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Informatica “umana” per l’impresa avveduta

Una originale storia del computing aiuta la crescita di una cultura del produrre più completa

 

L’avventura del fare impresa è  figlia di altre avventure umane e tecnologiche. E’ la concretizzazione di ciò che generalmente viene chiamato spirito imprenditoriale, ma che più comunemente è irrequietezza d’uomini e donne che non si accontentano di orizzonti scontati. E che usano ingegno e tecnologie per arrivare al loro traguardo. E’ accaduto ai tempi della prima rivoluzione industriale e  accade ancora oggi. Ed è necessario capire storia, evoluzioni, soste e accelerazioni di questo cammino. Uno degli esempi più importanti in questo senso riguarda i computer e il computing. Leggere “Macchine per pensare” di Francesco Varanini è allora un’esperienza da fare.

Varanini (antropologo e poi come manager, consulente e formatore e allo stesso tempo critico letterario, fautore di quelle che si chiama informatica umanistica), parte da una considerazione: scegliere come le macchine possano intervenire nella quotidianità, nel lavoro e nelle nostre relazioni, costituisce una scelta etica-morale per il nostro futuro. A questo assunto però segue subito una constatazione: l’informatica – figlia di un’unica tradizione filosofica, da Cartesio a Turing, passando per Frege, Russell e Hilbert – ignora Freud, Wittgenstein, Heidegger e rimane troppo spesso campo d’azione di tecnici non sempre consapevoli della storia stessa della loro disciplina e delle conseguenze della loro azione. D’altro canto filosofi e scienziati, coloro ai quali deleghiamo la vasta comprensione della vita e dell’universo, privi per lo più di conoscenze tecniche, finiscono per disinteressarsi dell’informatica.

In mezzo a questa situazione ci siamo tutti. E quindi anche le imprese e chi in queste vive e lavora.

Con l’obiettivo di fornire gli strumenti per capire, Varanini ripercorre allora la storia dell’informatica dagli anni ’20 e ’30 del secolo scorso fino ad oggi e lo fa in modo originale, accattivante, pressoché unico.

Attraverso tutta la narrazione traspare la doppia natura del computing. L’iniziale progetto pretendeva di costruire una macchina destinata a supplire alla pochezza umana, imponendo controllo, regole, ordine, esattezza. Parallelamente, un altro progetto, rovescia l’intento: la potenza della macchina può essere usata – ecco il personal computer – per sostenere l’uomo nel suo farsi carico della propria autonomia e nel suo assumersi responsabilità, affermando la libertà individuale.

Varaini quindi racconta aspetti tecnici e umani, avventure della scienza e del comune sentire che costituiscono da un lato la storia del computing e dall’altro bagaglio culturale generale che diventa d’impresa nel momento in cui serve per comprendere meglio che cosa siano e che ruolo abbiano oggi i computer nell’ambito dell’organizzazione della produzione.

Facendo uso vastissimo di una conoscenza storica e tecnologica importante, Varanini  ha scritto  un saggio e allo stesso tempo un romanzo storico (che fra l’altro proseguirà con “Pitts, Bush, Nelson. Tre storia di computing”). Non si tratta di un libro facile, ma di un libro che si deve leggere facendosi prendere la mano da una scrittura che si dipana fra filosofia e scienza, fra umanesimo e tecnologia in un modo inconsueto con una scrittura che lascia il segno.

Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi

Francesco Varanini

Guerini e Associati, 2016

 

Una originale storia del computing aiuta la crescita di una cultura del produrre più completa

 

L’avventura del fare impresa è  figlia di altre avventure umane e tecnologiche. E’ la concretizzazione di ciò che generalmente viene chiamato spirito imprenditoriale, ma che più comunemente è irrequietezza d’uomini e donne che non si accontentano di orizzonti scontati. E che usano ingegno e tecnologie per arrivare al loro traguardo. E’ accaduto ai tempi della prima rivoluzione industriale e  accade ancora oggi. Ed è necessario capire storia, evoluzioni, soste e accelerazioni di questo cammino. Uno degli esempi più importanti in questo senso riguarda i computer e il computing. Leggere “Macchine per pensare” di Francesco Varanini è allora un’esperienza da fare.

Varanini (antropologo e poi come manager, consulente e formatore e allo stesso tempo critico letterario, fautore di quelle che si chiama informatica umanistica), parte da una considerazione: scegliere come le macchine possano intervenire nella quotidianità, nel lavoro e nelle nostre relazioni, costituisce una scelta etica-morale per il nostro futuro. A questo assunto però segue subito una constatazione: l’informatica – figlia di un’unica tradizione filosofica, da Cartesio a Turing, passando per Frege, Russell e Hilbert – ignora Freud, Wittgenstein, Heidegger e rimane troppo spesso campo d’azione di tecnici non sempre consapevoli della storia stessa della loro disciplina e delle conseguenze della loro azione. D’altro canto filosofi e scienziati, coloro ai quali deleghiamo la vasta comprensione della vita e dell’universo, privi per lo più di conoscenze tecniche, finiscono per disinteressarsi dell’informatica.

In mezzo a questa situazione ci siamo tutti. E quindi anche le imprese e chi in queste vive e lavora.

Con l’obiettivo di fornire gli strumenti per capire, Varanini ripercorre allora la storia dell’informatica dagli anni ’20 e ’30 del secolo scorso fino ad oggi e lo fa in modo originale, accattivante, pressoché unico.

Attraverso tutta la narrazione traspare la doppia natura del computing. L’iniziale progetto pretendeva di costruire una macchina destinata a supplire alla pochezza umana, imponendo controllo, regole, ordine, esattezza. Parallelamente, un altro progetto, rovescia l’intento: la potenza della macchina può essere usata – ecco il personal computer – per sostenere l’uomo nel suo farsi carico della propria autonomia e nel suo assumersi responsabilità, affermando la libertà individuale.

Varaini quindi racconta aspetti tecnici e umani, avventure della scienza e del comune sentire che costituiscono da un lato la storia del computing e dall’altro bagaglio culturale generale che diventa d’impresa nel momento in cui serve per comprendere meglio che cosa siano e che ruolo abbiano oggi i computer nell’ambito dell’organizzazione della produzione.

Facendo uso vastissimo di una conoscenza storica e tecnologica importante, Varanini  ha scritto  un saggio e allo stesso tempo un romanzo storico (che fra l’altro proseguirà con “Pitts, Bush, Nelson. Tre storia di computing”). Non si tratta di un libro facile, ma di un libro che si deve leggere facendosi prendere la mano da una scrittura che si dipana fra filosofia e scienza, fra umanesimo e tecnologia in un modo inconsueto con una scrittura che lascia il segno.

Macchine per pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi

Francesco Varanini

Guerini e Associati, 2016

 

Biblioteca Pirelli, una festa di compleanno tra conversazioni sui libri e buona cucina

Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le parole di Marguerite Yourcenar, dalle pagine di “Memorie di Adriano”, stanno sul frontone della grande parete d’ingresso della Biblioteca Pirelli, nel palazzo che ospita l’Headquarters del Gruppo, in Bicocca. E danno il senso di un’iniziativa, la Biblioteca aziendale appunto, che lega impresa e cultura, conoscenze e competenze, piacere del testo e qualità del lavoro in quella comunità speciale che è un’impresa, una grande impresa. Viviamo tempi di crisi (nella duplice accezione dei rischi ma anche delle opportunità dei cambiamenti) e di metamorfosi (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog sulla cultura d’impresa). I buoni libri aiutano a capire e a muoversi meglio.

L’immagine dell’“inverno dello spirito” che inquietava l’imperatore Adriano in tempi di bilancio esistenziale ed intellettuale, al tramonto cioè della sua esperienza di vita, può forse sembrare troppo pessimista. Di certo, anche i nostri sono tempi controversi, carichi d’inquietudini. Ed è in ogni caso efficace e opportuna l’idea di accostare i libri ai granai.

La cultura come il pane”, era il titolo d’un articolo che, su “Pirelli – Rivista d’informazione e tecnica”, nel 1951, faceva un bilancio delle attività del Centro Culturale Pirelli, luogo di incontri e dibattiti su letteratura, teatro, cinema, scienza. Un tema popolare. “Pane e alfabeto”, stava scritto, ai primi del Novecento, sulla facciata del “Forno del pane” voluto a Bologna dal sindaco Francesco Zanardi per fornire alimenti a buon mercato e iniziative culturali: lì, adesso, c’è la sede del MAMbo, il Museo d’Arte Moderna, frequentatissimo.

Con uno spazio dei libri aperto ogni giorno per chi lavora in Pirelli, in Bicocca, l’impresa riconferma il suo rapporto con la cultura. Anzi, meglio, ribadisce d’essere cultura. Non una congiunzione. Ma una sintesi. Libri in Biblioteca come stimolo alla cultura diffusa. Biblioteca come elemento d’un complesso sistema di welfare aziendale. Ma anche come cardine d’una maggiore qualità dell’ambiente di lavoro, che incide positivamente sul senso d’appartenenza, sull’orgoglio dell’identità. Biblioteca come luogo di valore. E di valori.

Compie proprio adesso un anno, la Biblioteca aziendale in Bicocca. E’ stata aperta nell’ottobre del 2016, insieme a quella dello stabilimento di Bollate e al potenziamento di quella del Polo Industriale di Settimo Torinese. Anzi, per essere esatti, la Biblioteca è stata “riaperta”. La storia, infatti, racconta che la prima biblioteca Pirelli è del 1928, scelta d’avanguardia in Italia: coniugare lettura e lavoro, pagine e produttività. Nel 1957, giusto sessant’anni fa, un rilancio, in uno spazio moderno e accogliente nel grande stabilimento di viale Sarca (c’erano circa 11mila volumi; e nel 1961, secondo un’inchiesta del periodico aziendale “Fatti e Notizie”, i dipendenti nell’87% dei casi prediligevano i libri di narrativa: Moravia, Pasolini, Papini, Bertolucci, Alvaro… ma alcuni prendevano in prestito anche i grandi “classici”, da Virgilio ad Ariosto e qualcun altro prende dagli scaffali anche Proust). Il criterio di fondo, in quegli anni Cinquanta di straordinarie intraprendenza e operosità, nella Milano dinamica di fabbriche, uffici, grattacieli e metropolitane, è raccontato su “Fatti e Notizie”: “La biblioteca dovrebbe proprio essere la casa dell’uomo e non soltanto del libro… I lettori dovrebbero dare – e lo possono – un apporto diretto, basato sulle personali esperienze e costituito da consigli, suggerimenti, segnalazioni sulla vita della biblioteca… La biblioteca, questa nostra casa già sociale nello scopo e cordiale nello spirito, sarà sempre maggiormente funzionale: una cosa viva, dinamica…”.

