che mette in evidenza l’emergere di una “Italia del rancore”, nonostante tutti i dati economici indichino oramai da qualche tempo una crescita della ricchezza e dei posti di lavoro, pur tra rilevanti squilibri territoriali e sociali. E su cui ha ritenuto doveroso insistere anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno, sulla necessità di porre un argine all’Italia “del risentimento” e impegnarsi invece, in politica e nella società, per rafforzare i dati positivi che nonostante tutto emergono nel nostro Paese.
Che dati? A parte quelli sul Pil e senza dimenticare il peso dei conti pubblici (il debito è sempre troppo alto: ne parleremo meglio tra poco), vale la pena fermare l’attenzione su alcuni numeri. Con l’aiuto della Fondazione Symbola che anche quest’anno pubblica il suo Rapporto su “L’Italia in dieci selfie”, sul Bel Paese che funziona. Non percezioni. Ma statistiche internazionali.
Qualche dato: nell’agroalimentare siamo i primi al mondo per sostenibilità (emettiamo il minor numero di tonnellate di CO2 per milioni di euro prodotti, meglio di quanto facciano Spagna e Francia, la metà di Germania e Regno Unito) e anche la nostra produzione industriale è la più efficiente da punto di vista energetico; siamo il quarto paese al mondo per export di macchinari industriali, dopo Germania, Cina e Giappone; siamo il secondo per quote di mercato nella moda, dopo la Cina (il 40% i cinesi, il 6,6% noi, poi l’India e la Germania). E ancora: siamo i primi tra i “grandi” della Ue per crescita dell’export della farmaceutica. In poche parole: abbiamo una solida green economy e cresciamo in settori industriali d’avanguardia, la meccanica e la “meccatronica”, cardine di un sistema che sta affrontando bene le sfide digitali di “Industry4.0” e fa di noi, comunque, la seconda potenza manifatturiera della Ue dopo la Germania.

L’export segna ancora un record (“IlSole24Ore”, 30 dicembre 2017): 450 miliardi, quasi l’8% in più che nel 2016 e con tutte le premesse (rivitalizzazione del tessuto produttivo, investimenti, scelte di politica economica del governo per affrontare meglio i mercati internazionali) perché si cresca ancora pure nel 2018.
“Senza vanto di propaganda né ottimismo di maniera, ma nemmeno senza eccessi di pessimismo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola, che anche con quei “dieci selfie” conferma l’impegno a fare emergere “l’Italia che va” e il ruolo delle buone imprese.
C’è uno “storytelling” fondato sul disagio, la paura, le fragilità pur innegabili del Paese, in cerca di facili consensi elettorali “populisti”. E c’è anche una carenza degli attori più responsabili della politica, dell’economia e della cultura a rendere credibile e popolare il racconto dei tanti italiani che si impegnano, lavorano, investono, innovano, fanno di tutto per cambiare il Paese. Una sfida civile, cui fare fronte responsabilmente.

Restano, naturalmente, i problemi, a cominciare dal debito pubblico (lo hanno giustamente ricordato Carlo Cottarelli su “La Stampa”, 29 dicembre e Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera” il giorno dopo) e su cui quasi nessuno, tra le forze politiche alla vigilia della campagna elettorale, sembra porre la necessaria attenzione: un’ipoteca sul futuro, un grave rischio scaricato irresponsabilmente sulle nuove generazioni, ancora più grave in un momento in cui i tassi tendono al rialzo e la politica della Bce di Mario Draghi ispirata al “quantitative easing” va verso l’esaurimento (rifinanziare i titoli del nostro debito, in altri termini, ci costerà sempre di più, riducendo le risorse per servizi e investimenti pubblici). E quei problemi avrebbero bisogno di scelte politiche e di riforme serie e lungimiranti (altro che le campagne contro l’euro e le sparate facili sul fisco indiscriminatamente leggero).
“La ‘prova debito’ resta il vero esame dell’Italia in rimonta”, nota bene un economista serio come Gianni Toniolo (“IlSole24Ore”, 31 dicembre). Debito da tagliare, riforme da fare, economia da rafforzare, appunto (a cominciare dal miglioramento della relazione virtuosa salari-produttività). La “rimonta”, trainata dalle imprese migliori, c’è ed è sempre più evidente. Serve una buona politica. Ecco un tema vero da affrontare, proprio in campagna elettorale, fuori da facili retoriche di propaganda.

Il 2018 è “l’anno della svolta”, perché “l’industria ha riacceso i motori”, l’export va meglio che mai, la crescita del Pil dell’1,5% del 2017 mostra di potersi ripetere sino al 2019, salgono redditi (+0,7% il reddito disponibile delle famiglie nel terzo trimestre 2017 rispetto all’anno precedente), potere d’acquisto (+1,1%), risparmi e investimenti, privati e pubblici. Diminuisce il carico fiscale (è al 40,3%, il livello più basso degli ultimi sei anni). I titoli de “IlSole24Ore” e del “Corriere della Sera” tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio sono ottimisti. Eppure in giro tira aria di scontentezza, di disagio, di crisi. Soldi in tasca ma musi lunghi. Perché?
Il rapporto Ipsos “Perils of perception” mette l’Italia in testa ai paesi europei per la distorta percezione di sé, al dodicesimo posto d’una classifica di 38 nazioni e che vede in cima il Sud Africa, seguito da Brasile, Filippine e Perù (i più lontani dalla realtà indicata dai dati sulla crescita economica e sociale) e all’ultimo posto la Svezia, patria del maggior realismo (“la Repubblica”, 4 gennaio). In sintesi: ci percepiamo negativamente, ci sottostimiamo, ci raccontiamo male.

È una conferma delle rilevazioni dell’ultimo Rapporto Censis che mette in evidenza l’emergere di una “Italia del rancore”, nonostante tutti i dati economici indichino oramai da qualche tempo una crescita della ricchezza e dei posti di lavoro, pur tra rilevanti squilibri territoriali e sociali. E su cui ha ritenuto doveroso insistere anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno, sulla necessità di porre un argine all’Italia “del risentimento” e impegnarsi invece, in politica e nella società, per rafforzare i dati positivi che nonostante tutto emergono nel nostro Paese.
Che dati? A parte quelli sul Pil e senza dimenticare il peso dei conti pubblici (il debito è sempre troppo alto: ne parleremo meglio tra poco), vale la pena fermare l’attenzione su alcuni numeri. Con l’aiuto della Fondazione Symbola che anche quest’anno pubblica il suo Rapporto su “L’Italia in dieci selfie”, sul Bel Paese che funziona. Non percezioni. Ma statistiche internazionali.
Qualche dato: nell’agroalimentare siamo i primi al mondo per sostenibilità (emettiamo il minor numero di tonnellate di CO2 per milioni di euro prodotti, meglio di quanto facciano Spagna e Francia, la metà di Germania e Regno Unito) e anche la nostra produzione industriale è la più efficiente da punto di vista energetico; siamo il quarto paese al mondo per export di macchinari industriali, dopo Germania, Cina e Giappone; siamo il secondo per quote di mercato nella moda, dopo la Cina (il 40% i cinesi, il 6,6% noi, poi l’India e la Germania). E ancora: siamo i primi tra i “grandi” della Ue per crescita dell’export della farmaceutica. In poche parole: abbiamo una solida green economy e cresciamo in settori industriali d’avanguardia, la meccanica e la “meccatronica”, cardine di un sistema che sta affrontando bene le sfide digitali di “Industry4.0” e fa di noi, comunque, la seconda potenza manifatturiera della Ue dopo la Germania.

L’export segna ancora un record (“IlSole24Ore”, 30 dicembre 2017): 450 miliardi, quasi l’8% in più che nel 2016 e con tutte le premesse (rivitalizzazione del tessuto produttivo, investimenti, scelte di politica economica del governo per affrontare meglio i mercati internazionali) perché si cresca ancora pure nel 2018.
“Senza vanto di propaganda né ottimismo di maniera, ma nemmeno senza eccessi di pessimismo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola, che anche con quei “dieci selfie” conferma l’impegno a fare emergere “l’Italia che va” e il ruolo delle buone imprese.
C’è uno “storytelling” fondato sul disagio, la paura, le fragilità pur innegabili del Paese, in cerca di facili consensi elettorali “populisti”. E c’è anche una carenza degli attori più responsabili della politica, dell’economia e della cultura a rendere credibile e popolare il racconto dei tanti italiani che si impegnano, lavorano, investono, innovano, fanno di tutto per cambiare il Paese. Una sfida civile, cui fare fronte responsabilmente.

Restano, naturalmente, i problemi, a cominciare dal debito pubblico (lo hanno giustamente ricordato Carlo Cottarelli su “La Stampa”, 29 dicembre e Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera” il giorno dopo) e su cui quasi nessuno, tra le forze politiche alla vigilia della campagna elettorale, sembra porre la necessaria attenzione: un’ipoteca sul futuro, un grave rischio scaricato irresponsabilmente sulle nuove generazioni, ancora più grave in un momento in cui i tassi tendono al rialzo e la politica della Bce di Mario Draghi ispirata al “quantitative easing” va verso l’esaurimento (rifinanziare i titoli del nostro debito, in altri termini, ci costerà sempre di più, riducendo le risorse per servizi e investimenti pubblici). E quei problemi avrebbero bisogno di scelte politiche e di riforme serie e lungimiranti (altro che le campagne contro l’euro e le sparate facili sul fisco indiscriminatamente leggero).
“La ‘prova debito’ resta il vero esame dell’Italia in rimonta”, nota bene un economista serio come Gianni Toniolo (“IlSole24Ore”, 31 dicembre). Debito da tagliare, riforme da fare, economia da rafforzare, appunto (a cominciare dal miglioramento della relazione virtuosa salari-produttività). La “rimonta”, trainata dalle imprese migliori, c’è ed è sempre più evidente. Serve una buona politica. Ecco un tema vero da affrontare, proprio in campagna elettorale, fuori da facili retoriche di propaganda.

