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Con lo “Stella Bianca” torna il pneumatico a tele incrociate – Automobilismo d’epoca

05

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Bella cultura italiana del produrre

In un libro la storia e il significato del nostro stile

 

Manifattura e bellezza. Industria e cultura. Cultura d’impresa, appunto. Con tutte le cautele del caso; perché certamente fare industria, artigianato, manifattura, produrre insomma, è anche fatica e impegno, rischio, volontà dura di arrivare, determinazione e costanza. Ma, al di là di tutto questo, spesso produrre bene significa soprattutto avere stile e gusto. Peculiarità che vedono l’Italia in prima fila nel mondo, davanti a tutti e da tutti imitata. E’ per questo che sapere di più della cultura dello stilo italiano è cosa buona per chi voglia capire meglio il perché del successo del nostro Paese in molti campi produttivi.

Ci ha pensato Romano Benini (docente di Italian Fashion Industries presso l’Università La Sapienza di Roma), a scrivere un saggio che ragiona attorno a questo argomento che sintetizza uno dei punti di forza ormai millenari dell’italianità nel mondo.

Benini scrive con un linguaggio piano e comprensibile, al quale però occorre accostarsi con attenzione. “Lo stile italiano” è il racconto della storia di quello che oggi viene sintetizzato come Made in Italy ed inizia quindi con l’approfondimento del significato del termine “stile” e di quello più legato a questo: “gusto”. E’ da qui che Benini parte per precisare prima di tutto i legami fra forma e contenuto e quindi fra estetica ed etica del produrre, per passare poi subito a precisare quanto il successo italiano nel mondo, anche economico, sia basato sulla nostra capacità di preservare una cultura del produrre che riesce a coniugare proprio l’esteriore con l’interiore di ogni prodotto.  “La resistenza – spiega Benini -, che l’Italia fa ancora oggi alla separazione tra etica ed estetica è quanto la rende attraente in un sistema globale basato invece sul consumo di massa di beni privi di valore e destinati a produrre ingenti quantità di rifiuti e di scarti”.

Ma com’è nato tutto questo? La riposta viene data da Benini lungo tutto il libro ripercorrendo, dagli Etruschi ad oggi, le tappe fondamentali del rapporto fra stile italiano e produzione; in tutte le sue possibili forme: dall’alimentare all’artigianato e alla manifattura in tutte le espressioni.

Chiara è “la morale” di Benini. A dieci anni dallo scoppio della crisi economica globale, l’Italian style non solo è uscito indenne dalla crisi, ma è stato il fattore trainante per lo sviluppo di diversi settori dell’economia italiana. Esempio di Italia resiliente, dunque. E “segreto” di successo. Benini quindi arriva a condensare in una serie di parole chiave e in un decalogo gli elementi fondanti dello stile che ci caratterizza. E spiega: “Gli italiani possono uscire dalle loro difficoltà facendo tesoro della loro storia e della loro identità, ma perché questo sia possibile servono anche politiche e interventi in grado di assecondare, stimolare e sostenere l’affermazione nella cultura, nella società e nell’economia degli aspetti più significativi dell’italianità”.

Quello scritto da Romano Benini è un libro bello, nel più puro stile italiano.

 

Lo stile italiano. Storia, economia e cultura del Made in Italy

Romano Benini

Donzelli, 2018

In un libro la storia e il significato del nostro stile

 

Manifattura e bellezza. Industria e cultura. Cultura d’impresa, appunto. Con tutte le cautele del caso; perché certamente fare industria, artigianato, manifattura, produrre insomma, è anche fatica e impegno, rischio, volontà dura di arrivare, determinazione e costanza. Ma, al di là di tutto questo, spesso produrre bene significa soprattutto avere stile e gusto. Peculiarità che vedono l’Italia in prima fila nel mondo, davanti a tutti e da tutti imitata. E’ per questo che sapere di più della cultura dello stilo italiano è cosa buona per chi voglia capire meglio il perché del successo del nostro Paese in molti campi produttivi.