In stretta relazione con la Biblioteca, in quella stagione, si muoveva anche il Centro Culturale Pirelli: incontri, letture, dibattiti, con la partecipazione di Cesare Pavese, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Carlo Bo, Giorgio Bassani e gli allora giovani talenti Umberto Eco, Italo Calvino, Dino Buzzati, Gillo Dorfles, ma anche uomini di teatro e cinema, come Luchino Visconti e Giorgio Strehler e musicisti, da John Cage a Karheinz Stockhausen. Molti di loro erano “firme” della Rivista Pirelli. Le immagini dell’epoca testimoniano gran folla di pubblico attento.

L’anno scorso, ecco le iniziative per la nuova biblioteca. Un ambiente confortevole, che invita alla lettura e alla discussione sui libri. Più di 4mila volumi (un numero che cresce di mese in mese, con donazioni e con acquisti, sempre più spesso suggeriti dai dipendenti: negli scaffali c’è posto per 10mila libri). E una frequentazione che s’infittisce: gli utenti registrati in biblioteca sono 300, su 1600 dipendenti che lavorano in Bicocca; in un anno, mediamente, ognuno di loro ha preso in prestito 6 libri. Quasi 70 gli utenti registrati a Bollate, su 300 dipendenti; 3 libri in media, per ognuno di loro.

Cosa si chiede in prestito, da leggere? Novità editoriali, nel 18% dei casi. Saggistica, nel 7,5%. Fumetti, nel 5,5%. E libri per bambini, nel 22%. La narrativa copre il resto del 47,5%. Parecchi, i classici. Un dato da sottolineare: la richiesta di libri per bambini è quella con uno degli incrementi maggiori. Genitori che abituano i figli ad avere confidenza sempre maggiore con la parola scritta e ben illustrata. Un piccolo segno, importante, di civiltà.

Di libri, d’altronde, sono intessute storia e attualità della Pirelli. Tra i più recenti, spesso curati dalla Fondazione Pirelli, i “Racconti di lavoro” con foto storiche e contemporanee e scritti, tra gli altri, di Erri De Luca e Jean-Paul Fitoussi (edito da Mondadori), “Cent’anni per lo sport” (sempre Mondadori), i due volumi sulla comunicazione editi da Corraini (“Una musa tra le ruote” e “La Pubblicità con la P maiuscola”), “Pirelli – Innovazione e passione” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Il Mulino e, per il mercato internazionale, da Third Millennium Publishing.  E, ancora, i libri sul Calendario Pirelli, editi nel tempo da Rizzoli, Mondadori e Taschen. D’altronde, proprio da uno dei principali libri della letteratura europea, “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll, è ispirato proprio l’ultimo Calendario Pirelli presentato con grande successo la scorsa settimana a New York: immagini di Tim Walker, tutto un gioco tra fantasia e sogno, un rimando costante tra progetto e attualità. Anche i più recenti Bilanci Pirelli sono stati pensati con un rimando ai libri: ospitano scritti di Hans Magnus Enzensberger, Guillermo Martinez, William Least Heater-Moon, Javier Cercas, Hanif Khureishi, Javier Marìas. Impresa, cultura, libri, insomma. Non è detto che avesse proprio ragione Mallarmé nel sostenere che “il mondo è fatto per finire in un libro”. Ma certo i libri sono strumento indispensabile per raccontare bene il mondo e le sue ipotesi di cambiamento.

Si festeggia, adesso, l’anniversario della Biblioteca in Bicocca. Con una conversazione su Milano, i libri, il cibo (la letteratura è ricca di racconti sul piacere della cucina e dello stare bene insieme a tavola): sul palcoscenico della grande sala della Torre di raffreddamento, il 20 pomeriggio, alle 18,30, c’è in programma una conversazione tra Alessandro Robecchi, brillante autore di noir ambientati a Milano (l’ultimo è “Torto marcio”, pubblicato in gennaio da Sellerio: una nuova avventura per Carlo Monterossi, autore d’una popolarissima trasmissione trash in Tv, amante di Bob Dylan, maldestro detective per caso) e Filippo La Mantia, “oste e cuoco” come da autodefinizione, uno dei protagonisti della migliore cultura del cibo a Milano.

Pane e cultura”, dunque, per tornare alla brillante sintesi del Centro Culturale Pirelli di cui dicevamo all’inizio. I libri, in Biblioteca, sono una buona opportunità per stare bene insieme.

Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”. Le parole di Marguerite Yourcenar, dalle pagine di “Memorie di Adriano”, stanno sul frontone della grande parete d’ingresso della Biblioteca Pirelli, nel palazzo che ospita l’Headquarters del Gruppo, in Bicocca. E danno il senso di un’iniziativa, la Biblioteca aziendale appunto, che lega impresa e cultura, conoscenze e competenze, piacere del testo e qualità del lavoro in quella comunità speciale che è un’impresa, una grande impresa. Viviamo tempi di crisi (nella duplice accezione dei rischi ma anche delle opportunità dei cambiamenti) e di metamorfosi (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog sulla cultura d’impresa). I buoni libri aiutano a capire e a muoversi meglio.

L’immagine dell’“inverno dello spirito” che inquietava l’imperatore Adriano in tempi di bilancio esistenziale ed intellettuale, al tramonto cioè della sua esperienza di vita, può forse sembrare troppo pessimista. Di certo, anche i nostri sono tempi controversi, carichi d’inquietudini. Ed è in ogni caso efficace e opportuna l’idea di accostare i libri ai granai.

La cultura come il pane”, era il titolo d’un articolo che, su “Pirelli – Rivista d’informazione e tecnica”, nel 1951, faceva un bilancio delle attività del Centro Culturale Pirelli, luogo di incontri e dibattiti su letteratura, teatro, cinema, scienza. Un tema popolare. “Pane e alfabeto”, stava scritto, ai primi del Novecento, sulla facciata del “Forno del pane” voluto a Bologna dal sindaco Francesco Zanardi per fornire alimenti a buon mercato e iniziative culturali: lì, adesso, c’è la sede del MAMbo, il Museo d’Arte Moderna, frequentatissimo.

Con uno spazio dei libri aperto ogni giorno per chi lavora in Pirelli, in Bicocca, l’impresa riconferma il suo rapporto con la cultura. Anzi, meglio, ribadisce d’essere cultura. Non una congiunzione. Ma una sintesi. Libri in Biblioteca come stimolo alla cultura diffusa. Biblioteca come elemento d’un complesso sistema di welfare aziendale. Ma anche come cardine d’una maggiore qualità dell’ambiente di lavoro, che incide positivamente sul senso d’appartenenza, sull’orgoglio dell’identità. Biblioteca come luogo di valore. E di valori.

Compie proprio adesso un anno, la Biblioteca aziendale in Bicocca. E’ stata aperta nell’ottobre del 2016, insieme a quella dello stabilimento di Bollate e al potenziamento di quella del Polo Industriale di Settimo Torinese. Anzi, per essere esatti, la Biblioteca è stata “riaperta”. La storia, infatti, racconta che la prima biblioteca Pirelli è del 1928, scelta d’avanguardia in Italia: coniugare lettura e lavoro, pagine e produttività. Nel 1957, giusto sessant’anni fa, un rilancio, in uno spazio moderno e accogliente nel grande stabilimento di viale Sarca (c’erano circa 11mila volumi; e nel 1961, secondo un’inchiesta del periodico aziendale “Fatti e Notizie”, i dipendenti nell’87% dei casi prediligevano i libri di narrativa: Moravia, Pasolini, Papini, Bertolucci, Alvaro… ma alcuni prendevano in prestito anche i grandi “classici”, da Virgilio ad Ariosto e qualcun altro prende dagli scaffali anche Proust). Il criterio di fondo, in quegli anni Cinquanta di straordinarie intraprendenza e operosità, nella Milano dinamica di fabbriche, uffici, grattacieli e metropolitane, è raccontato su “Fatti e Notizie”: “La biblioteca dovrebbe proprio essere la casa dell’uomo e non soltanto del libro… I lettori dovrebbero dare – e lo possono – un apporto diretto, basato sulle personali esperienze e costituito da consigli, suggerimenti, segnalazioni sulla vita della biblioteca… La biblioteca, questa nostra casa già sociale nello scopo e cordiale nello spirito, sarà sempre maggiormente funzionale: una cosa viva, dinamica…”.

In stretta relazione con la Biblioteca, in quella stagione, si muoveva anche il Centro Culturale Pirelli: incontri, letture, dibattiti, con la partecipazione di Cesare Pavese, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Carlo Bo, Giorgio Bassani e gli allora giovani talenti Umberto Eco, Italo Calvino, Dino Buzzati, Gillo Dorfles, ma anche uomini di teatro e cinema, come Luchino Visconti e Giorgio Strehler e musicisti, da John Cage a Karheinz Stockhausen. Molti di loro erano “firme” della Rivista Pirelli. Le immagini dell’epoca testimoniano gran folla di pubblico attento.

L’anno scorso, ecco le iniziative per la nuova biblioteca. Un ambiente confortevole, che invita alla lettura e alla discussione sui libri. Più di 4mila volumi (un numero che cresce di mese in mese, con donazioni e con acquisti, sempre più spesso suggeriti dai dipendenti: negli scaffali c’è posto per 10mila libri). E una frequentazione che s’infittisce: gli utenti registrati in biblioteca sono 300, su 1600 dipendenti che lavorano in Bicocca; in un anno, mediamente, ognuno di loro ha preso in prestito 6 libri. Quasi 70 gli utenti registrati a Bollate, su 300 dipendenti; 3 libri in media, per ognuno di loro.

Cosa si chiede in prestito, da leggere? Novità editoriali, nel 18% dei casi. Saggistica, nel 7,5%. Fumetti, nel 5,5%. E libri per bambini, nel 22%. La narrativa copre il resto del 47,5%. Parecchi, i classici. Un dato da sottolineare: la richiesta di libri per bambini è quella con uno degli incrementi maggiori. Genitori che abituano i figli ad avere confidenza sempre maggiore con la parola scritta e ben illustrata. Un piccolo segno, importante, di civiltà.