Buone Feste dalla Fondazione Pirelli!

Lo staff della Fondazione Pirelli vi augura buone feste e un felice inizio d’anno, dandovi appuntamento al 2 gennaio 2018. Grazie per aver condiviso con noi un 2017 ricco di attività. 3500 le persone che hanno visitato con noi la Fondazione Pirelli e il nostro Headquarters, 3000 gli studenti e gli insegnanti che hanno partecipato ai laboratori e alle iniziative di Fondazione Pirelli Educational, più di 3000 le persone che hanno partecipato ai nostri eventi, 38.000 gli utenti del nostro sito e dei nostri social network. Senza dimenticare le iniziative sulla lettura e sulle nostre biblioteche aziendali con oltre 6.000 titoli a catalogo.

Continuate a seguirci anche nel 2018.

Auguri a tutti voi!

Lo staff della Fondazione Pirelli vi augura buone feste e un felice inizio d’anno, dandovi appuntamento al 2 gennaio 2018. Grazie per aver condiviso con noi un 2017 ricco di attività. 3500 le persone che hanno visitato con noi la Fondazione Pirelli e il nostro Headquarters, 3000 gli studenti e gli insegnanti che hanno partecipato ai laboratori e alle iniziative di Fondazione Pirelli Educational, più di 3000 le persone che hanno partecipato ai nostri eventi, 38.000 gli utenti del nostro sito e dei nostri social network. Senza dimenticare le iniziative sulla lettura e sulle nostre biblioteche aziendali con oltre 6.000 titoli a catalogo.

Continuate a seguirci anche nel 2018.

Auguri a tutti voi!

Alla scoperta dei luoghi più rappresentativi dell’impronta lasciata da Vittorio Gregotti sul tessuto urbano dell’area Bicocca

Dall’Headquarters Pirelli al Campus Universitario di Bicocca per terminare con la mostra del PAC Padiglione d’Arte Contemporanea dedicata alla figura e all’opera dell’architetto Vittorio Gregotti per il suo novantesimo compleanno. Sono queste le tappe del tour proposto dalla Fondazione Pirelli e dall’Università di Milano Bicocca, in occasione della mostra antologica Il territorio dell’architettura. Gregotti e Associati 1953_2017 (20 dicembre 2017 al 11 febbraio 2018).

Nei giorni di sabato 20 gennaio, sabato 27 gennaio e sabato 10 febbraio 2018 infatti il pubblico potrà visitare l’Headquarters Pirelli — reinterpretazione in chiave contemporanea di un manufatto industriale degli anni Cinquanta del Novecento — e l’adiacente complesso architettonico dell’Università di Milano-Bicocca (edifici U6, U7 e U12), realizzato a partire dai vecchi fabbricati della Pirelli Pneumatici e Pirelli Prodotti Diversificati.

Due luoghi altamente simbolici, capaci di riassumere in sé il significato di un progetto -fortemente voluto da Pirelli e dall’allora presidente Leopoldo Pirelli- che già oltre trent’anni fa prefigurava la nascita di un nuovo concetto di urbanistica moderna a partire da strutture industriali ormai obsolete. Iniziata nel 1985 a valle dell’accordo tra Pirelli, Comune di Milano e Regione Lombardia, l’operazione di recupero dell’area di circa un milione di metri quadri — conosciuta come Progetto Bicocca — è stata condotta dallo Studio Gregotti Associati secondo una logica di vera e propria riurbanizzazione del territorio, inseguendo l’idea di una “città nella città” che ridisegnasse la Milano delle fabbriche secondo nuovi criteri funzionali.

L’Headquarters Pirelli è l’icona del Progetto Bicocca: un grande cubo di vetro e cemento che ingloba una torre, costruita nel 1950 e utilizzata per il raffreddamento dell’acqua destinata al funzionamento dei vulcanizzatori. In continuità con il suo essere stato un connotato forte dell’industria del Novecento, la torre ha continuato a rappresentare una sorta di capitale simbolico di un’industria nuova, proiettata verso il terzo millennio. Con i suoi cinquanta metri di lato, la parete vetrata che occupa tutta la facciata ovest dell’Headquarters “apre” idealmente questo luogo del lavoro, dove l’antico — anzi l’antichissimo considerando anche la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi — e il contemporaneo si incontrano, a quel quartiere Bicocca che la mano di Gregotti ha saputo riplasmare a fondo.

Pochi metri — il viale Piero e Alberto Pirelli — separano il centro direzionale Pirelli dagli edifici U6, U7 e dalla Residenza delle Fontane (U12) dell’Università di Milano-Bicocca. Gli edifici dal classico color rosso mattone che, secondo le parole dell’architetto Gregotti, “vogliono non far dimenticare l’origine industriale dell’area, una continuità rappresentata proprio dall’idea di università come attività di lavoro, ancor prima che di preparazione”. Uniti da passerelle aeree e affacciati sulla grande Piazza dell’Ateneo Nuovo, sono a loro volta l’avanguardia del progetto Distretto Bicocca che si pone l’obiettivo di costruire un’innovativa “rete culturale” nell’area nord della Città Metropolitana. Assieme a Pirelli e altri enti e aziende operanti sul territorio, infatti, il campus universitario di Milano-Bicocca è promotore di questo progetto di ampio respiro che prevede la creazione -anche attraverso il coinvolgimento dei cittadini- di un polo di centralità che leghi formazione, ricerca, cultura e imprese.

Martedì 30 gennaio 2018 una conferenza al PAC con Fondazione Pirelli e Università Milano-Bicocca sarà l’occasione per raccontare passato, presente e futuro del Progetto Bicocca. Con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Cristina Messa, Rettore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Giampaolo Nuvolati, Direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

LE DATE DEI TOUR

Sabato 20, sabato 27 gennaio e sabato 10 febbraio 2018

ore 10.00 (partenza tour Headquarters Pirelli, via Bicocca degli Arcimboldi, 3)

Durata: 2 ore circa

Ingresso libero su prenotazione fino ad esaurimento posti

Gruppi di 25 persone per turno

Info e Prenotazioni

visite@fondazionepirelli.org

Tel. 0264423971

Al termine dei tour i rappresentanti dell’Università consegneranno un coupon che consegnato alla biglietteria del Pac darà diritto a un ingresso ridotto speciale a € 4 (anziché € 8) alla mostra Gregotti e Associati 1953_2017.

Save the date

Dall’Headquarters Pirelli al Campus Universitario di Bicocca per terminare con la mostra del PAC Padiglione d’Arte Contemporanea dedicata alla figura e all’opera dell’architetto Vittorio Gregotti per il suo novantesimo compleanno. Sono queste le tappe del tour proposto dalla Fondazione Pirelli e dall’Università di Milano Bicocca, in occasione della mostra antologica Il territorio dell’architettura. Gregotti e Associati 1953_2017 (20 dicembre 2017 al 11 febbraio 2018).

Nei giorni di sabato 20 gennaio, sabato 27 gennaio e sabato 10 febbraio 2018 infatti il pubblico potrà visitare l’Headquarters Pirelli — reinterpretazione in chiave contemporanea di un manufatto industriale degli anni Cinquanta del Novecento — e l’adiacente complesso architettonico dell’Università di Milano-Bicocca (edifici U6, U7 e U12), realizzato a partire dai vecchi fabbricati della Pirelli Pneumatici e Pirelli Prodotti Diversificati.

Due luoghi altamente simbolici, capaci di riassumere in sé il significato di un progetto -fortemente voluto da Pirelli e dall’allora presidente Leopoldo Pirelli- che già oltre trent’anni fa prefigurava la nascita di un nuovo concetto di urbanistica moderna a partire da strutture industriali ormai obsolete. Iniziata nel 1985 a valle dell’accordo tra Pirelli, Comune di Milano e Regione Lombardia, l’operazione di recupero dell’area di circa un milione di metri quadri — conosciuta come Progetto Bicocca — è stata condotta dallo Studio Gregotti Associati secondo una logica di vera e propria riurbanizzazione del territorio, inseguendo l’idea di una “città nella città” che ridisegnasse la Milano delle fabbriche secondo nuovi criteri funzionali.

L’Headquarters Pirelli è l’icona del Progetto Bicocca: un grande cubo di vetro e cemento che ingloba una torre, costruita nel 1950 e utilizzata per il raffreddamento dell’acqua destinata al funzionamento dei vulcanizzatori. In continuità con il suo essere stato un connotato forte dell’industria del Novecento, la torre ha continuato a rappresentare una sorta di capitale simbolico di un’industria nuova, proiettata verso il terzo millennio. Con i suoi cinquanta metri di lato, la parete vetrata che occupa tutta la facciata ovest dell’Headquarters “apre” idealmente questo luogo del lavoro, dove l’antico — anzi l’antichissimo considerando anche la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi — e il contemporaneo si incontrano, a quel quartiere Bicocca che la mano di Gregotti ha saputo riplasmare a fondo.