Ci ha pensato Romano Benini (docente di Italian Fashion Industries presso l’Università La Sapienza di Roma), a scrivere un saggio che ragiona attorno a questo argomento che sintetizza uno dei punti di forza ormai millenari dell’italianità nel mondo.

Benini scrive con un linguaggio piano e comprensibile, al quale però occorre accostarsi con attenzione. “Lo stile italiano” è il racconto della storia di quello che oggi viene sintetizzato come Made in Italy ed inizia quindi con l’approfondimento del significato del termine “stile” e di quello più legato a questo: “gusto”. E’ da qui che Benini parte per precisare prima di tutto i legami fra forma e contenuto e quindi fra estetica ed etica del produrre, per passare poi subito a precisare quanto il successo italiano nel mondo, anche economico, sia basato sulla nostra capacità di preservare una cultura del produrre che riesce a coniugare proprio l’esteriore con l’interiore di ogni prodotto.  “La resistenza – spiega Benini -, che l’Italia fa ancora oggi alla separazione tra etica ed estetica è quanto la rende attraente in un sistema globale basato invece sul consumo di massa di beni privi di valore e destinati a produrre ingenti quantità di rifiuti e di scarti”.

Ma com’è nato tutto questo? La riposta viene data da Benini lungo tutto il libro ripercorrendo, dagli Etruschi ad oggi, le tappe fondamentali del rapporto fra stile italiano e produzione; in tutte le sue possibili forme: dall’alimentare all’artigianato e alla manifattura in tutte le espressioni.

Chiara è “la morale” di Benini. A dieci anni dallo scoppio della crisi economica globale, l’Italian style non solo è uscito indenne dalla crisi, ma è stato il fattore trainante per lo sviluppo di diversi settori dell’economia italiana. Esempio di Italia resiliente, dunque. E “segreto” di successo. Benini quindi arriva a condensare in una serie di parole chiave e in un decalogo gli elementi fondanti dello stile che ci caratterizza. E spiega: “Gli italiani possono uscire dalle loro difficoltà facendo tesoro della loro storia e della loro identità, ma perché questo sia possibile servono anche politiche e interventi in grado di assecondare, stimolare e sostenere l’affermazione nella cultura, nella società e nell’economia degli aspetti più significativi dell’italianità”.

Quello scritto da Romano Benini è un libro bello, nel più puro stile italiano.

 

Lo stile italiano. Storia, economia e cultura del Made in Italy

Romano Benini

Donzelli, 2018

Età e produttività

Una tesi di dottorato approfondisce i collegamenti fra invecchiamento della popolazione, innovazione e necessità di aggiornamento

 

L’impresa non è avulsa dal contesto sociale e territoriale in cui è collocata. E’ una constatazione che vale per tutti gli aspetti collegati alla produzione, ma che spesso non viene colta completamente. Il fatto che un sistema di produzione sia inserito in un determinato contesto sociale, influisce per esempio anche sulla qualità del lavoro dal punto di vista della composizione demografica, e quindi sulla capacità di stare al passo con il progresso tecnologico. Un aspetto importante della cultura d’impresa, la relazione fra innovazione e invecchiamento della popolazione di lavoratori è il tema studiato da Corrado Polli nella sua  Tesi di Dottorato di ricerca presso la Scuola di Scienze Statistiche all’Università Sapienza di Roma.

“Invecchiamento, produttività e cambiamenti strutturali del mercato del lavoro: il ruolo della formazione” ragiona sul progresso tecnologico, sull’invecchiamento delle popolazione e sulle circostanze che determinano la perdita di lavoro. Polli predispone con ordine gli elementi della sua indagine, iniziando da una analisi della realtà demografica per poi passare a quella delle componenti tecnologiche dell’evoluzione della società e della produzione (manifatturiera ma non solo). Lo scollamento fra tecnologie e capacità dei lavoratori viene colto attraverso un approfondimento della produttività di questi ultimi. Un’attenzione particolare, infine, viene dedicata alla situazione dei lavoratori con più di 50 anni – nella gran parte dei casi forniti di una bassa qualificazione -, a confronto con le richieste di conoscenze diverse dal passato e comuni oggi nella gran parte delle imprese.