Di libri, d’altronde, sono intessute storia e attualità della Pirelli. Tra i più recenti, spesso curati dalla Fondazione Pirelli, i “Racconti di lavoro” con foto storiche e contemporanee e scritti, tra gli altri, di Erri De Luca e Jean-Paul Fitoussi (edito da Mondadori), “Cent’anni per lo sport” (sempre Mondadori), i due volumi sulla comunicazione editi da Corraini (“Una musa tra le ruote” e “La Pubblicità con la P maiuscola”), “Pirelli – Innovazione e passione” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Il Mulino e, per il mercato internazionale, da Third Millennium Publishing.  E, ancora, i libri sul Calendario Pirelli, editi nel tempo da Rizzoli, Mondadori e Taschen. D’altronde, proprio da uno dei principali libri della letteratura europea, “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll, è ispirato proprio l’ultimo Calendario Pirelli presentato con grande successo la scorsa settimana a New York: immagini di Tim Walker, tutto un gioco tra fantasia e sogno, un rimando costante tra progetto e attualità. Anche i più recenti Bilanci Pirelli sono stati pensati con un rimando ai libri: ospitano scritti di Hans Magnus Enzensberger, Guillermo Martinez, William Least Heater-Moon, Javier Cercas, Hanif Khureishi, Javier Marìas. Impresa, cultura, libri, insomma. Non è detto che avesse proprio ragione Mallarmé nel sostenere che “il mondo è fatto per finire in un libro”. Ma certo i libri sono strumento indispensabile per raccontare bene il mondo e le sue ipotesi di cambiamento.

Si festeggia, adesso, l’anniversario della Biblioteca in Bicocca. Con una conversazione su Milano, i libri, il cibo (la letteratura è ricca di racconti sul piacere della cucina e dello stare bene insieme a tavola): sul palcoscenico della grande sala della Torre di raffreddamento, il 20 pomeriggio, alle 18,30, c’è in programma una conversazione tra Alessandro Robecchi, brillante autore di noir ambientati a Milano (l’ultimo è “Torto marcio”, pubblicato in gennaio da Sellerio: una nuova avventura per Carlo Monterossi, autore d’una popolarissima trasmissione trash in Tv, amante di Bob Dylan, maldestro detective per caso) e Filippo La Mantia, “oste e cuoco” come da autodefinizione, uno dei protagonisti della migliore cultura del cibo a Milano.

Pane e cultura”, dunque, per tornare alla brillante sintesi del Centro Culturale Pirelli di cui dicevamo all’inizio. I libri, in Biblioteca, sono una buona opportunità per stare bene insieme.

Pirelli e l’evoluzione dell’estetica femminile

Nel dicembre 1962 esce il primo numero di “Vado e Torno”, mensile per gli autotrasportatori, ideato e diretto, fino al 1968, da Arrigo Castellani, a capo della Propaganda Pirelli. Per tutti gli anni Sessanta le copertine di “Vado e Torno” sono dedicate a bellissime attrici del cinema italiano e internazionale. Dive già affermate o attrici ancora in erba, i loro primi piani a tutta pagina sulle copertine, e i servizi fotografici che seguono nelle pagine interne, ripercorrono la storia del grande cinema italiano: dal Gattopardo interpretato da Claudia Cardinale (sulla copertina del primo numero), ai film di Vittorio De Sica con Sofia Loren (in copertina nel 1963, in occasione dell’uscita di Ieri, oggi, domani, nel 1964 per Matrimonio all’italiana e nel 1966 per C’era una volta di Rosi) al cinema di Antonioni interpretato da Monica Vitti (Deserto Rosso, 1963), a Pasquale Festa Campanile (che dirige Catherine Deneuve nel 1964 in Cuore in gola e Virna Lisi nel 1965 in Una vergine per il principe). E ancora Catherine Spaak, Ursula Andress, Raquel Welch.

È la nuova estetica degli anni Sessanta quella che si afferma sulle copertine di “Vado e Torno” come sulle pagine del calendario Pirelli, nato negli stessi anni (1964) in Inghilterra e pervaso dallo spirito della “swinging London”. Immagini eleganti, naturali, mai provocanti, che esprimono una grande ma semplice bellezza: quella semplicità che-  scrive Edmondo Berselli nel libro Calendario Pirelli 1964-2007 – raggiunse la sua apoteosi estetica in Blow up di Michelangelo Antonioni.

Nei suoi primi quindici anni di vita “Vado e Torno” ricalca inizialmente la formula della ben più celebre “Pirelli. Rivista di informazione e di tecnica”, che pure è diretta da Castellani: temi di carattere “tecnico” e specialistico, legati all’autotrasporto e alla mobilità, erano trattati insieme a temi di cultura generale e di “varietà”, con il contributo di noti giornalisti e scrittori: sport (con contributi di Gianni Brera e Bruno Raschi), cinema (con articoli di Tullio Kezich), televisione, musica, “costume” (Natalia Aspesi, Corrado Minicucci). Diverse sono le firme che appaiono negli stessi anni anche sulla rivista “Pirelli”, come quelle di Giuseppe Gozzini e Luca Goldoni – che scrivono di luoghi storici e antiche strade – o ancora quella di Giovanni Canestrini che realizza un reportage su una traversata africana in autocarro. Presente anche la letteratura, con racconti gialli o di fantascienza scritti appositamente per la testata da interessanti autori, come Emio Donaggio, pioniere della science fiction italiana o Franco Enna, pseudonimo di Francesco Cannarozzo, prolifico autore di gialli ambientati in Sicilia, definito il “Simenon italiano”. E ancora, le vignette satiriche, firmate da meastri dell’illustrazione umoristica quali Riccardo Manzi, Antonio Botter, Giorgio Cavallo, Jacovitti.

Col volgere del decennio Sessanta, l’estetica delle copertine di “Vado e Torno” cambia notevolmente: i ritratti delle attrici lasciano il posto a modelle ammiccanti fotografate accanto ad autoveicoli. Un cambiamento che si ritrova anche nei contenuti della rivista: scompaiono progressivamente gli articoli di attualità, spettacolo, cultura lasciando spazio solo a rubriche di tipo tecnico.

Nel dicembre 1962 esce il primo numero di “Vado e Torno”, mensile per gli autotrasportatori, ideato e diretto, fino al 1968, da Arrigo Castellani, a capo della Propaganda Pirelli. Per tutti gli anni Sessanta le copertine di “Vado e Torno” sono dedicate a bellissime attrici del cinema italiano e internazionale. Dive già affermate o attrici ancora in erba, i loro primi piani a tutta pagina sulle copertine, e i servizi fotografici che seguono nelle pagine interne, ripercorrono la storia del grande cinema italiano: dal Gattopardo interpretato da Claudia Cardinale (sulla copertina del primo numero), ai film di Vittorio De Sica con Sofia Loren (in copertina nel 1963, in occasione dell’uscita di Ieri, oggi, domani, nel 1964 per Matrimonio all’italiana e nel 1966 per C’era una volta di Rosi) al cinema di Antonioni interpretato da Monica Vitti (Deserto Rosso, 1963), a Pasquale Festa Campanile (che dirige Catherine Deneuve nel 1964 in Cuore in gola e Virna Lisi nel 1965 in Una vergine per il principe). E ancora Catherine Spaak, Ursula Andress, Raquel Welch.

È la nuova estetica degli anni Sessanta quella che si afferma sulle copertine di “Vado e Torno” come sulle pagine del calendario Pirelli, nato negli stessi anni (1964) in Inghilterra e pervaso dallo spirito della “swinging London”. Immagini eleganti, naturali, mai provocanti, che esprimono una grande ma semplice bellezza: quella semplicità che-  scrive Edmondo Berselli nel libro Calendario Pirelli 1964-2007 – raggiunse la sua apoteosi estetica in Blow up di Michelangelo Antonioni.

Nei suoi primi quindici anni di vita “Vado e Torno” ricalca inizialmente la formula della ben più celebre “Pirelli. Rivista di informazione e di tecnica”, che pure è diretta da Castellani: temi di carattere “tecnico” e specialistico, legati all’autotrasporto e alla mobilità, erano trattati insieme a temi di cultura generale e di “varietà”, con il contributo di noti giornalisti e scrittori: sport (con contributi di Gianni Brera e Bruno Raschi), cinema (con articoli di Tullio Kezich), televisione, musica, “costume” (Natalia Aspesi, Corrado Minicucci). Diverse sono le firme che appaiono negli stessi anni anche sulla rivista “Pirelli”, come quelle di Giuseppe Gozzini e Luca Goldoni – che scrivono di luoghi storici e antiche strade – o ancora quella di Giovanni Canestrini che realizza un reportage su una traversata africana in autocarro. Presente anche la letteratura, con racconti gialli o di fantascienza scritti appositamente per la testata da interessanti autori, come Emio Donaggio, pioniere della science fiction italiana o Franco Enna, pseudonimo di Francesco Cannarozzo, prolifico autore di gialli ambientati in Sicilia, definito il “Simenon italiano”. E ancora, le vignette satiriche, firmate da meastri dell’illustrazione umoristica quali Riccardo Manzi, Antonio Botter, Giorgio Cavallo, Jacovitti.

Col volgere del decennio Sessanta, l’estetica delle copertine di “Vado e Torno” cambia notevolmente: i ritratti delle attrici lasciano il posto a modelle ammiccanti fotografate accanto ad autoveicoli. Un cambiamento che si ritrova anche nei contenuti della rivista: scompaiono progressivamente gli articoli di attualità, spettacolo, cultura lasciando spazio solo a rubriche di tipo tecnico.

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Centauri col diavolo in corpo

Scendendo dal Ghisallo, in curva si dimenticava dei freni. Puntava il gomito -imbottito- contro i muri delle case che fiancheggiavano la strada, lo usava come un perno, cambiava bruscamente direzione, ripartiva. Perchè lui era Tazio Nuvolari. “Lei dovrebbe vederlo in certi momenti. È l’incarnazione del diavolo”, disse uno che lo conosceva bene al giornalista Orio Vergani, che intervistava per la Rivista Pirelli l’ormai ex pilota. Scendeva dal Ghisallo su una Bianchi 350 Freccia Celeste ed era il giugno del 1929, Circuito Motociclistico del Lario. Vincendo, naturalmente, senza mai smettere quell’aria da perenne diavolo in corpo che avevano a quei tempi i motociclisti.