Pochi metri — il viale Piero e Alberto Pirelli — separano il centro direzionale Pirelli dagli edifici U6, U7 e dalla Residenza delle Fontane (U12) dell’Università di Milano-Bicocca. Gli edifici dal classico color rosso mattone che, secondo le parole dell’architetto Gregotti, “vogliono non far dimenticare l’origine industriale dell’area, una continuità rappresentata proprio dall’idea di università come attività di lavoro, ancor prima che di preparazione”. Uniti da passerelle aeree e affacciati sulla grande Piazza dell’Ateneo Nuovo, sono a loro volta l’avanguardia del progetto Distretto Bicocca che si pone l’obiettivo di costruire un’innovativa “rete culturale” nell’area nord della Città Metropolitana. Assieme a Pirelli e altri enti e aziende operanti sul territorio, infatti, il campus universitario di Milano-Bicocca è promotore di questo progetto di ampio respiro che prevede la creazione -anche attraverso il coinvolgimento dei cittadini- di un polo di centralità che leghi formazione, ricerca, cultura e imprese.

Martedì 30 gennaio 2018 una conferenza al PAC con Fondazione Pirelli e Università Milano-Bicocca sarà l’occasione per raccontare passato, presente e futuro del Progetto Bicocca. Con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Cristina Messa, Rettore dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Giampaolo Nuvolati, Direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

LE DATE DEI TOUR

Sabato 20, sabato 27 gennaio e sabato 10 febbraio 2018

ore 10.00 (partenza tour Headquarters Pirelli, via Bicocca degli Arcimboldi, 3)

Durata: 2 ore circa

Ingresso libero su prenotazione fino ad esaurimento posti

Gruppi di 25 persone per turno

Info e Prenotazioni

visite@fondazionepirelli.org

Tel. 0264423971

Al termine dei tour i rappresentanti dell’Università consegneranno un coupon che consegnato alla biglietteria del Pac darà diritto a un ingresso ridotto speciale a € 4 (anziché € 8) alla mostra Gregotti e Associati 1953_2017.

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Il Natale tra le pagine
degli house organ Pirelli

Quante recite natalizie hanno organizzato i bambini di asili e doposcuola Pirelli nel mondo? Quante letterine a Babbo Natale hanno ricevuto all’Azienda Articoli Vari di Roma, che produceva i giocattoli in gomma Pirelli? Quanti panettoni hanno varcato i cancelli delle fabbriche? Il Natale è la festa più “globale” di tutte, capace di unire e accomunare tutte le diverse culture di tutte le diverse società. E’ festeggiato in ogni angolo del mondo Pirelli, anche se con usanze diverse e con diverse simbologie: ma è sempre uno solo, potente nella sua capacità di unire i popoli e attraversare  il tempo.

Lo leggiamo sulle tante e tante copertine che gli house organ del Gruppo hanno dedicato nei mesi di dicembre alla festa magica del Natale, ad ogni latitudine e in un intreccio di culture pressoché unico. Ad esempio, quelle di Noticias – giornale aziendale della Pirelli Brasile – sono tra le copertine natalizie più belle, allegre e colorate. “Bom Natal”, dunque, con i babbi natale tra i rami di un albero decorato a banane e uva: “Feliz Natal e próspero 1969”, e non importa se i bambini hanno magliette leggere a maniche corte e fuori splende il sole. Vestiti estivi sotto l’albero scintillante anche per i bambini argentini di “Páginas Pirelli”. I “pirelitos”, con i loro regali ben stretti tra le braccia, diventano portatori di “Fraternidad, Paz y Trabajo”: è il 1956, ha appena festeggiato il primo anno di vita l’house organ della Pirelli Platense, enclave italiano in terra argentina.

“Products from Burton-on-Trent” per il Natale della famigliola in copertina di “Pirellicon”, dicembre 1959. L’house-magazine della Pirelli Limited inglese è una celebrazione di tutta  la produzione Pirelli di fine anni Cinquanta: calde pantofole e una comoda poltrona sdraio per mamma, giocattoli in gomma per i bambini. Papà, in giacca, cravatta e babbucce Pirelli, riceve nientemeno che un pneumatico -si spera 4- Pirelli BS3, magia tecnologica del 1959. Stessi anni ma atmosfera più istituzionalmente dedicata alla simbologia natalizia classica per lo spagnolo “Hechos y Noticias”. Natività in ceramica con lo sfondo della Sagrada Familia per la Navidad 1955, un pastore in terracotta sotto il ramo d’abete decorato per il 1956. E poi naturalmente la dedica ai Re Magi, che in Spagna contano quasi più di Babbo Natale: la cinquecentesca vetrata della cattedrale di Nuestra Señora de los Reyes a Barcellona per il numero di Dicembre 1958. Natale d’autore per l’house organ greco “Ta Nea tis Pirelli Hellas”, il Babbo Natale che porta i doni viaggiando per il cielo in macchina – gommata naturalmente Cinturato – e disegnato da Riccardo Manzi. In lontananza, spunta il Partenone.

E poi, naturalmente, le tante copertine dedicate al Natale sia dal magazine aziendale Fatti e Notizie sia dalla rivista “Pirelli”, fortunata operazione editoriale in edicola tra gli anni Quaranta e Settanta. Sono due copertine della Rivista Pirelli a riassumerci tutto un mondo di festività sotto il segno della P Lunga. Dicembre 1949: i bambini del tanto atteso Dopoguerra possono finalmente sognare il Gatto Meo, la bambola Susy, i pupazzi Rempel, i palloni colorati. Dicembre 1960: “Il Babbo Natale meccanico”, geniale intuizione del designer André François che assieme a colleghi come Ezio Bonini, Sandro Mendini, Renzo Biasion faceva ancora una volta della rivista “Pirelli” – sotto la guida di Arrigo Castellani – uno specchio puntuale dei tempi.

Quante recite natalizie hanno organizzato i bambini di asili e doposcuola Pirelli nel mondo? Quante letterine a Babbo Natale hanno ricevuto all’Azienda Articoli Vari di Roma, che produceva i giocattoli in gomma Pirelli? Quanti panettoni hanno varcato i cancelli delle fabbriche? Il Natale è la festa più “globale” di tutte, capace di unire e accomunare tutte le diverse culture di tutte le diverse società. E’ festeggiato in ogni angolo del mondo Pirelli, anche se con usanze diverse e con diverse simbologie: ma è sempre uno solo, potente nella sua capacità di unire i popoli e attraversare  il tempo.

Lo leggiamo sulle tante e tante copertine che gli house organ del Gruppo hanno dedicato nei mesi di dicembre alla festa magica del Natale, ad ogni latitudine e in un intreccio di culture pressoché unico. Ad esempio, quelle di Noticias – giornale aziendale della Pirelli Brasile – sono tra le copertine natalizie più belle, allegre e colorate. “Bom Natal”, dunque, con i babbi natale tra i rami di un albero decorato a banane e uva: “Feliz Natal e próspero 1969”, e non importa se i bambini hanno magliette leggere a maniche corte e fuori splende il sole. Vestiti estivi sotto l’albero scintillante anche per i bambini argentini di “Páginas Pirelli”. I “pirelitos”, con i loro regali ben stretti tra le braccia, diventano portatori di “Fraternidad, Paz y Trabajo”: è il 1956, ha appena festeggiato il primo anno di vita l’house organ della Pirelli Platense, enclave italiano in terra argentina.

“Products from Burton-on-Trent” per il Natale della famigliola in copertina di “Pirellicon”, dicembre 1959. L’house-magazine della Pirelli Limited inglese è una celebrazione di tutta  la produzione Pirelli di fine anni Cinquanta: calde pantofole e una comoda poltrona sdraio per mamma, giocattoli in gomma per i bambini. Papà, in giacca, cravatta e babbucce Pirelli, riceve nientemeno che un pneumatico -si spera 4- Pirelli BS3, magia tecnologica del 1959. Stessi anni ma atmosfera più istituzionalmente dedicata alla simbologia natalizia classica per lo spagnolo “Hechos y Noticias”. Natività in ceramica con lo sfondo della Sagrada Familia per la Navidad 1955, un pastore in terracotta sotto il ramo d’abete decorato per il 1956. E poi naturalmente la dedica ai Re Magi, che in Spagna contano quasi più di Babbo Natale: la cinquecentesca vetrata della cattedrale di Nuestra Señora de los Reyes a Barcellona per il numero di Dicembre 1958. Natale d’autore per l’house organ greco “Ta Nea tis Pirelli Hellas”, il Babbo Natale che porta i doni viaggiando per il cielo in macchina – gommata naturalmente Cinturato – e disegnato da Riccardo Manzi. In lontananza, spunta il Partenone.

E poi, naturalmente, le tante copertine dedicate al Natale sia dal magazine aziendale Fatti e Notizie sia dalla rivista “Pirelli”, fortunata operazione editoriale in edicola tra gli anni Quaranta e Settanta. Sono due copertine della Rivista Pirelli a riassumerci tutto un mondo di festività sotto il segno della P Lunga. Dicembre 1949: i bambini del tanto atteso Dopoguerra possono finalmente sognare il Gatto Meo, la bambola Susy, i pupazzi Rempel, i palloni colorati. Dicembre 1960: “Il Babbo Natale meccanico”, geniale intuizione del designer André François che assieme a colleghi come Ezio Bonini, Sandro Mendini, Renzo Biasion faceva ancora una volta della rivista “Pirelli” – sotto la guida di Arrigo Castellani – uno specchio puntuale dei tempi.

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Fondazione Pirelli Educational: come nasce un pneumatico nell’industria 4.0

Come nella scorsa edizione, anche quest’anno il programma Fondazione Pirelli Educational ha proposto, all’interno dell’offerta didattica per scuole secondarie di I e II grado, le visite ai laboratori chimici, di Ricerca e Sviluppo e allo stabilimento NEXT MIRS, concepite come percorsi itineranti nell’area Pirelli di Milano Bicocca.