Prendi ad esempio Miro Maffeis, “il bel Miro” che tanto piaceva alle ragazze. Lui, il più giovane dei tre fratelli Maffeis – gli altri due erano Carletto e Bernardo, una vita (breve) appresso alle moto – conosceva a memoria gli oltre ottocento chilometri del Raid Nord-Sud, da Milano a Napoli. L’aveva vinto nel 1920, con una Indian 500, ma anche se arrivava solo terzo – come nel 1925, con la Bianchi 350 – sfoggiava sempre, nelle foto, un piglio da duro. Un po’ da cavaliere senza macchia e senza paura: era il bel Miro e sapeva di esserlo. Certo, anche la moto faceva la sua parte: la Bianchi Freccia Celeste, con i Pirelli Motocord ci andava a nozze… Colpiva, nello sguardo di questi centauri d’anteguerra, la sicurezza di sé. Fissavano l’obiettivo senza un cedimento, senza un dubbio. Anzi, aveva quasi un sorrisetto un po’ di scherno Erminio Visioli, che con la Harley Davidson 1000gomme Pirelli – aveva appena vinto nell’agosto del 1921 il Circuito delle Tre Regioni, una settimana dopo aver dominato la storica corsa in salita Como-Brunate. Maglione girocollo e baschetto scozzese – ad agosto! – Erminio guardava dritto il fotografo Strazza per l’articolo che gli avrebbe dedicato “La Stampa Sportiva”. Comprensibilmente datata da fori di graffetta e qualche macchia di ruggine, quella foto è oggi custodita nell’Archivio Storico Pirelli. Quel giorno il Bel Miro -anche lui su Harley Davidson- arrivò settimo… I motociclisti con il diavolo in corpo “vanno per il mondo quasi travolti da un impulso del sangue più forte della volontà”. Così scriveva – e disegnava – Renzo Biasion in “Ricordo di Tenni, pubblicato sulla Rivista Pirelli del marzo 1949. Omobono Tenni, valtellinese trapiantato a Treviso, idolo dei fans della Guzzi, uomo chiuso e taciturno, era morto pochi mesi prima durante le prove del Gran Premio di Berna. Nel 1937 era stato il primo non britannico a vincere il Tourist Trophy, e gli inglesi lo chiamavano Black Devil. Biasion da ragazzino andava con compasso e righello a misurare a che distanza -poca, pochissima- il Diavolo aveva sfiorato gli alberi.

Serio e marziale è Raffaele Alberti, ritratto nella foto del 1948 con la mano sulla sella del suo “Guzzino” come fosse un artigliere di fianco al cannone. Che a dir la verità, più che una “sella” era un materassino di gommapiuma su cui sdraiarsi -in avanti- e spararsi verso il record di velocità sul chilometro da fermo. Alberti ne infilò quattro di fila nel febbraio 1948, sul circuito svizzero di Charrette-Saxon. E poi altri diciannove a Monza, in novembre, assieme a Gianni Leoni e Bruno Ruffo. Record del chilometro, delle 500 miglia, dell’ora, delle dodici ore e via primeggiando: il Guzzi 65 -portato a 73cc ma pur sempre “Guzzino”- non cambiò mai le gomme Pirelli. Era un grande conoscitore di tecnica motociclistica ed esperto collezionista di primati il milanese Alberti, mentre il “compagno di record” Bruno Ruffo era un pilota che cominciava ad affacciarsi al successo quando era già sulla trentina.

Vecchia volpe dei circuiti italiani d’anteguerra infine il comasco Leoni, a chiudere il terzetto dei recordmen Guzzi. Riuniti sotto il segno della Casa di Mandello, era facile ritrovarli tutti e tre assieme sulle piste del neonato campionato motomondiale. Ruffo e Leoni erano ad esempio al Gran Premio delle Nazioni a Monza, nel settembre del ’49 con la Guzzi 250. Con loro c’era un altro Leoni: Guido, lui con la Guzzi 500. Mantovano di Castellucchio, Guido Leoni era nato nel 1915, solo qualche mese prima del suo quasi omonimo Gianni. Quando si dice la combinazione… E poi ci fu un’altra diabolica combinazione. Raffaele Alberti e Guido Leoni trovarono la morte a Ferrara, coinvolti entrambi in una maxicarambola durante la prova del Campionato Italiano Seniores. Era il maggio del 1951. Gianni Leoni – coetaneo di Guido – morì per un’incredibile fatalità al Gran Premio dell’Ulster: lo scontro frontale con il compagno di squadra Geminiani, che Guido stava tornando indietro a cercare credendolo coinvolto in un incidente. Era l’agosto dello stesso anno 1951. Il diavolo, probabilmente…

Scendendo dal Ghisallo, in curva si dimenticava dei freni. Puntava il gomito -imbottito- contro i muri delle case che fiancheggiavano la strada, lo usava come un perno, cambiava bruscamente direzione, ripartiva. Perchè lui era Tazio Nuvolari. “Lei dovrebbe vederlo in certi momenti. È l’incarnazione del diavolo”, disse uno che lo conosceva bene al giornalista Orio Vergani, che intervistava per la Rivista Pirelli l’ormai ex pilota. Scendeva dal Ghisallo su una Bianchi 350 Freccia Celeste ed era il giugno del 1929, Circuito Motociclistico del Lario. Vincendo, naturalmente, senza mai smettere quell’aria da perenne diavolo in corpo che avevano a quei tempi i motociclisti.

Prendi ad esempio Miro Maffeis, “il bel Miro” che tanto piaceva alle ragazze. Lui, il più giovane dei tre fratelli Maffeis – gli altri due erano Carletto e Bernardo, una vita (breve) appresso alle moto – conosceva a memoria gli oltre ottocento chilometri del Raid Nord-Sud, da Milano a Napoli. L’aveva vinto nel 1920, con una Indian 500, ma anche se arrivava solo terzo – come nel 1925, con la Bianchi 350 – sfoggiava sempre, nelle foto, un piglio da duro. Un po’ da cavaliere senza macchia e senza paura: era il bel Miro e sapeva di esserlo. Certo, anche la moto faceva la sua parte: la Bianchi Freccia Celeste, con i Pirelli Motocord ci andava a nozze… Colpiva, nello sguardo di questi centauri d’anteguerra, la sicurezza di sé. Fissavano l’obiettivo senza un cedimento, senza un dubbio. Anzi, aveva quasi un sorrisetto un po’ di scherno Erminio Visioli, che con la Harley Davidson 1000gomme Pirelli – aveva appena vinto nell’agosto del 1921 il Circuito delle Tre Regioni, una settimana dopo aver dominato la storica corsa in salita Como-Brunate. Maglione girocollo e baschetto scozzese – ad agosto! – Erminio guardava dritto il fotografo Strazza per l’articolo che gli avrebbe dedicato “La Stampa Sportiva”. Comprensibilmente datata da fori di graffetta e qualche macchia di ruggine, quella foto è oggi custodita nell’Archivio Storico Pirelli. Quel giorno il Bel Miro -anche lui su Harley Davidson- arrivò settimo… I motociclisti con il diavolo in corpo “vanno per il mondo quasi travolti da un impulso del sangue più forte della volontà”. Così scriveva – e disegnava – Renzo Biasion in “Ricordo di Tenni, pubblicato sulla Rivista Pirelli del marzo 1949. Omobono Tenni, valtellinese trapiantato a Treviso, idolo dei fans della Guzzi, uomo chiuso e taciturno, era morto pochi mesi prima durante le prove del Gran Premio di Berna. Nel 1937 era stato il primo non britannico a vincere il Tourist Trophy, e gli inglesi lo chiamavano Black Devil. Biasion da ragazzino andava con compasso e righello a misurare a che distanza -poca, pochissima- il Diavolo aveva sfiorato gli alberi.

Serio e marziale è Raffaele Alberti, ritratto nella foto del 1948 con la mano sulla sella del suo “Guzzino” come fosse un artigliere di fianco al cannone. Che a dir la verità, più che una “sella” era un materassino di gommapiuma su cui sdraiarsi -in avanti- e spararsi verso il record di velocità sul chilometro da fermo. Alberti ne infilò quattro di fila nel febbraio 1948, sul circuito svizzero di Charrette-Saxon. E poi altri diciannove a Monza, in novembre, assieme a Gianni Leoni e Bruno Ruffo. Record del chilometro, delle 500 miglia, dell’ora, delle dodici ore e via primeggiando: il Guzzi 65 -portato a 73cc ma pur sempre “Guzzino”- non cambiò mai le gomme Pirelli. Era un grande conoscitore di tecnica motociclistica ed esperto collezionista di primati il milanese Alberti, mentre il “compagno di record” Bruno Ruffo era un pilota che cominciava ad affacciarsi al successo quando era già sulla trentina.

Vecchia volpe dei circuiti italiani d’anteguerra infine il comasco Leoni, a chiudere il terzetto dei recordmen Guzzi. Riuniti sotto il segno della Casa di Mandello, era facile ritrovarli tutti e tre assieme sulle piste del neonato campionato motomondiale. Ruffo e Leoni erano ad esempio al Gran Premio delle Nazioni a Monza, nel settembre del ’49 con la Guzzi 250. Con loro c’era un altro Leoni: Guido, lui con la Guzzi 500. Mantovano di Castellucchio, Guido Leoni era nato nel 1915, solo qualche mese prima del suo quasi omonimo Gianni. Quando si dice la combinazione… E poi ci fu un’altra diabolica combinazione. Raffaele Alberti e Guido Leoni trovarono la morte a Ferrara, coinvolti entrambi in una maxicarambola durante la prova del Campionato Italiano Seniores. Era il maggio del 1951. Gianni Leoni – coetaneo di Guido – morì per un’incredibile fatalità al Gran Premio dell’Ulster: lo scontro frontale con il compagno di squadra Geminiani, che Guido stava tornando indietro a cercare credendolo coinvolto in un incidente. Era l’agosto dello stesso anno 1951. Il diavolo, probabilmente…

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Cultura politica d’impresa

Un libro di Fabrizio Onida delinea una politica industriale efficace per continuare lungo il sentiero dello sviluppo

Politica industriale come alta politica per l’impresa e l’occupazione. Espressione fedele di una cultura d’impresa che si estende dalla fabbrica alla società e ai suoi decisori. Cosa non facile da realizzarsi, specialmente in Italia e in una situazione congiunturale complessa come quella che stiamo attraversando. Eppure la strada segnata è questa. E per percorrerla servono guide chiare che indichino i passaggi cruciali, le tappe da fare, le soste possibili, i cambi di direzione da prendere obbligatoriamente. L’ultimo impegno letterario di Fabrizio Onida (attualmente professore emerito di Economia internazionale presso l’Università Bocconi e con un passato di Presidente dell’ICE e una vasta esperienza in Istituzioni e aziende), è una di queste guide.