Il centro di ricerca milanese ricopre infatti un ruolo fondamentale per la sperimentazione di nuove mescole, la progettazione e la realizzazione dei prototipi dei pneumatici Pirelli ad alte prestazioni, tra i più innovativi dal punto di vista della sicurezza e della sostenibilità.

Ogni settimana molte classi – grazie a questi “percorsi tra storia e ricerca scientifica” – hanno avuto la possibilità non solo di conoscere le proprietà della gomma e le principali fasi di lavorazione del pneumatico, ma anche di assistere all’analisi delle mescole, ai test di controllo delle performance dei prototipi, al processo di produzione robotizzata.

Presso i laboratori chimici, i ragazzi, accompagnati da esperti, hanno potuto osservare come le materie prime e tutti i componenti delle mescole siano sottoposti a severi esami, e come funzionino i principali strumenti di analisi avanzata.

Nei laboratori di Ricerca e Sviluppo (R&D), sono entrati in contatto con diverse professionalità all’opera: dalla progettazione ingegneristica dei nuovi battistrada all’esecuzione tecnica dei test indoor statici e dinamici, volti a innalzare sempre di più lo standard qualitativo.

Scegliendo di visitare lo stabilimento milanese basato sul processo Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), gli studenti hanno avuto la preziosa occasione di esplorare, guidati dal personale specializzato, l’impianto di fabbrica adibito alla produzione robotizzata, qui utilizzata per la creazione di prototipi, e di seguirne tutte le fasi.

I percorsi di visita, che si pongono come principale obiettivo educativo quello di avvicinare la scuola al mondo del lavoro, sono sempre introdotti da una panoramica storica a cura di Fondazione Pirelli che ripercorre le salienti tappe dell’avventura del Gruppo, a partire dalla fondazione della prima fabbrica in via Ponte Seveso a Milano nel 1872 fino all’inaugurazione del più avanzato Polo industriale Pirelli a Settimo Torinese e negli stabilimenti di tutto il mondo, grazie alla visione di materiale iconografico, fotografico, e audiovisivo proveniente dall’Archivio Storico.

Un’offerta formativa che continuerà nel 2018 a coinvolgere centinaia di studenti per tutto l’anno scolastico.

Come nella scorsa edizione, anche quest’anno il programma Fondazione Pirelli Educational ha proposto, all’interno dell’offerta didattica per scuole secondarie di I e II grado, le visite ai laboratori chimici, di Ricerca e Sviluppo e allo stabilimento NEXT MIRS, concepite come percorsi itineranti nell’area Pirelli di Milano Bicocca.

Il centro di ricerca milanese ricopre infatti un ruolo fondamentale per la sperimentazione di nuove mescole, la progettazione e la realizzazione dei prototipi dei pneumatici Pirelli ad alte prestazioni, tra i più innovativi dal punto di vista della sicurezza e della sostenibilità.

Ogni settimana molte classi – grazie a questi “percorsi tra storia e ricerca scientifica” – hanno avuto la possibilità non solo di conoscere le proprietà della gomma e le principali fasi di lavorazione del pneumatico, ma anche di assistere all’analisi delle mescole, ai test di controllo delle performance dei prototipi, al processo di produzione robotizzata.

Presso i laboratori chimici, i ragazzi, accompagnati da esperti, hanno potuto osservare come le materie prime e tutti i componenti delle mescole siano sottoposti a severi esami, e come funzionino i principali strumenti di analisi avanzata.

Nei laboratori di Ricerca e Sviluppo (R&D), sono entrati in contatto con diverse professionalità all’opera: dalla progettazione ingegneristica dei nuovi battistrada all’esecuzione tecnica dei test indoor statici e dinamici, volti a innalzare sempre di più lo standard qualitativo.

Scegliendo di visitare lo stabilimento milanese basato sul processo Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), gli studenti hanno avuto la preziosa occasione di esplorare, guidati dal personale specializzato, l’impianto di fabbrica adibito alla produzione robotizzata, qui utilizzata per la creazione di prototipi, e di seguirne tutte le fasi.

I percorsi di visita, che si pongono come principale obiettivo educativo quello di avvicinare la scuola al mondo del lavoro, sono sempre introdotti da una panoramica storica a cura di Fondazione Pirelli che ripercorre le salienti tappe dell’avventura del Gruppo, a partire dalla fondazione della prima fabbrica in via Ponte Seveso a Milano nel 1872 fino all’inaugurazione del più avanzato Polo industriale Pirelli a Settimo Torinese e negli stabilimenti di tutto il mondo, grazie alla visione di materiale iconografico, fotografico, e audiovisivo proveniente dall’Archivio Storico.

Un’offerta formativa che continuerà nel 2018 a coinvolgere centinaia di studenti per tutto l’anno scolastico.

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Da dove arriviamo?

L’ultimo Annale della Fondazione Feltrinelli racconta dell’approdo mancato dell’Italia al mercato mondiale e cerca di spiegarne i motivi

Capire il contesto è fondamentale. Lo si è già detto molte volte, ma vale la pena ricordarlo sempre. Ed è condizione essenziale anche per imprenditori e manager consapevoli dei loro ruoli.  L’ultimo annale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli serve proprio per questo scopo. Curato da Franco Amatori (professore di Storia economica all’Università Boc­coni di Milano), “L’approdo mancato”, è una raccolta di saggi e ricerche importante, della quale si capisce molto già dal sottotitolo: “Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico”. Tutto inizia però dal titolo. L’approdo mancato è un concetto che Mario Pirani propone nel 1991 in un testo pubblicato sulla rivista “Il Mulino”. Tre le occasioni mancate su cui Pirani invitava a riflettere – l’elettronica, il nucleare, la distribuzione petrolifera – sostenendo che se avessimo colto queste opportunità saremmo pervenuti a un approdo giapponese.

Amatori riprende questa suggestione proponendo di intendere, con questa espressione, l’approdo alla frontiera dell’economia mondiale. La “tesi” del curatore è tutto sommato semplice. Per Amatori era un fatto scontato che l’Italia, giunta alla fine del secolo scorso al quinto posto nel mondo per ricchezza prodotta annualmente, dovesse arretrare, così com’era inevitabile che subisse i rigori della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel settembre del 2008. In altre parole, l’avvento della globalizzazione e l’ascesa dei cosiddetti Brics, in particolare della Cina, fanno sì che l’Italia non possa mantenere le sue posizioni. Allo stesso tempo, l’enorme massa dei titoli tossici non poteva non avere effetti sull’economia già gravata da un debito pubblico fra i più alti del mondo. Tuttavia, questi veri e propri uragani sarebbero stati affrontati in modo ben diverso se l’apparato economico e, in particolare, industriale italiano fosse stato di maggiore consistenza; se il Paese avesse potuto avvalersi di una grande industria chimica, elettronica, automobilistica; se avesse avuto una più vasta diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; se fosse stato più autonomo dal punto di vista energetico.

Per dimostrare tutto questo, Amatori ha raccolto una serie di interventi che, fra gli altri, prendono in considerazione temi come l’evoluzione storica e politica dell’Italia dal “miracolo” economico in poi, il fallimento dei progetti tecnologici di frontiera, l’evoluzione del cosiddetto “Stato imprenditore”, le operazioni di nazionalizzazione, le lotte operaie degli anni settanta, i mutamenti nei consumi degli italiani, il passaggio al “declino”, l’emergere della resilienza e le trasformazioni dei distretti industriali, la situazione degli anni ’70 e ’80, la mancanza di regole, l’ingresso nell’euro. Chiudono la raccolta tre altri saggi (“pareri”), sul caso Italia.

Pur nella sua diversità, ogni intervento cerca di rispondere ad una domanda sola: che cosa sarebbe accaduto se lo snodo del post miracolo (fine anni Sessanta, anni Settanta) avesse avuto un esito diverso? I saggi curati da Amatori sono tutti da leggere, e da tenere come una sorta di guida al presente anche se parlano del passato. Bello è l’ultimo concetto che il curatore tiene a far sapere ai lettori: “Cosa possiamo imparare dal passato a proposito del futuro? Considerando la storia italiana, direi una grande cautela. (…) la vicenda umana è la combinazione di tali e tante variabili che la rendono imprevedibile”.

L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico

Franco Amatori

(a cura di)

Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Annali. Anno Cinquantunesimo 2016-2017. Feltrinelli, 2017.

L’ultimo Annale della Fondazione Feltrinelli racconta dell’approdo mancato dell’Italia al mercato mondiale e cerca di spiegarne i motivi

Capire il contesto è fondamentale. Lo si è già detto molte volte, ma vale la pena ricordarlo sempre. Ed è condizione essenziale anche per imprenditori e manager consapevoli dei loro ruoli.  L’ultimo annale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli serve proprio per questo scopo. Curato da Franco Amatori (professore di Storia economica all’Università Boc­coni di Milano), “L’approdo mancato”, è una raccolta di saggi e ricerche importante, della quale si capisce molto già dal sottotitolo: “Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico”. Tutto inizia però dal titolo. L’approdo mancato è un concetto che Mario Pirani propone nel 1991 in un testo pubblicato sulla rivista “Il Mulino”. Tre le occasioni mancate su cui Pirani invitava a riflettere – l’elettronica, il nucleare, la distribuzione petrolifera – sostenendo che se avessimo colto queste opportunità saremmo pervenuti a un approdo giapponese.

Amatori riprende questa suggestione proponendo di intendere, con questa espressione, l’approdo alla frontiera dell’economia mondiale. La “tesi” del curatore è tutto sommato semplice. Per Amatori era un fatto scontato che l’Italia, giunta alla fine del secolo scorso al quinto posto nel mondo per ricchezza prodotta annualmente, dovesse arretrare, così com’era inevitabile che subisse i rigori della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel settembre del 2008. In altre parole, l’avvento della globalizzazione e l’ascesa dei cosiddetti Brics, in particolare della Cina, fanno sì che l’Italia non possa mantenere le sue posizioni. Allo stesso tempo, l’enorme massa dei titoli tossici non poteva non avere effetti sull’economia già gravata da un debito pubblico fra i più alti del mondo. Tuttavia, questi veri e propri uragani sarebbero stati affrontati in modo ben diverso se l’apparato economico e, in particolare, industriale italiano fosse stato di maggiore consistenza; se il Paese avesse potuto avvalersi di una grande industria chimica, elettronica, automobilistica; se avesse avuto una più vasta diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; se fosse stato più autonomo dal punto di vista energetico.

Per dimostrare tutto questo, Amatori ha raccolto una serie di interventi che, fra gli altri, prendono in considerazione temi come l’evoluzione storica e politica dell’Italia dal “miracolo” economico in poi, il fallimento dei progetti tecnologici di frontiera, l’evoluzione del cosiddetto “Stato imprenditore”, le operazioni di nazionalizzazione, le lotte operaie degli anni settanta, i mutamenti nei consumi degli italiani, il passaggio al “declino”, l’emergere della resilienza e le trasformazioni dei distretti industriali, la situazione degli anni ’70 e ’80, la mancanza di regole, l’ingresso nell’euro. Chiudono la raccolta tre altri saggi (“pareri”), sul caso Italia.

Pur nella sua diversità, ogni intervento cerca di rispondere ad una domanda sola: che cosa sarebbe accaduto se lo snodo del post miracolo (fine anni Sessanta, anni Settanta) avesse avuto un esito diverso? I saggi curati da Amatori sono tutti da leggere, e da tenere come una sorta di guida al presente anche se parlano del passato. Bello è l’ultimo concetto che il curatore tiene a far sapere ai lettori: “Cosa possiamo imparare dal passato a proposito del futuro? Considerando la storia italiana, direi una grande cautela. (…) la vicenda umana è la combinazione di tali e tante variabili che la rendono imprevedibile”.

L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico

Franco Amatori

(a cura di)

Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Annali. Anno Cinquantunesimo 2016-2017. Feltrinelli, 2017.

Cultura d’impresa 4.0

Una raccolta di indagine, mette a fuoco lo stato di avanzamento del progetto Industria 4.0

La domanda su quale sia l’impatto delle politiche industriali sul reale sistema della produzione, è cosa d’obbligo anche per la crescita di una consapevole cultura d’impresa che sappia valutare seriamente l’ambito nel quale si evolve l’azienda.

A questo serve la raccolta di ricerche e analisi curata da Elena Prodi, Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi per Adapt sugli effetti, ad un anno dal suo avvio, del piano Industria 4.0.

“Il piano Industria 4.0  un anno dopo. Analisi e prospettive future” è quindi costituito da un insieme di ricerche che ha l’obiettivo di dare dello stato di realizzazione di Industria 4.0 in Italia. Un compito che alla fine arriva a promuovere parzialmente quanto è stato fatto.

Scrivono i curatori all’inizio della raccolta: “Senza competenze e senza nuove forme di organizzazione e regolazione del lavoro il rischio è quello di vanificare gli investimenti fatti, o di utilizzarli unicamente come un semplice rinnovamento del parco macchine. Al contrario la combinazione tra investimenti in tecnologia e competenze in grado di governarli può essere una grande occasione per invertire la rotta della produttività stagnante e per un nuovo rinascimento del lavoro e delle relazioni industriali”.

Sulla base anche di questa premessa, i curatori hanno coordinato le indagini che iniziano con un analisi di Industria 4.0 dal punto di vista lavoristico (“non solo macchinari e tecnologie”), per poi passare ad un approfondimento dei legami fra relazioni industriali, mercato del lavoro e Industria 4.0. A questo segue una altrettanto importante analisi sugli aspetti collegati alla ricerca e all’innovazione. Chiude poi la raccolta una serie di ricerche sulle esperienze di industria 4.0 nel Regno Unito e nei Paesi Bassi.

Scrivono ancora i curatori: “Fin ad oggi il piano ha scontato una visione incentrata soprattutto sugli aspetti più tecnologici le tecnici legati al nuovo paradigma produttivo di Industry 4.0 e per questo molta attenzione è stata dedicata agli investimenti in nuovi macchinari innovativi e in software che ad essi si accompagnano, in una logica di manifattura che sembra propria di un modello del passato”. E ancora: “Quello descritto è quindi un ambiente caratterizzato da notevole complessità unita a sistemi produttivi che, personalizzando sempre di più i prodotti e i servizi in virtù del ruolo centrale del consumatore, spesso presentano elementi di imprevedibilità e non linearità. Per questo motivo, e considerando l’altro livello delle tecnologie impiegate, è fondamentale rivolgere l’attenzione alle competenze e agli strumenti per costruirle”.

“Il piano Industria 4.0  un anno dopo” non è una lettura facilissima, ma è certamente una fatica da affrontare per  riuscire a collocare nella giusta dimensione un progetto importante per le imprese italiane, per il loro approccio organizzativo e culturale alla produzione e per la loro crescita futura.

Il piano Industria 4.0  un anno dopo. Analisi e prospettive future

Elena Prodi, Francesco Seghezzi, Michele Tiraboschi (a cura di)

ADAPT University Press , 2017

Una raccolta di indagine, mette a fuoco lo stato di avanzamento del progetto Industria 4.0

La domanda su quale sia l’impatto delle politiche industriali sul reale sistema della produzione, è cosa d’obbligo anche per la crescita di una consapevole cultura d’impresa che sappia valutare seriamente l’ambito nel quale si evolve l’azienda.

A questo serve la raccolta di ricerche e analisi curata da Elena Prodi, Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi per Adapt sugli effetti, ad un anno dal suo avvio, del piano Industria 4.0.

“Il piano Industria 4.0  un anno dopo. Analisi e prospettive future” è quindi costituito da un insieme di ricerche che ha l’obiettivo di dare dello stato di realizzazione di Industria 4.0 in Italia. Un compito che alla fine arriva a promuovere parzialmente quanto è stato fatto.

Scrivono i curatori all’inizio della raccolta: “Senza competenze e senza nuove forme di organizzazione e regolazione del lavoro il rischio è quello di vanificare gli investimenti fatti, o di utilizzarli unicamente come un semplice rinnovamento del parco macchine. Al contrario la combinazione tra investimenti in tecnologia e competenze in grado di governarli può essere una grande occasione per invertire la rotta della produttività stagnante e per un nuovo rinascimento del lavoro e delle relazioni industriali”.

Sulla base anche di questa premessa, i curatori hanno coordinato le indagini che iniziano con un analisi di Industria 4.0 dal punto di vista lavoristico (“non solo macchinari e tecnologie”), per poi passare ad un approfondimento dei legami fra relazioni industriali, mercato del lavoro e Industria 4.0. A questo segue una altrettanto importante analisi sugli aspetti collegati alla ricerca e all’innovazione. Chiude poi la raccolta una serie di ricerche sulle esperienze di industria 4.0 nel Regno Unito e nei Paesi Bassi.

Scrivono ancora i curatori: “Fin ad oggi il piano ha scontato una visione incentrata soprattutto sugli aspetti più tecnologici le tecnici legati al nuovo paradigma produttivo di Industry 4.0 e per questo molta attenzione è stata dedicata agli investimenti in nuovi macchinari innovativi e in software che ad essi si accompagnano, in una logica di manifattura che sembra propria di un modello del passato”. E ancora: “Quello descritto è quindi un ambiente caratterizzato da notevole complessità unita a sistemi produttivi che, personalizzando sempre di più i prodotti e i servizi in virtù del ruolo centrale del consumatore, spesso presentano elementi di imprevedibilità e non linearità. Per questo motivo, e considerando l’altro livello delle tecnologie impiegate, è fondamentale rivolgere l’attenzione alle competenze e agli strumenti per costruirle”.

“Il piano Industria 4.0  un anno dopo” non è una lettura facilissima, ma è certamente una fatica da affrontare per  riuscire a collocare nella giusta dimensione un progetto importante per le imprese italiane, per il loro approccio organizzativo e culturale alla produzione e per la loro crescita futura.

Il piano Industria 4.0  un anno dopo. Analisi e prospettive future

Elena Prodi, Francesco Seghezzi, Michele Tiraboschi (a cura di)

ADAPT University Press , 2017

L’Italia a due velocità, tra imprese “smart” che innovano e spesa pubblica che spreca

L’Italia è un paese “plurale”, diviso, tra Nord e Sud, aree forti nell’economia e delle imprese e aree deboli della spesa pubblica inefficiente. Ma anche, trasversalmente rispetto alla tradizionale geografia, tra centri urbani “smart”, colti, efficienti e alla moda e periferie dell’abbandono e del degrado (Milano offre esemplari testimonianze di entrambe: lo splendore dei grattacieli hi tech di Porta Nuova e CityLife e la durezza violenta del Quartiere Adriano e delle case popolari dell’Aler). Ed è un paese “asincrono”, se si guardano i tempi d’una politica che decide poco e spesso male e quelli efficienti e internazionali della finanza, dei servizi d’avanguardia (Milano sta sperimentando, prima in Europa, le nuove reti di telecomunicazioni 5G) e dell’industria “digital” 4.0. L’Italia e le Italie. Lo nota anche un grande storico come Andrea Giardina, nelle pagine di un libro quanto mai stimolante, “Storia mondiale dell’Italia”, appena pubblicato da Laterza: “Oggi il Nord della Penisola, dove si trovano aree di sviluppo tra le più elevate del Paese, dialoga con il mondo in modo inevitabilmente diverso rispetto al Sud, che ospita la più vasta zona povera dell’Unione Europea”. Italia da leggere meglio, dunque, come peraltro si ripete da tempo. E da tenere unita, meno disomogenea e più “sincrona”, nell’orizzonte europeo e mediterraneo.