“L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace” è un’analisi puntuale della situazione economica nazionale e internazionale oltre  che della storia recente delle politica economiche e industriali del Paese. Il punto di partenza è la grande crisi che ha investito l’economia mondiale a partire dal 2007 e che ha provocato nel nostro Paese una caduta del PIL e degli investimenti fissi e un pesante deterioramento degli indicatori di finanza pubblica, con un aumento sensibile del rapporto debito pubblico/PIL. Dieci anni dopo, l’Italia mostra i segnali di una timida ripresa. E’ da qui che inizia davvero il ragionamento e la proposta di Onida. Ed è qui che emerge la necessità di un salto di qualità nella politica industriale nazionale e prima ancora nella diffusa cultura d’impresa presente nelle Istituzioni e nella società.

Per rafforzare questi segnali e tornare a crescere – è il pensiero di Onida -, occorre delineare “i contorni di una rinnovata politica industriale che abbia al suo centro l’accelerazione dell’attività innovativa delle imprese”, e che favorisca nel contempo la mobilità delle risorse verso le imprese più produttive, innovative e aperte a forme avanzate di internazionalizzazione. Un strada da percorrere, quindi, non solamente con l’erogazione di sussidi agli investimenti ma con ben altro. Per Onida si tratta di una situazione nella quale lo Stato ha compiti molteplici e importanti. Deve essere, per esempio, promotore di progetti di ricerca precompetitiva che incentivino la messa in comune di risorse private e pubbliche per realizzare obiettivi di sviluppo e benessere collettivo; ma deve anche funzionare da aggregatore di energie innovative in un tessuto produttivo di piccole e medie imprese, ancora oggi troppo frammentato; e deve ancora essere facilitatore di interconnessioni tra imprese e istituzioni di ricerca.

Tesi forse difficili da realizzare, quelle di Onida, ma certamente da cogliere come veri indicatori di una strada che probabilmente è l’unica davvero efficace.

Il libro è scritto con un linguaggio piano che conduce chi legge attraverso analisi e approfondimenti non sempre immediati. Completano il testo due parti importanti: l’esame di cosa fanno alcuni altri Paesi (Germania, Francia e Regno Unito), e il racconto di cosa hanno fatto e cosa fanno alcune imprese paradigmatiche  dell’azienda italiana di successo (Dallara, Prima Industrie, Dompé , Industrie Meccaniche Automatiche).

L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace

Fabrizio Onida

Egea-Università Bocconi Editore, 2017

Un libro di Fabrizio Onida delinea una politica industriale efficace per continuare lungo il sentiero dello sviluppo

Politica industriale come alta politica per l’impresa e l’occupazione. Espressione fedele di una cultura d’impresa che si estende dalla fabbrica alla società e ai suoi decisori. Cosa non facile da realizzarsi, specialmente in Italia e in una situazione congiunturale complessa come quella che stiamo attraversando. Eppure la strada segnata è questa. E per percorrerla servono guide chiare che indichino i passaggi cruciali, le tappe da fare, le soste possibili, i cambi di direzione da prendere obbligatoriamente. L’ultimo impegno letterario di Fabrizio Onida (attualmente professore emerito di Economia internazionale presso l’Università Bocconi e con un passato di Presidente dell’ICE e una vasta esperienza in Istituzioni e aziende), è una di queste guide.

“L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace” è un’analisi puntuale della situazione economica nazionale e internazionale oltre  che della storia recente delle politica economiche e industriali del Paese. Il punto di partenza è la grande crisi che ha investito l’economia mondiale a partire dal 2007 e che ha provocato nel nostro Paese una caduta del PIL e degli investimenti fissi e un pesante deterioramento degli indicatori di finanza pubblica, con un aumento sensibile del rapporto debito pubblico/PIL. Dieci anni dopo, l’Italia mostra i segnali di una timida ripresa. E’ da qui che inizia davvero il ragionamento e la proposta di Onida. Ed è qui che emerge la necessità di un salto di qualità nella politica industriale nazionale e prima ancora nella diffusa cultura d’impresa presente nelle Istituzioni e nella società.

Per rafforzare questi segnali e tornare a crescere – è il pensiero di Onida -, occorre delineare “i contorni di una rinnovata politica industriale che abbia al suo centro l’accelerazione dell’attività innovativa delle imprese”, e che favorisca nel contempo la mobilità delle risorse verso le imprese più produttive, innovative e aperte a forme avanzate di internazionalizzazione. Un strada da percorrere, quindi, non solamente con l’erogazione di sussidi agli investimenti ma con ben altro. Per Onida si tratta di una situazione nella quale lo Stato ha compiti molteplici e importanti. Deve essere, per esempio, promotore di progetti di ricerca precompetitiva che incentivino la messa in comune di risorse private e pubbliche per realizzare obiettivi di sviluppo e benessere collettivo; ma deve anche funzionare da aggregatore di energie innovative in un tessuto produttivo di piccole e medie imprese, ancora oggi troppo frammentato; e deve ancora essere facilitatore di interconnessioni tra imprese e istituzioni di ricerca.

Tesi forse difficili da realizzare, quelle di Onida, ma certamente da cogliere come veri indicatori di una strada che probabilmente è l’unica davvero efficace.

Il libro è scritto con un linguaggio piano che conduce chi legge attraverso analisi e approfondimenti non sempre immediati. Completano il testo due parti importanti: l’esame di cosa fanno alcuni altri Paesi (Germania, Francia e Regno Unito), e il racconto di cosa hanno fatto e cosa fanno alcune imprese paradigmatiche  dell’azienda italiana di successo (Dallara, Prima Industrie, Dompé , Industrie Meccaniche Automatiche).

L’industria intelligente. Per una politica di specializzazione efficace

Fabrizio Onida

Egea-Università Bocconi Editore, 2017

Il brand come idea d’impresa

Una tesi presentata all’Università di Padova riassume con efficacia i concetti fondamentali che portano al lovemark

Immagine che è anche essenza di cultura d’impresa, contenuto tecnologico, concretezza d’uso. Nel fitto intreccio di rapporti fra azienda e ambito sociale, il tratto distintivo che caratterizza l’anima e i prodotti dell’impresa è determinante.  Fornisce la sintesi dell’idea di produzione e costituisce lo strumento attraverso il quale l’azienda si promuove e conquista il mercato. Giorgio Gobbato con il suo “Dal brand al lovemark” fornisce una chiara sintesi di ciò che ruota attorno al brand  e di come da questo si arrivi all’applicazione concreta del lovemark. Un piccolo vademecum utile ad orientarsi nell’ambito di concetti e schemi d’azione simili eppure distinti.

Gobbato inizia individuando il concetto di brand  e la sua importanza nell’ambito dell’organizzazione aziendale e del marketing, per poi passare ad approfondire l’evoluzione di quest’ultimo fino ad arrivare ad individuare il lovemark come traguardo che sintetizza meglio di altri le relazioni virtuose fra marchio e mercato. I “brand che riescono raggiungere lo stato di lovemark”, viene spiegato -,  evocano un sentimento di “fedeltà oltre la ragione nella sfera emotiva del consumatore”.

Per “provare” quanto appena sintetizzato dal punto di vista teorico, Gobbato approfondisce quindi il caso della Apple come azienda che molto più di altre è riuscita a completare il passaggio dal brand  al lovemark.

Gobbato precisa: il cammino che conduce le aziende fino al lovemark  non è fine a se stesso. Anzi, ha una precisa connotazione commerciale. “Puntare sulle emozioni che un prodotto suscita per ottenere un’approvazione incondizionata da parte dei consumatori – scrive infatti ‘autore -, permette di ottenere un premium pricing a differenza di altri brand che vedrebbero diminuire la domanda all’aumentare del loro prezzo”. Ma non solo. Dopo aver ricordato che alla fine è sempre il consumatore a dettare legge, Gobbato delinea anche cosa aspetta le imprese. “La nuova sfida per le aziende oggi è molto più intrigante ed impegnativa: creare brands evergreen capaci di rimanere immutati nel tempo e ‘cavalcare’ le generazioni e le mode rimanendo leader nel loro mercato grazie anche al costante investimento in innovazione e rinnovamento. In altre parole nello sviluppo di un brand bisogna assumere un’ottica di lungo periodo nello sviluppo di un brand, sapientemente la struttura aziendale, la cultura e i suoi valore senza trascurare anche le persone e il management. Gli occhi vanno quindi puntati sul consumatore e sulle sue preferenza, va stimolato ed accresciuto il suo livello di coinvolgimento e dalla marca deve recepire emozioni e benefit che prima non avrebbe mai potuto immaginare”.

Quanto scritto da Gobbato ha il grande merito della chiarezza e della sinteticità su un tema del quale è importante cogliere l’essenza delle cose.

Dal Brand al Lovemark

Giorgio Gobbato

Tesi. Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Economiche ed Aziendali “M.Fanno”, Corso di Laurea in economia

Una tesi presentata all’Università di Padova riassume con efficacia i concetti fondamentali che portano al lovemark

Immagine che è anche essenza di cultura d’impresa, contenuto tecnologico, concretezza d’uso. Nel fitto intreccio di rapporti fra azienda e ambito sociale, il tratto distintivo che caratterizza l’anima e i prodotti dell’impresa è determinante.  Fornisce la sintesi dell’idea di produzione e costituisce lo strumento attraverso il quale l’azienda si promuove e conquista il mercato. Giorgio Gobbato con il suo “Dal brand al lovemark” fornisce una chiara sintesi di ciò che ruota attorno al brand  e di come da questo si arrivi all’applicazione concreta del lovemark. Un piccolo vademecum utile ad orientarsi nell’ambito di concetti e schemi d’azione simili eppure distinti.

Gobbato inizia individuando il concetto di brand  e la sua importanza nell’ambito dell’organizzazione aziendale e del marketing, per poi passare ad approfondire l’evoluzione di quest’ultimo fino ad arrivare ad individuare il lovemark come traguardo che sintetizza meglio di altri le relazioni virtuose fra marchio e mercato. I “brand che riescono raggiungere lo stato di lovemark”, viene spiegato -,  evocano un sentimento di “fedeltà oltre la ragione nella sfera emotiva del consumatore”.

Per “provare” quanto appena sintetizzato dal punto di vista teorico, Gobbato approfondisce quindi il caso della Apple come azienda che molto più di altre è riuscita a completare il passaggio dal brand  al lovemark.