I dati sul Pil documentano una crescita dell’1,5% nel 2017 (ma, fatti i conti alla fine dell’anno, potrà andare anche meglio di qualche decimale) e di un’analoga previsione anche per il 2018. Il Pil sta crescendo da dodici trimestri consecutivi, anche se solo adesso i numeri parlano di qualcosa di più dello “zero, virgola…”. E in ogni caso questa crescita, oramai acquisita e tutt’altro che irrilevante, è minore di quella degli altri partner europei: non abbiamo ancora recuperato i livelli del 2008, l’inizio della Grande Crisi, mentre Germania e Francia l’hanno già fatto. Stiamo benino, senza eccedere in ottimismo. Ma perché, nonostante ciò, tanti italiani si sentono, nel tempo, più fragili e poveri?

Il guaio è che di quest’andamento positivo dell’economia, non tutto il Paese è consapevole né ne avverte gli effetti. Anche qui, vanno tenuti in conto alcuni dati. Per esempio quelli dell’Indice di Gini (che misura la distribuzione dei redditi, in una scala da zero a uno: assoluto equilibrio o totale disequilibrio): nel 2015 è salito da 0,324 a 0,331, segno di una diseguaglianza che si accentua, a vantaggio dei ceti più ricchi. Uno squilibrio sociale e di aspettative che alimenta malumori e disagi (uno dei motivi per l’emergere di quell’Italia “del rancore” documentata dal Rapporto Censis di cui abbiamo parlato la scorsa settimana).

Una conferma di questa situazione arriva anche da Eurostat (l’Ufficio Statistico della Ue) che in una recente ricerca ha ricordato che l’Italia è il paese Ue con il più alto numero di poveri in assoluto: dieci milioni e mezzo di persone, in condizione di “deprivazione materiale e sociale”, in difficoltà cioè a pagare l’affitto regolarmente, fare fronte a una spesa imprevista, avere il riscaldamento, concentrate soprattutto tra i giovani e nelle aree del Sud. E’ il 17,2% della popolazione, una percentuale più alta della media Ue, ben peggiore di quella dei paesi a maggior industrializzazione e sviluppo (solo la Spagna, dei “grandi”, va in percentuale appena peggio di noi: il 17,4%). “Il Belpaese che esclude i deboli”, commenta con amarezza un economista sensibile come Mario Deaglio (“La Stampa”, 13 dicembre)

Sempre Eurostat calcola le differenze di retribuzioni tra regioni e province (una media delle retribuzioni annue lorde di dirigenti, impiegati e operai; ne scrive “La Stampa”, 18 dicembre): si va dai 31.711 euro della Lombardia e dai 30,286 dell’Emilia ai 29.686 del Lazio, per precipitare ai 25.506 della Sicilia e ai 24.537 della Calabria, ultima. Il divario tra province è ancora più netto, dai 34.330 euro di Milano ai 23.729 di Messina: oltre 11mila euro di differenza. Anche tenendo conto del divario di potere d’acquisto, la distanza resta forte. Un Nord di redditi alti, imprenditoriale, dinamico, europeo, un Sud di pubblico impiego, lavori precari, stipendi bassi. Accentuate disparità.

Se dal Pil (la ricchezza) si passa al Bes (l’indice del Benessere Equo e sostenibile, sempre calcolato dall’Istat) la sintesi è preoccupante: “Più ricchi, più poveri”, scrive “Avvenire”, quotidiano cattolico (16 dicembre), spiegando: “Siamo usciti dalla crisi ma salgono diseguaglianze e sfiducia nella politica”, gli italiani “sono meno soddisfatti delle relazioni sociali” e “scende pure lo spirito civico” anche se si colgono “confortanti segnali di ripresa del volontariato”. Il reddito medio delle famiglie è aumentato dell’1,6% rispetto al 2015 ed è pari a 18.191 euro pro capite, ma questo miglioramento statistico va letto insieme a un altro dato: il 20% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio reddito più della media ed è adesso pari a 6,3 volte quello del 20% più povero (nel 2015 il rapporto era al 5,8).

Benessere squilibrato, appunto. E Italia a due velocità.

Lo sviluppo, per poter essere sostenibile (socialmente, e nel corso del tempo lungo), ha bisogno di equità. E di essere fondato sul rafforzamento di imprese dinamiche che producono ricchezza, innovazione ma anche migliore coesione sociale (il welfare aziendale, diffuso proprio là dove ci sono le imprese, nel Nord, migliora di molto la qualità della vita). E su una leva strategica della spesa pubblica in investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali. Ma il quadro attuale non è confortante.

Le imprese che investono, fanno ricerca, esportano, competono sui mercati internazionali e dunque sono locomotiva di crescita stanno facendo bene il loro mestiere (grazie anche ai provvedimenti del governo che stimolano fiscalmente l’innovazione e la trasformazione “digital” dell’industria di qualità). La spesa pubblica nel Mezzogiorno si consuma in stipendi diffusi ma di basso livello e in sprechi di clientele e parentele, in un crescente “rifiuto della modernità” che frena, proprio nel Sud, i migliori ma fragili spiriti imprenditoriali. A crescere, è il disagio sociale. Il benessere desiderato cede il passo al malessere. Con effetti negativi su tutto il sistema Paese.

Modificare il quadro e avviare “una crescita virtuosa” fondata su “equità e sostenibilità” (Aldo Bonomi, “IlSole24Ore”, 17 dicembre) è una sfida economica e civile di grande rilievo. Orizzonte politico indispensabile, chiaro alla stessa sensibilità delle migliori imprese che, da Milano e dal Nord, hanno a cuore il futuro europeo dell’Italia. Quale politica saprà farsene carico?

L’Italia è un paese “plurale”, diviso, tra Nord e Sud, aree forti nell’economia e delle imprese e aree deboli della spesa pubblica inefficiente. Ma anche, trasversalmente rispetto alla tradizionale geografia, tra centri urbani “smart”, colti, efficienti e alla moda e periferie dell’abbandono e del degrado (Milano offre esemplari testimonianze di entrambe: lo splendore dei grattacieli hi tech di Porta Nuova e CityLife e la durezza violenta del Quartiere Adriano e delle case popolari dell’Aler). Ed è un paese “asincrono”, se si guardano i tempi d’una politica che decide poco e spesso male e quelli efficienti e internazionali della finanza, dei servizi d’avanguardia (Milano sta sperimentando, prima in Europa, le nuove reti di telecomunicazioni 5G) e dell’industria “digital” 4.0. L’Italia e le Italie. Lo nota anche un grande storico come Andrea Giardina, nelle pagine di un libro quanto mai stimolante, “Storia mondiale dell’Italia”, appena pubblicato da Laterza: “Oggi il Nord della Penisola, dove si trovano aree di sviluppo tra le più elevate del Paese, dialoga con il mondo in modo inevitabilmente diverso rispetto al Sud, che ospita la più vasta zona povera dell’Unione Europea”. Italia da leggere meglio, dunque, come peraltro si ripete da tempo. E da tenere unita, meno disomogenea e più “sincrona”, nell’orizzonte europeo e mediterraneo.

I dati sul Pil documentano una crescita dell’1,5% nel 2017 (ma, fatti i conti alla fine dell’anno, potrà andare anche meglio di qualche decimale) e di un’analoga previsione anche per il 2018. Il Pil sta crescendo da dodici trimestri consecutivi, anche se solo adesso i numeri parlano di qualcosa di più dello “zero, virgola…”. E in ogni caso questa crescita, oramai acquisita e tutt’altro che irrilevante, è minore di quella degli altri partner europei: non abbiamo ancora recuperato i livelli del 2008, l’inizio della Grande Crisi, mentre Germania e Francia l’hanno già fatto. Stiamo benino, senza eccedere in ottimismo. Ma perché, nonostante ciò, tanti italiani si sentono, nel tempo, più fragili e poveri?

Il guaio è che di quest’andamento positivo dell’economia, non tutto il Paese è consapevole né ne avverte gli effetti. Anche qui, vanno tenuti in conto alcuni dati. Per esempio quelli dell’Indice di Gini (che misura la distribuzione dei redditi, in una scala da zero a uno: assoluto equilibrio o totale disequilibrio): nel 2015 è salito da 0,324 a 0,331, segno di una diseguaglianza che si accentua, a vantaggio dei ceti più ricchi. Uno squilibrio sociale e di aspettative che alimenta malumori e disagi (uno dei motivi per l’emergere di quell’Italia “del rancore” documentata dal Rapporto Censis di cui abbiamo parlato la scorsa settimana).