Gobbato precisa: il cammino che conduce le aziende fino al lovemark  non è fine a se stesso. Anzi, ha una precisa connotazione commerciale. “Puntare sulle emozioni che un prodotto suscita per ottenere un’approvazione incondizionata da parte dei consumatori – scrive infatti ‘autore -, permette di ottenere un premium pricing a differenza di altri brand che vedrebbero diminuire la domanda all’aumentare del loro prezzo”. Ma non solo. Dopo aver ricordato che alla fine è sempre il consumatore a dettare legge, Gobbato delinea anche cosa aspetta le imprese. “La nuova sfida per le aziende oggi è molto più intrigante ed impegnativa: creare brands evergreen capaci di rimanere immutati nel tempo e ‘cavalcare’ le generazioni e le mode rimanendo leader nel loro mercato grazie anche al costante investimento in innovazione e rinnovamento. In altre parole nello sviluppo di un brand bisogna assumere un’ottica di lungo periodo nello sviluppo di un brand, sapientemente la struttura aziendale, la cultura e i suoi valore senza trascurare anche le persone e il management. Gli occhi vanno quindi puntati sul consumatore e sulle sue preferenza, va stimolato ed accresciuto il suo livello di coinvolgimento e dalla marca deve recepire emozioni e benefit che prima non avrebbe mai potuto immaginare”.

Quanto scritto da Gobbato ha il grande merito della chiarezza e della sinteticità su un tema del quale è importante cogliere l’essenza delle cose.

Dal Brand al Lovemark

Giorgio Gobbato

Tesi. Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Economiche ed Aziendali “M.Fanno”, Corso di Laurea in economia

Tra “cambio di paradigma” e “metamorfosi” le idee per migliorare la qualità dello sviluppo

“Cambio di paradigma”, scrive Mauro Magatti, sociologo di grande acutezza, professore all’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro, appena pubblicato da Feltrinelli, contiene pagine di grande interesse dedicate a come “uscire dalla crisi pensando il futuro” e contribuisce con analisi e proposte originali al dibattito sulle ragioni del disastro economico che dal 2008 ha coinvolto milioni di persone e sulle idee per una nuova e migliore stagione di sviluppo. Si esce “dall’ordine neo-liberista” che ha determinato “una società psicotica” con passaggi “dall’euforia all’angoscia”, si evitano le trappole dello scambio “efficienza per sicurezza” (illudendosi di poter ricominciare a crescere “spremendo di più il limone” ovvero insistendo sulle ricette dell’austerità a ogni costo e degli squilibri dei mercati sregolati o mal regolati) e si prova invece a coniugare “crescita economica e sviluppo umano e sociale”, andando avanti e “tornando a produrre valore” insistendo sui valori. Sfida generale, di sistema. Che coinvolge parecchi dei più responsabili attori economici.

“Left behind – How to help places hurt by globalisation”, ha titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva.

Nel discorso pubblico, sempre più spesso, al termine “economia” si legano aggettivi come “civile”, “circolare”, “sharing” e cioè condivisa, “giusta”, “sostenibile”, segnali appunto di crisi e di ricerca, di nuove regole, di nuovi modi di produrre e distribuire ricchezza, valorizzare le persone, offrire opportunità, evitare le più vistose e insopportabili “diseguaglianze”. Eccolo, dunque, il “cambio di paradigma” proposto da Magatti, che riguarda l’economia (“il mercato globale è sempre più selvaggio e sregolato”) e la politica (“sempre più populista e nazionalista”): occorre rinunciare “alla cieca economia del consumo”, costruire “nuovi consumatori” e “nuovi beni”, per giungere “a uno scambio sostenibile”. Le imprese, in buon numero, “sono le prime ad adattarsi”. Insiste Magatti: “Solo la combinazione tra sostenibilità e logica contributiva può permettere di ricostruire su basi nuove il rapporto tra economia e società che il neoliberismo ha mandato in frantumi. E così rispondere alla domanda sulla natura della prossima crescita economica, nel quadro di una nuova stagione della democrazia”. Sfida difficile, naturalmente. Ma obbligata. Pena la rinuncia al benessere diffuso e condiviso e a parecchie essenziali libertà.

Sono appunto le questioni in discussione anche a Milano, in questi tempi difficili, per cercare di definire condizioni e politiche per rafforzare lo sviluppo economico migliorando la qualità della vita (ne abbiamo a lungo scritto anche nei blog delle ultime tre settimane), per una città che sappia essere non solo dinamica e “smart”, ma anche solidale e inclusiva, come la sua stessa storia testimonia. Il “cambio di paradigma” chiede nuovi equilibri economici e sociali. E’ una sfida civilee di cittadinanza: “Non esistono smart cities senza smart citizens”, ricorda Carlo Ratti in “La città del domani”, Einaudi (ne abbiamo scritto nel blog del 24 ottobre). E l’incrocio tra responsabilità personale e impegno pubblico è fondamentale: “Siamo chiamati a essere costruttori, non vittime, del futuro”.

C’è infatti un rischio generale, che investe le nostre città ma anche un po’ tutta l’Europa: quello di smetterla di progettare futuro e chiudersi nel rimpianto del passato e nell’orizzonte angusto di egoismi e di “piccole patrie”, come ammonisce Zygmunt Bauman in “Retrotopia”, Laterza, libro lucidissimo scritto poco prima della morte, per metterci in guardia dal pericolo della nostalgia e del “ritorno a…”: a Hobbes e ai radicali conflitti tra gli uomini, “alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno”. Bisogna invece affrontare il difficile compito di “innalzare l’integrazione umana al livello dell’umanità intera” (c’è l’eco della lezione di Papa Francesco). E sapere “che siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma d’imparare a governare con sguardo lungo e generoso i processi che investono politica, economia, cultura, società. La parola “sostenibilità” torna a farsi sentire.

Ci sono cambiamenti così radicali da dover essere definiti come metamorfosi. E “Le metamorfosi del mondo” sono quelle analizzate dall’ultimo libro di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi contemporanei, edito da Laterza (un altro libro da eredità morale, dato che Beck è morto nel 2015). Le modernizzazioni tecniche ed economiche, sottolinea anche Beck, hanno stravolto le nostre vite. Globalizzazione e tecnologie digitali hanno reso il mondo più piccolo, connesso ma anche fragile e sempre più nevrotico. E le mutazioni riguardano il nostro essere genitori e i rapporti tra le generazioni, in condizioni di crescenti disuguaglianze, i cambiamenti climatici sino al “catastrofismo emancipativo” (con i conflitti tra egoismi nazionali e produttivi e importanti accordi internazionali per l’ambiente), le metropoli in cui viviamo, il miglioramento della qualità della vita ma anche “i rischi cosmopoliti” (il terrorismo che colpisce ovunque), il lavoro, la comunicazione, l’economia e le stesse tradizionali forme della democrazia. Come ne usciremo? Il futuro dipende un po’ pure dal senso di responsabilità d’ognuno di noi. Il “cambio di paradigma” può molto migliorar

“Cambio di paradigma”, scrive Mauro Magatti, sociologo di grande acutezza, professore all’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo libro, appena pubblicato da Feltrinelli, contiene pagine di grande interesse dedicate a come “uscire dalla crisi pensando il futuro” e contribuisce con analisi e proposte originali al dibattito sulle ragioni del disastro economico che dal 2008 ha coinvolto milioni di persone e sulle idee per una nuova e migliore stagione di sviluppo. Si esce “dall’ordine neo-liberista” che ha determinato “una società psicotica” con passaggi “dall’euforia all’angoscia”, si evitano le trappole dello scambio “efficienza per sicurezza” (illudendosi di poter ricominciare a crescere “spremendo di più il limone” ovvero insistendo sulle ricette dell’austerità a ogni costo e degli squilibri dei mercati sregolati o mal regolati) e si prova invece a coniugare “crescita economica e sviluppo umano e sociale”, andando avanti e “tornando a produrre valore” insistendo sui valori. Sfida generale, di sistema. Che coinvolge parecchi dei più responsabili attori economici.

“Left behind – How to help places hurt by globalisation”, ha titolato efficacemente “The Economist” nel numero del 21 ottobre per un’inchiesta su ceti sociali e paesi “lasciati indietro” dalle dinamiche globali degli scambi e delle nuove tecnologie, dando dunque corpo alle riflessioni critiche e autocritiche che oramai investono ampi ambienti dell’economia, a cominciare dal Fondo monetario internazionale, per anni tempio del neoliberismo e della globalizzazione positiva.

Nel discorso pubblico, sempre più spesso, al termine “economia” si legano aggettivi come “civile”, “circolare”, “sharing” e cioè condivisa, “giusta”, “sostenibile”, segnali appunto di crisi e di ricerca, di nuove regole, di nuovi modi di produrre e distribuire ricchezza, valorizzare le persone, offrire opportunità, evitare le più vistose e insopportabili “diseguaglianze”. Eccolo, dunque, il “cambio di paradigma” proposto da Magatti, che riguarda l’economia (“il mercato globale è sempre più selvaggio e sregolato”) e la politica (“sempre più populista e nazionalista”): occorre rinunciare “alla cieca economia del consumo”, costruire “nuovi consumatori” e “nuovi beni”, per giungere “a uno scambio sostenibile”. Le imprese, in buon numero, “sono le prime ad adattarsi”. Insiste Magatti: “Solo la combinazione tra sostenibilità e logica contributiva può permettere di ricostruire su basi nuove il rapporto tra economia e società che il neoliberismo ha mandato in frantumi. E così rispondere alla domanda sulla natura della prossima crescita economica, nel quadro di una nuova stagione della democrazia”. Sfida difficile, naturalmente. Ma obbligata. Pena la rinuncia al benessere diffuso e condiviso e a parecchie essenziali libertà.

Sono appunto le questioni in discussione anche a Milano, in questi tempi difficili, per cercare di definire condizioni e politiche per rafforzare lo sviluppo economico migliorando la qualità della vita (ne abbiamo a lungo scritto anche nei blog delle ultime tre settimane), per una città che sappia essere non solo dinamica e “smart”, ma anche solidale e inclusiva, come la sua stessa storia testimonia. Il “cambio di paradigma” chiede nuovi equilibri economici e sociali. E’ una sfida civilee di cittadinanza: “Non esistono smart cities senza smart citizens”, ricorda Carlo Ratti in “La città del domani”, Einaudi (ne abbiamo scritto nel blog del 24 ottobre). E l’incrocio tra responsabilità personale e impegno pubblico è fondamentale: “Siamo chiamati a essere costruttori, non vittime, del futuro”.

C’è infatti un rischio generale, che investe le nostre città ma anche un po’ tutta l’Europa: quello di smetterla di progettare futuro e chiudersi nel rimpianto del passato e nell’orizzonte angusto di egoismi e di “piccole patrie”, come ammonisce Zygmunt Bauman in “Retrotopia”, Laterza, libro lucidissimo scritto poco prima della morte, per metterci in guardia dal pericolo della nostalgia e del “ritorno a…”: a Hobbes e ai radicali conflitti tra gli uomini, “alle tribù, alla disuguaglianza, al grembo materno”. Bisogna invece affrontare il difficile compito di “innalzare l’integrazione umana al livello dell’umanità intera” (c’è l’eco della lezione di Papa Francesco). E sapere “che siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma d’imparare a governare con sguardo lungo e generoso i processi che investono politica, economia, cultura, società. La parola “sostenibilità” torna a farsi sentire.