Una conferma di questa situazione arriva anche da Eurostat (l’Ufficio Statistico della Ue) che in una recente ricerca ha ricordato che l’Italia è il paese Ue con il più alto numero di poveri in assoluto: dieci milioni e mezzo di persone, in condizione di “deprivazione materiale e sociale”, in difficoltà cioè a pagare l’affitto regolarmente, fare fronte a una spesa imprevista, avere il riscaldamento, concentrate soprattutto tra i giovani e nelle aree del Sud. E’ il 17,2% della popolazione, una percentuale più alta della media Ue, ben peggiore di quella dei paesi a maggior industrializzazione e sviluppo (solo la Spagna, dei “grandi”, va in percentuale appena peggio di noi: il 17,4%). “Il Belpaese che esclude i deboli”, commenta con amarezza un economista sensibile come Mario Deaglio (“La Stampa”, 13 dicembre)

Sempre Eurostat calcola le differenze di retribuzioni tra regioni e province (una media delle retribuzioni annue lorde di dirigenti, impiegati e operai; ne scrive “La Stampa”, 18 dicembre): si va dai 31.711 euro della Lombardia e dai 30,286 dell’Emilia ai 29.686 del Lazio, per precipitare ai 25.506 della Sicilia e ai 24.537 della Calabria, ultima. Il divario tra province è ancora più netto, dai 34.330 euro di Milano ai 23.729 di Messina: oltre 11mila euro di differenza. Anche tenendo conto del divario di potere d’acquisto, la distanza resta forte. Un Nord di redditi alti, imprenditoriale, dinamico, europeo, un Sud di pubblico impiego, lavori precari, stipendi bassi. Accentuate disparità.

Se dal Pil (la ricchezza) si passa al Bes (l’indice del Benessere Equo e sostenibile, sempre calcolato dall’Istat) la sintesi è preoccupante: “Più ricchi, più poveri”, scrive “Avvenire”, quotidiano cattolico (16 dicembre), spiegando: “Siamo usciti dalla crisi ma salgono diseguaglianze e sfiducia nella politica”, gli italiani “sono meno soddisfatti delle relazioni sociali” e “scende pure lo spirito civico” anche se si colgono “confortanti segnali di ripresa del volontariato”. Il reddito medio delle famiglie è aumentato dell’1,6% rispetto al 2015 ed è pari a 18.191 euro pro capite, ma questo miglioramento statistico va letto insieme a un altro dato: il 20% più ricco della popolazione ha aumentato il proprio reddito più della media ed è adesso pari a 6,3 volte quello del 20% più povero (nel 2015 il rapporto era al 5,8).

Benessere squilibrato, appunto. E Italia a due velocità.

Lo sviluppo, per poter essere sostenibile (socialmente, e nel corso del tempo lungo), ha bisogno di equità. E di essere fondato sul rafforzamento di imprese dinamiche che producono ricchezza, innovazione ma anche migliore coesione sociale (il welfare aziendale, diffuso proprio là dove ci sono le imprese, nel Nord, migliora di molto la qualità della vita). E su una leva strategica della spesa pubblica in investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali. Ma il quadro attuale non è confortante.

Le imprese che investono, fanno ricerca, esportano, competono sui mercati internazionali e dunque sono locomotiva di crescita stanno facendo bene il loro mestiere (grazie anche ai provvedimenti del governo che stimolano fiscalmente l’innovazione e la trasformazione “digital” dell’industria di qualità). La spesa pubblica nel Mezzogiorno si consuma in stipendi diffusi ma di basso livello e in sprechi di clientele e parentele, in un crescente “rifiuto della modernità” che frena, proprio nel Sud, i migliori ma fragili spiriti imprenditoriali. A crescere, è il disagio sociale. Il benessere desiderato cede il passo al malessere. Con effetti negativi su tutto il sistema Paese.

Modificare il quadro e avviare “una crescita virtuosa” fondata su “equità e sostenibilità” (Aldo Bonomi, “IlSole24Ore”, 17 dicembre) è una sfida economica e civile di grande rilievo. Orizzonte politico indispensabile, chiaro alla stessa sensibilità delle migliori imprese che, da Milano e dal Nord, hanno a cuore il futuro europeo dell’Italia. Quale politica saprà farsene carico?

Sport Club Pirelli: una gita al Mottarone nel 1923

Si costituì il 13 dicembre del 1922 lo Sport Club Pirelli: sede in via Ponte Seveso, campi di gioco e palestra a Bicocca di Niguarda. Presidente fu acclamato il Cav. Uff. Venosta  Ing. Giuseppe, da sempre braccio destro del Fondatore ingegner Giovanni Battista Pirelli e “fervido assertore di ogni forma di educazione fisica e morale”. Vicepresidente Giuseppe Vigorelli, Direttore dell’Agenzia Lombarda Gomme Pirelli ed esperto di ciclismo: di lì a qualche anno avrebbe realizzato il suo sogno di creare un velodromo a Milano. Era esperto di ciclismo anche il cassiere-cronometrista del Club, l’italo-inglese Gilberto Marley che, dopo aver vinto ininterrottamente i campionati Italiani dal 1887 al 1889, era approdato in quell’azienda che con i suoi pneumatici velo “tipo Milano” l’aveva portato tante volte al successo. Dalle fotografie su carta grigio-verde del Bollettino dello Sport Club Pirelli emergono la corsa a ostacoli e il sollevamento pesi, il salto in alto e il calcio, il ciclismo e il giavellotto. Per atleti quanto per “atletesse”, come le agguerritissime “zebrette” della Pro Patria di Busto Arsizio che riempirono di ammirazione lo stadio di Bicocca durante l’Adunata Sportiva del giugno ’23: star indiscussa la signorina Lina Banzi, recordwomen nel salto in alto. E poi gite a piacere su e giù per l’Italia, estate e inverno. A novantaquattro anni giusti di distanza, vi raccontiamo di come un’allegra brigata di sportivi pirelliani affrontò, tra l’8 e il 9 dicembre 1923, i campi innevati del Mottarone, montagna oggi in provincia di Verbano-Cusio-Ossola, allora territorio novarese. Il testo che segue è rigorosamente tratto dall’articolo di Cesare Piantanida “Gita al Mottarone”.

«I costumi pittoreschi da montagna, gli scarponi, le maglie pesanti di lana, i berretti col fiocco,  i bastoni e gli sky, gli sky soprattutto avevano un lieve aspetto anacronistico, una apparenza tartarinesca sul piazzale della stazione, umido e stillante la bruma cittadina. La gita non poteva cominciare sotto migliori auspici: Meloni infaticabile, partito in avanscoperta per il servizio alloggiamenti e vettovagliamento, e Gironi che, coadiuvato da Anselmi, aveva preso il comando della spedizione. Ed ecco alfine il grido desiderato ed invocato: ecco il grido che erompe spontaneo dal petto: “La neve! La neve!”. Ancora pochi minuti ed eccoci alla vetta. Ecco il signor Valentini che è venuto assieme alla sua gentile signora, arma gli sky e parte per il campo. Ecco Bagnato che lo imita, ansioso di emulare le sue gesta, ed ecco Mascherpa, Muggia, il Dottor Prestini e tanti altri, fra cui parecchie coraggiose signorine che partono sugli sky. Gli altri li seguono per ammirare lo sport o si spargono per il monte. Il Cav. Marley è presto in piedi con la signora e la signorina. L’ingegnere Avanzini, l’ingegnere Giussani, il sig. Bianchi e il ragioniere Gogna, sono venuti accompagnati dalle rispettive gentili signore e da altri parenti. Il ragioniere Crosio, molto Far East nel costume sportivo, appare assieme all’ingegnere Chiesa. Il signor Sberze è venuto con suo figlio. Ci sono poi le signorine Banchieri, Benincasa, le fedelissime signorine Verga, Pissasegale, i signori Brizza, Bagnato, Berti, Saroldi e tanti, tanti altri che è impossibile riconoscere e trovare. Gli skiatori vengono giù veloci per la china, saettando davanti agli spettatori, si voltano, cadono anche, ma con grazia, poi pigliano la salita. Molto ammirati i voli del signor Valentini, maestro nel telmark e nel cristiania; Bagnato suo degno allievo mostra la stoffa dello skiatore. Elegante il signor Muggia ed intrepida la signorina Muggia che scende veloce e leggera senza esitazione. Altre signorine mostrano agli uomini come si debba fare lo sport e dal loro canto questi mostrano come si cada con disinvoltura. Ma ormai si avvicina l’ora della partenza ed è con rimpianto che bisogna deporre gli sky, rifare i bagagli, avviarsi alla stazione della ferrovia. Ora, il tepore del treno che corre nella notte e l’allegria suscitata dalla bella giornata destano i canti che rivelano doti veramente eccezionali di cantori là dove meno si aspetterebbero. Così che è un disappunto per tutti quando il treno in perfetto orario entra sotto la tettoia della stazione di Milano. La gita è finita e con saluti, ringraziamenti  e arrivederci, ognuno prende la sua via nella città fangosa che è rimasta tutto il giorno nel suo velo di nebbia e di pioggia».

Si costituì il 13 dicembre del 1922 lo Sport Club Pirelli: sede in via Ponte Seveso, campi di gioco e palestra a Bicocca di Niguarda. Presidente fu acclamato il Cav. Uff. Venosta  Ing. Giuseppe, da sempre braccio destro del Fondatore ingegner Giovanni Battista Pirelli e “fervido assertore di ogni forma di educazione fisica e morale”. Vicepresidente Giuseppe Vigorelli, Direttore dell’Agenzia Lombarda Gomme Pirelli ed esperto di ciclismo: di lì a qualche anno avrebbe realizzato il suo sogno di creare un velodromo a Milano. Era esperto di ciclismo anche il cassiere-cronometrista del Club, l’italo-inglese Gilberto Marley che, dopo aver vinto ininterrottamente i campionati Italiani dal 1887 al 1889, era approdato in quell’azienda che con i suoi pneumatici velo “tipo Milano” l’aveva portato tante volte al successo. Dalle fotografie su carta grigio-verde del Bollettino dello Sport Club Pirelli emergono la corsa a ostacoli e il sollevamento pesi, il salto in alto e il calcio, il ciclismo e il giavellotto. Per atleti quanto per “atletesse”, come le agguerritissime “zebrette” della Pro Patria di Busto Arsizio che riempirono di ammirazione lo stadio di Bicocca durante l’Adunata Sportiva del giugno ’23: star indiscussa la signorina Lina Banzi, recordwomen nel salto in alto. E poi gite a piacere su e giù per l’Italia, estate e inverno. A novantaquattro anni giusti di distanza, vi raccontiamo di come un’allegra brigata di sportivi pirelliani affrontò, tra l’8 e il 9 dicembre 1923, i campi innevati del Mottarone, montagna oggi in provincia di Verbano-Cusio-Ossola, allora territorio novarese. Il testo che segue è rigorosamente tratto dall’articolo di Cesare Piantanida “Gita al Mottarone”.