Ci sono cambiamenti così radicali da dover essere definiti come metamorfosi. E “Le metamorfosi del mondo” sono quelle analizzate dall’ultimo libro di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi contemporanei, edito da Laterza (un altro libro da eredità morale, dato che Beck è morto nel 2015). Le modernizzazioni tecniche ed economiche, sottolinea anche Beck, hanno stravolto le nostre vite. Globalizzazione e tecnologie digitali hanno reso il mondo più piccolo, connesso ma anche fragile e sempre più nevrotico. E le mutazioni riguardano il nostro essere genitori e i rapporti tra le generazioni, in condizioni di crescenti disuguaglianze, i cambiamenti climatici sino al “catastrofismo emancipativo” (con i conflitti tra egoismi nazionali e produttivi e importanti accordi internazionali per l’ambiente), le metropoli in cui viviamo, il miglioramento della qualità della vita ma anche “i rischi cosmopoliti” (il terrorismo che colpisce ovunque), il lavoro, la comunicazione, l’economia e le stesse tradizionali forme della democrazia. Come ne usciremo? Il futuro dipende un po’ pure dal senso di responsabilità d’ognuno di noi. Il “cambio di paradigma” può molto migliorar

Cose da Pintacuda, pilota di lucida follia

Ogni volta smetteva per un attimo di respirare e premeva forte sull’acceleratore. Avesse potuto, avrebbe anche chiuso gli occhi. Ma era meglio non farlo, perchè il muro era troppo vicino. E così per cento volte. Ad ognuna delle cento maledettissime curve del Trampolino del Diavolo. Per tutti gli altri era solo il Circuito di Gàvea, ma a Rio de Janeiro la gente del posto lo chiamava Trampolim do Diabo, quell’infernale tracciato automobilistico cittadino: undici chilometri di corsa tra pali della luce, muri, binari del tram, tratti di spiaggia, sabbia, cemento, strapiombi sul mare.

Bisognava tenere gli occhi aperti e trattenere il respiro, a Gàvea. E, forse, pregare che ancora una volta i pneumatici Pirelli Stella Bianca tenessero. Questo lo sapeva bene Carlo Pintacuda, lui che il Trampolino del Diavolo l’aveva quasi saltato -la vittoria gli era sfuggita per un soffio- già nel 1936 con un’Alfa 8C. Nato a Firenze nel settembre del 1900 e alfiere –con il conte Gastone Brilli-Peri Campione del Mondo nel Venticinque, con Giulio Masetti che già aveva lasciato la vita alla Targa Florio del 1926, con Clemente Biondetti che era sardo di Buddusò ma gigliato d’adozione- dei piloti di “scuola fiorentina”, Carlo Pintacuda fece parte di quella piccola schiera di campioni stranieri del volante che proprio nel 1936 sbarcarono in Brasile per vedere di mettere un po’ di pepe nel panorama sportivo locale. E con Pintacuda, arrivarono anche le Alfa Romeo della Scuderia Ferrari gommate Pirelli Stella Bianca. “Con i vostri pneumatici Superflex Cord abbiamo collaudato il nostro nuovo chassis. Siamo soddisfattissimi…” aveva scritto l’ingegner Nicola Romeo all’Agenzia Italiana Gomme Pirelli già nel lontano 1924, quando la Casa del Biscione si preparava a sbancare le competizioni automobilistiche in tutta Europa e andare vincere il Campionato Mondiale l’anno successivo.

Non la prese bene, Carlo Pintacuda, la sconfitta del ’36. In compenso, sulla spiaggia di Copacabana aveva potuto apprezzare il bikini sfoggiato dalla scandalosissima pilotessa francese Hellé Nice, anche lei in gara. Però si era rifatto subito, vincendo di lì a poco il Grand Prix di San Paolo. Perchè la città rivale storica dei carioca s’era subito fatta a sua volta il proprio Gran Premio di casa… Peccato per l’incidente causato in quella gara da Lei è Bella -credevate fosse un nome vero il gioco di parole franco-inglese “Hellé Nice”? Si chiamava Mariette Hélène Delange in realtà- che provocò la morte di quattro spettatori. Ormai la vittoria sul Diavolo era vicina. Per Pintacuda il trionfo vero arrivò infatti nei due anni successivi, quando il pilota fiorentino uscì da vincitore -con l’Alfa 8C nel giugno del 1937 davanti all’austriaco Stuck, con la 308 nel 1938- a Gàvea. Diavolo o no, fu anche grazie ai pneumatici Pirelli che Pintacuda -spesso sotto un diluvio di pioggia- riuscì sempre a finire primo e a costruirsi la sua fama brasiliana di “matto vincente”.

Sou momole pra falar, mas sou um Pintacuda pra beijar. Parlo a spizzichi ma bacio da Pintacuda: così suonava e cantava la Marcha de Gago -la marcetta del balbuziente- lanciata negli anni Cinquanta da Armando Cavalcanti e Klécius Caldas. Carlo Pintacuda -o Herói da Gávea- era ormai diventato leggenda nel Pais Tropical. E i piloti brasiliani un po’matti e spericolati erano diventati “i pintacudas”. Di Pintacuda  -morto nel 1971 a Buenos Aires, dove aveva aperto un negozio di generi alimentari- restano poche foto. Una è nell’Archivio Storico Pirelli: lo ritrae all’arrivo della Mille Miglia del Trentacinque, quando vince guidando un’Alfa P3 monoposto da grand prix appositamente elaborata per lui dalla Scuderia Ferrari con l’aggiunta di un seggiolino per il “navigatore” -il Marchese Alessandro della Stufa– e una minima dotazione di fanali. Pintacuda veste la sua immancabile tuta bianca sciccosa da corsa, sigaretta in bocca e aria guascona. Più perplesso al suo fianco il Marchese della Stufa: vuoi perchè stava su un sedile davvero minuscolo, vuoi perchè ormai era notte e aveva sonno. O forse perchè si era fatto mille miglia di corsa di fianco ad un vero e proprio pintacuda…Gongola, in piedi lì di fianco, Enzo Ferrari: per la cronaca, tra i primi 17 arrivati c’erano 16 Alfa Romeo…

Ogni volta smetteva per un attimo di respirare e premeva forte sull’acceleratore. Avesse potuto, avrebbe anche chiuso gli occhi. Ma era meglio non farlo, perchè il muro era troppo vicino. E così per cento volte. Ad ognuna delle cento maledettissime curve del Trampolino del Diavolo. Per tutti gli altri era solo il Circuito di Gàvea, ma a Rio de Janeiro la gente del posto lo chiamava Trampolim do Diabo, quell’infernale tracciato automobilistico cittadino: undici chilometri di corsa tra pali della luce, muri, binari del tram, tratti di spiaggia, sabbia, cemento, strapiombi sul mare.

Bisognava tenere gli occhi aperti e trattenere il respiro, a Gàvea. E, forse, pregare che ancora una volta i pneumatici Pirelli Stella Bianca tenessero. Questo lo sapeva bene Carlo Pintacuda, lui che il Trampolino del Diavolo l’aveva quasi saltato -la vittoria gli era sfuggita per un soffio- già nel 1936 con un’Alfa 8C. Nato a Firenze nel settembre del 1900 e alfiere –con il conte Gastone Brilli-Peri Campione del Mondo nel Venticinque, con Giulio Masetti che già aveva lasciato la vita alla Targa Florio del 1926, con Clemente Biondetti che era sardo di Buddusò ma gigliato d’adozione- dei piloti di “scuola fiorentina”, Carlo Pintacuda fece parte di quella piccola schiera di campioni stranieri del volante che proprio nel 1936 sbarcarono in Brasile per vedere di mettere un po’ di pepe nel panorama sportivo locale. E con Pintacuda, arrivarono anche le Alfa Romeo della Scuderia Ferrari gommate Pirelli Stella Bianca. “Con i vostri pneumatici Superflex Cord abbiamo collaudato il nostro nuovo chassis. Siamo soddisfattissimi…” aveva scritto l’ingegner Nicola Romeo all’Agenzia Italiana Gomme Pirelli già nel lontano 1924, quando la Casa del Biscione si preparava a sbancare le competizioni automobilistiche in tutta Europa e andare vincere il Campionato Mondiale l’anno successivo.

Non la prese bene, Carlo Pintacuda, la sconfitta del ’36. In compenso, sulla spiaggia di Copacabana aveva potuto apprezzare il bikini sfoggiato dalla scandalosissima pilotessa francese Hellé Nice, anche lei in gara. Però si era rifatto subito, vincendo di lì a poco il Grand Prix di San Paolo. Perchè la città rivale storica dei carioca s’era subito fatta a sua volta il proprio Gran Premio di casa… Peccato per l’incidente causato in quella gara da Lei è Bella -credevate fosse un nome vero il gioco di parole franco-inglese “Hellé Nice”? Si chiamava Mariette Hélène Delange in realtà- che provocò la morte di quattro spettatori. Ormai la vittoria sul Diavolo era vicina. Per Pintacuda il trionfo vero arrivò infatti nei due anni successivi, quando il pilota fiorentino uscì da vincitore -con l’Alfa 8C nel giugno del 1937 davanti all’austriaco Stuck, con la 308 nel 1938- a Gàvea. Diavolo o no, fu anche grazie ai pneumatici Pirelli che Pintacuda -spesso sotto un diluvio di pioggia- riuscì sempre a finire primo e a costruirsi la sua fama brasiliana di “matto vincente”.