«I costumi pittoreschi da montagna, gli scarponi, le maglie pesanti di lana, i berretti col fiocco,  i bastoni e gli sky, gli sky soprattutto avevano un lieve aspetto anacronistico, una apparenza tartarinesca sul piazzale della stazione, umido e stillante la bruma cittadina. La gita non poteva cominciare sotto migliori auspici: Meloni infaticabile, partito in avanscoperta per il servizio alloggiamenti e vettovagliamento, e Gironi che, coadiuvato da Anselmi, aveva preso il comando della spedizione. Ed ecco alfine il grido desiderato ed invocato: ecco il grido che erompe spontaneo dal petto: “La neve! La neve!”. Ancora pochi minuti ed eccoci alla vetta. Ecco il signor Valentini che è venuto assieme alla sua gentile signora, arma gli sky e parte per il campo. Ecco Bagnato che lo imita, ansioso di emulare le sue gesta, ed ecco Mascherpa, Muggia, il Dottor Prestini e tanti altri, fra cui parecchie coraggiose signorine che partono sugli sky. Gli altri li seguono per ammirare lo sport o si spargono per il monte. Il Cav. Marley è presto in piedi con la signora e la signorina. L’ingegnere Avanzini, l’ingegnere Giussani, il sig. Bianchi e il ragioniere Gogna, sono venuti accompagnati dalle rispettive gentili signore e da altri parenti. Il ragioniere Crosio, molto Far East nel costume sportivo, appare assieme all’ingegnere Chiesa. Il signor Sberze è venuto con suo figlio. Ci sono poi le signorine Banchieri, Benincasa, le fedelissime signorine Verga, Pissasegale, i signori Brizza, Bagnato, Berti, Saroldi e tanti, tanti altri che è impossibile riconoscere e trovare. Gli skiatori vengono giù veloci per la china, saettando davanti agli spettatori, si voltano, cadono anche, ma con grazia, poi pigliano la salita. Molto ammirati i voli del signor Valentini, maestro nel telmark e nel cristiania; Bagnato suo degno allievo mostra la stoffa dello skiatore. Elegante il signor Muggia ed intrepida la signorina Muggia che scende veloce e leggera senza esitazione. Altre signorine mostrano agli uomini come si debba fare lo sport e dal loro canto questi mostrano come si cada con disinvoltura. Ma ormai si avvicina l’ora della partenza ed è con rimpianto che bisogna deporre gli sky, rifare i bagagli, avviarsi alla stazione della ferrovia. Ora, il tepore del treno che corre nella notte e l’allegria suscitata dalla bella giornata destano i canti che rivelano doti veramente eccezionali di cantori là dove meno si aspetterebbero. Così che è un disappunto per tutti quando il treno in perfetto orario entra sotto la tettoia della stazione di Milano. La gita è finita e con saluti, ringraziamenti  e arrivederci, ognuno prende la sua via nella città fangosa che è rimasta tutto il giorno nel suo velo di nebbia e di pioggia».

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Responsabili e quindi di successo

Una tesi di dottorato racconta teoria, pratica e ruolo della responsabilità sociale d’impresa come elemento di competitività

L’attenzione al mondo esterno da parte delle imprese, anche dal punto di vista sociale e non solo economico, è ormai patrimonio consolidato delle organizzazioni della produzione che hanno alle spalle una solida cultura del produrre. Non si tratta, tuttavia, di una “bontà istituzionalizzata” da parte di imprenditori e manager. La responsabilità sociale d’impresa è infatti cosa complessa da costruire e gestire, ed ha collegamenti profondi con la gestione della produzione.

Quanto scritto da Giovanni Simonelli nella sua Tesi di Dottorato di Ricerca in Marketing e gestione delle imprese presentata all’Università degli studi Milano Bicocca, è un utile testo per far propri i principi di base di una responsabilità sociale avveduta e consapevole.

Obiettivo del lavoro di Simonelli è però in particolare, “analizzare l’importanza assunta dai concetti di responsabilità sociale e di sostenibilità nella moderna economia d’impresa e di verificarne il ruolo in termini di creazione delle condizioni di successo durevole”.

Simonelli stesso spiega quindi la struttura del suo lavoro. “Dopo una prima parte di carattere teorico sul ruolo e l’importanza della responsabilità sociale d’impresa – scrive -, lo studio approfondisce in particolare i rischi ed i costi connessi all’assunzione di strategie non correlate ad obiettivi di sostenibilità”. Successivamente alla teoria, quindi, la ricerca si muove lungo il sentiero che porta a vedere la responsabilità sociale come un elemento di creazione di valore per l’impresa basato su tre linee d’azione: l’equità sociale, la qualità ambientale, la prosperità economica diffusa. Simonelli quindi racconta anche gli strumenti attraverso i quali l’impresa può dare conto della sua attività dal punto di vista sociale (Bilancio sociale e Bilancio ambientale),  e come questa possa essere integrata nel bilancio economico. La tesi passa quindi ad approfondire gli strumenti di gestione della sostenibilità aziendale partendo dai principi etici per arrivare alla analisi costi-benefici.

Chiude il lavoro l’analisi del caso dieselgate che ha coinvolto la Volkswagen.

Spiega Simonelli alla fine della sua fatica di ricerca: “Molte imprese, per molto tempo, hanno reputato le risorse spese nel dichiararsi sostenibili, non un investimento funzionale al mantenimento di un vantaggio competitivo (come in realtà si è dimostrato essere), bensì un costo da sostenere perché funzionale ad implementare determinate strategie di marketing dirette a creare specifici vantaggi competitivi nel breve periodo”. E poi ancora: “La responsabilità sociale d’impresa non è una minaccia, ma è l’occasione per rilanciare un sistema industriale innovativo, moderno e con maggiori prospettive di sopravvivenza e crescita”.

Responsabilità sociale e costi della non sostenibilità nelle imprese globali

Giovanni Simonelli

Dipartimento di Economia, Metodi Quantitativi e Strategia di Impresa, Dottorato di Ricerca in Marketing e gestione delle imprese, Università degli studi Milano Bicocca, 2017

Una tesi di dottorato racconta teoria, pratica e ruolo della responsabilità sociale d’impresa come elemento di competitività

L’attenzione al mondo esterno da parte delle imprese, anche dal punto di vista sociale e non solo economico, è ormai patrimonio consolidato delle organizzazioni della produzione che hanno alle spalle una solida cultura del produrre. Non si tratta, tuttavia, di una “bontà istituzionalizzata” da parte di imprenditori e manager. La responsabilità sociale d’impresa è infatti cosa complessa da costruire e gestire, ed ha collegamenti profondi con la gestione della produzione.

Quanto scritto da Giovanni Simonelli nella sua Tesi di Dottorato di Ricerca in Marketing e gestione delle imprese presentata all’Università degli studi Milano Bicocca, è un utile testo per far propri i principi di base di una responsabilità sociale avveduta e consapevole.

Obiettivo del lavoro di Simonelli è però in particolare, “analizzare l’importanza assunta dai concetti di responsabilità sociale e di sostenibilità nella moderna economia d’impresa e di verificarne il ruolo in termini di creazione delle condizioni di successo durevole”.

Simonelli stesso spiega quindi la struttura del suo lavoro. “Dopo una prima parte di carattere teorico sul ruolo e l’importanza della responsabilità sociale d’impresa – scrive -, lo studio approfondisce in particolare i rischi ed i costi connessi all’assunzione di strategie non correlate ad obiettivi di sostenibilità”. Successivamente alla teoria, quindi, la ricerca si muove lungo il sentiero che porta a vedere la responsabilità sociale come un elemento di creazione di valore per l’impresa basato su tre linee d’azione: l’equità sociale, la qualità ambientale, la prosperità economica diffusa. Simonelli quindi racconta anche gli strumenti attraverso i quali l’impresa può dare conto della sua attività dal punto di vista sociale (Bilancio sociale e Bilancio ambientale),  e come questa possa essere integrata nel bilancio economico. La tesi passa quindi ad approfondire gli strumenti di gestione della sostenibilità aziendale partendo dai principi etici per arrivare alla analisi costi-benefici.

Chiude il lavoro l’analisi del caso dieselgate che ha coinvolto la Volkswagen.

Spiega Simonelli alla fine della sua fatica di ricerca: “Molte imprese, per molto tempo, hanno reputato le risorse spese nel dichiararsi sostenibili, non un investimento funzionale al mantenimento di un vantaggio competitivo (come in realtà si è dimostrato essere), bensì un costo da sostenere perché funzionale ad implementare determinate strategie di marketing dirette a creare specifici vantaggi competitivi nel breve periodo”. E poi ancora: “La responsabilità sociale d’impresa non è una minaccia, ma è l’occasione per rilanciare un sistema industriale innovativo, moderno e con maggiori prospettive di sopravvivenza e crescita”.

Responsabilità sociale e costi della non sostenibilità nelle imprese globali

Giovanni Simonelli

Dipartimento di Economia, Metodi Quantitativi e Strategia di Impresa, Dottorato di Ricerca in Marketing e gestione delle imprese, Università degli studi Milano Bicocca, 2017

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