Sou momole pra falar, mas sou um Pintacuda pra beijar. Parlo a spizzichi ma bacio da Pintacuda: così suonava e cantava la Marcha de Gago -la marcetta del balbuziente- lanciata negli anni Cinquanta da Armando Cavalcanti e Klécius Caldas. Carlo Pintacuda -o Herói da Gávea- era ormai diventato leggenda nel Pais Tropical. E i piloti brasiliani un po’matti e spericolati erano diventati “i pintacudas”. Di Pintacuda  -morto nel 1971 a Buenos Aires, dove aveva aperto un negozio di generi alimentari- restano poche foto. Una è nell’Archivio Storico Pirelli: lo ritrae all’arrivo della Mille Miglia del Trentacinque, quando vince guidando un’Alfa P3 monoposto da grand prix appositamente elaborata per lui dalla Scuderia Ferrari con l’aggiunta di un seggiolino per il “navigatore” -il Marchese Alessandro della Stufa– e una minima dotazione di fanali. Pintacuda veste la sua immancabile tuta bianca sciccosa da corsa, sigaretta in bocca e aria guascona. Più perplesso al suo fianco il Marchese della Stufa: vuoi perchè stava su un sedile davvero minuscolo, vuoi perchè ormai era notte e aveva sonno. O forse perchè si era fatto mille miglia di corsa di fianco ad un vero e proprio pintacuda…Gongola, in piedi lì di fianco, Enzo Ferrari: per la cronaca, tra i primi 17 arrivati c’erano 16 Alfa Romeo…

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Culture d’impresa emergenti

Un libro della  Cambridge University Press affronta il tema delle culture del produrre nelle aree diverse da quelle occidentali

Imprese come corpi porosi che assorbono suggestioni e principi dal sistema in cui sono immerse; e ne diffondono di altrettanti. Culture del produrre che costruiscono un’etica propria ma non autonoma dal resto della società. Accade anche nei Paesi emergenti. Situazione particolare, quest’ultima, che deve essere compresa a fondo. Soprattutto in un periodo nel quale la globalizzazione è fenomeno pervasivo e di cui non si può non tenere conto.

E’ ciò che hanno fatto Douglas Jondle e Alexandre Ardchvili con il loro “Ethical business cultures in emerging markets” appena pubblicato. Il libro affronta il tema dell’etica dell’impresa dal punto di vista  dei Paesi in via di sviluppo. Gli autori partono da una constatazione. Le ricerche precedenti sulle culture aziendali e sull’eticità delle culture imprenditoriali si sono concentrate quasi esclusivamente sugli studi dedicati alle grandi corporazioni multinazionali provenienti da una manciata di paesi sviluppati. Quasi completamente dimenticate le altre imprese.

La fatica letteraria di Jondle e Ardchvili  guarda invece a quella che può essere indicata come l’intersezione dello sviluppo delle risorse umane e della gestione delle risorse umane nelle culture aziendali presenti nei quattro paesi BRIC e in altre quattro economie emergenti in rapida crescita: quelle del Messico, dell’Indonesia, del Sudafrica e della Turchia. Si guarda, in altre parole, a quella parte del mondo con la quale “l’Occidente industrializzato” ha ormai a che fare in continuazione e che spesso tuttavia non conosce a fondo.

Il libro quindi confronta le percezioni dei manager e dei dipendenti delle imprese presenti in questi Paesi, mettendole a confronto  con l’economia statunitense e cioè con la cultura d’impresa occidentale per eccellenza. Oltre a questo Jondle e Ardchvili approfondiscono il contesto economico e socio-culturale e l’etica d’impresa in ciascuno di questi paesi, incluse le implicazioni per la ricerca e la pratica.

“Ethical business cultures in emerging markets” è un buon strumento per rendersi conto dell’esistenza di mondi culturali diversi nell’ambito di imprese che apparentemente possono apparire invece uniformi. Un approccio teorico, che può avere tuttavia grandi risvolti operativi per chi lavora con i paesi emergenti.

Ethical business cultures in emerging markets

Douglas Jondle , Alexandre Ardchvili

Cambridge University Press, 2017

Un libro della  Cambridge University Press affronta il tema delle culture del produrre nelle aree diverse da quelle occidentali

Imprese come corpi porosi che assorbono suggestioni e principi dal sistema in cui sono immerse; e ne diffondono di altrettanti. Culture del produrre che costruiscono un’etica propria ma non autonoma dal resto della società. Accade anche nei Paesi emergenti. Situazione particolare, quest’ultima, che deve essere compresa a fondo. Soprattutto in un periodo nel quale la globalizzazione è fenomeno pervasivo e di cui non si può non tenere conto.

E’ ciò che hanno fatto Douglas Jondle e Alexandre Ardchvili con il loro “Ethical business cultures in emerging markets” appena pubblicato. Il libro affronta il tema dell’etica dell’impresa dal punto di vista  dei Paesi in via di sviluppo. Gli autori partono da una constatazione. Le ricerche precedenti sulle culture aziendali e sull’eticità delle culture imprenditoriali si sono concentrate quasi esclusivamente sugli studi dedicati alle grandi corporazioni multinazionali provenienti da una manciata di paesi sviluppati. Quasi completamente dimenticate le altre imprese.

La fatica letteraria di Jondle e Ardchvili  guarda invece a quella che può essere indicata come l’intersezione dello sviluppo delle risorse umane e della gestione delle risorse umane nelle culture aziendali presenti nei quattro paesi BRIC e in altre quattro economie emergenti in rapida crescita: quelle del Messico, dell’Indonesia, del Sudafrica e della Turchia. Si guarda, in altre parole, a quella parte del mondo con la quale “l’Occidente industrializzato” ha ormai a che fare in continuazione e che spesso tuttavia non conosce a fondo.

Il libro quindi confronta le percezioni dei manager e dei dipendenti delle imprese presenti in questi Paesi, mettendole a confronto  con l’economia statunitense e cioè con la cultura d’impresa occidentale per eccellenza. Oltre a questo Jondle e Ardchvili approfondiscono il contesto economico e socio-culturale e l’etica d’impresa in ciascuno di questi paesi, incluse le implicazioni per la ricerca e la pratica.

“Ethical business cultures in emerging markets” è un buon strumento per rendersi conto dell’esistenza di mondi culturali diversi nell’ambito di imprese che apparentemente possono apparire invece uniformi. Un approccio teorico, che può avere tuttavia grandi risvolti operativi per chi lavora con i paesi emergenti.

Ethical business cultures in emerging markets

Douglas Jondle , Alexandre Ardchvili

Cambridge University Press, 2017

Creativi soddisfatti lavoratori

Una ricerca pubblicata su Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, affronta e spiega con completezza il tema del job crafting

 

Soddisfatti si lavora meglio. Se poi la soddisfazione si realizza attraverso un percorso nel quale si è protagonisti, il lavoro è più produttivo, coerente con le proprie inclinazioni, affrontabile in maniera più attiva e concreta, meno problematico. La soddisfazione nel lavoro e le strade per raggiungerla, sono una delle nuove frontiere del management  e più in generale della buona gestione d’impresa. Traguardo culturale, prima ancora che organizzativo.

Su un aspetto della soddisfazione lavorativa hanno lavorato Davide De Gennaro (ricercatore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”), Filomena Buonocore (Professore associato    di Organizzazione Aziendale, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Parthenope) e Maria Ferrara (Professore ordinario di Organizzazione Aziendale,  Dipartimento   di Studi aziendali, Università degli Studi di Napoli Parthenope). Il loro “Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali” appena pubblicato prende in considerazione il job crafting cioè quella pratica che “vuol dire  per un  lavoratore assumere comportamenti    proattivi così da rendere il proprio lavoro più soddisfacente e coerente con le proprie inclinazioni ed abilità”. In questo modo, spiegano gli autori, la possibilità effettiva di modificare le mansioni di un lavoratore non è solo una esclusiva del management , ma soprattutto la possibilità dei lavoratori di influire sulla loro attività conta anche, e in positivo,  sulla loro produttività e quindi sui risultati aziendali.

De Gennaro, Buonocore e Ferrara esaminano quindi il job crafting sia sotto il profilo storico, sia sotto quello metodologico dandone una definizione approfondita  e analizzandone soprattutto gli aspetti legati alla persona e al contesto.  La ricerca cerca però di individuare non solo una impostazione teorica nuova, ma soprattutto una serie di buone pratiche da applicare nelle imprese. Il job crafting, viene per esempio spiegato, genera effetti positivi o negativi  “in base al modo in cui i manager disegnano le mansioni”. Soprattutto i tre ricercatori suggeriscono che dovrebbe essere lasciato maggior spazio ai lavoratori nella applicazione del job crafting rispetto alla consuetudine ancora più diffusa.

L’articolo di De Gennaro, Buonocore e Ferrara ha una grande utilità per un motivo: fa chiarezza in un ambito ancora poco conosciuto e fornisce con semplicità e completezza gli elementi più importanti per capire.

Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali

Davide de Gennaro, Filomena Buonocore, Maria Ferrara

Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, 2, 2017

Una ricerca pubblicata su Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, affronta e spiega con completezza il tema del job crafting

 

Soddisfatti si lavora meglio. Se poi la soddisfazione si realizza attraverso un percorso nel quale si è protagonisti, il lavoro è più produttivo, coerente con le proprie inclinazioni, affrontabile in maniera più attiva e concreta, meno problematico. La soddisfazione nel lavoro e le strade per raggiungerla, sono una delle nuove frontiere del management  e più in generale della buona gestione d’impresa. Traguardo culturale, prima ancora che organizzativo.

Su un aspetto della soddisfazione lavorativa hanno lavorato Davide De Gennaro (ricercatore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”), Filomena Buonocore (Professore associato    di Organizzazione Aziendale, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Parthenope) e Maria Ferrara (Professore ordinario di Organizzazione Aziendale,  Dipartimento   di Studi aziendali, Università degli Studi di Napoli Parthenope). Il loro “Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali” appena pubblicato prende in considerazione il job crafting cioè quella pratica che “vuol dire  per un  lavoratore assumere comportamenti    proattivi così da rendere il proprio lavoro più soddisfacente e coerente con le proprie inclinazioni ed abilità”. In questo modo, spiegano gli autori, la possibilità effettiva di modificare le mansioni di un lavoratore non è solo una esclusiva del management , ma soprattutto la possibilità dei lavoratori di influire sulla loro attività conta anche, e in positivo,  sulla loro produttività e quindi sui risultati aziendali.

De Gennaro, Buonocore e Ferrara esaminano quindi il job crafting sia sotto il profilo storico, sia sotto quello metodologico dandone una definizione approfondita  e analizzandone soprattutto gli aspetti legati alla persona e al contesto.  La ricerca cerca però di individuare non solo una impostazione teorica nuova, ma soprattutto una serie di buone pratiche da applicare nelle imprese. Il job crafting, viene per esempio spiegato, genera effetti positivi o negativi  “in base al modo in cui i manager disegnano le mansioni”. Soprattutto i tre ricercatori suggeriscono che dovrebbe essere lasciato maggior spazio ai lavoratori nella applicazione del job crafting rispetto alla consuetudine ancora più diffusa.

L’articolo di De Gennaro, Buonocore e Ferrara ha una grande utilità per un motivo: fa chiarezza in un ambito ancora poco conosciuto e fornisce con semplicità e completezza gli elementi più importanti per capire.

Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali

Davide de Gennaro, Filomena Buonocore, Maria Ferrara

Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, 2, 2017

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