L’indicazione generale di Polli alla conclusione del suo lavoro, punta a dimostrare l’efficacia di una formazione specifica in relazione all’età, all’istruzione e al lavoro. Un meccanismo che ha come obiettivo quello di assicurare da un lato una buona produttività e, dall’altro, contenere la crescita di una disoccupazione tecnologica difficilmente gestibile. Al di là di tutto questo, poi, la ricerca di Corrado Polli è una ulteriore prova della complessità di una cultura d’impresa in continua evoluzione e nella quale l’uomo deve essere al centro.

Invecchiamento, produttività e cambiamenti strutturali del mercato del lavoro: il ruolo della formazione

Corrado Polli

Tesi, Dottorato di ricerca Scuola di Scienze Statistiche, Università Sapienza, Roma, 2018

Una tesi di dottorato approfondisce i collegamenti fra invecchiamento della popolazione, innovazione e necessità di aggiornamento

 

L’impresa non è avulsa dal contesto sociale e territoriale in cui è collocata. E’ una constatazione che vale per tutti gli aspetti collegati alla produzione, ma che spesso non viene colta completamente. Il fatto che un sistema di produzione sia inserito in un determinato contesto sociale, influisce per esempio anche sulla qualità del lavoro dal punto di vista della composizione demografica, e quindi sulla capacità di stare al passo con il progresso tecnologico. Un aspetto importante della cultura d’impresa, la relazione fra innovazione e invecchiamento della popolazione di lavoratori è il tema studiato da Corrado Polli nella sua  Tesi di Dottorato di ricerca presso la Scuola di Scienze Statistiche all’Università Sapienza di Roma.

“Invecchiamento, produttività e cambiamenti strutturali del mercato del lavoro: il ruolo della formazione” ragiona sul progresso tecnologico, sull’invecchiamento delle popolazione e sulle circostanze che determinano la perdita di lavoro. Polli predispone con ordine gli elementi della sua indagine, iniziando da una analisi della realtà demografica per poi passare a quella delle componenti tecnologiche dell’evoluzione della società e della produzione (manifatturiera ma non solo). Lo scollamento fra tecnologie e capacità dei lavoratori viene colto attraverso un approfondimento della produttività di questi ultimi. Un’attenzione particolare, infine, viene dedicata alla situazione dei lavoratori con più di 50 anni – nella gran parte dei casi forniti di una bassa qualificazione -, a confronto con le richieste di conoscenze diverse dal passato e comuni oggi nella gran parte delle imprese.

L’indicazione generale di Polli alla conclusione del suo lavoro, punta a dimostrare l’efficacia di una formazione specifica in relazione all’età, all’istruzione e al lavoro. Un meccanismo che ha come obiettivo quello di assicurare da un lato una buona produttività e, dall’altro, contenere la crescita di una disoccupazione tecnologica difficilmente gestibile. Al di là di tutto questo, poi, la ricerca di Corrado Polli è una ulteriore prova della complessità di una cultura d’impresa in continua evoluzione e nella quale l’uomo deve essere al centro.

Invecchiamento, produttività e cambiamenti strutturali del mercato del lavoro: il ruolo della formazione

Corrado Polli

Tesi, Dottorato di ricerca Scuola di Scienze Statistiche, Università Sapienza, Roma, 2018

Dall’Italia si emigra ancora (128mila in un anno) ma Milano sa attrarre 13mila universitari stranieri

L’Italia è ancora terra di emigranti. E contemporaneamente terra d’accoglienza, anche per studenti di alto livello, nelle nostre migliori università, a partire da Milano. Sono dati di movimento economico e sociale che raccontano un Paese in cambiamento. E chiamano direttamente in causa la politica, per fare consapevoli ed efficaci  scelte di governo d’un fenomeno che segnala sia condizioni di crisi di lungo periodo sia opportunità di crescita e di migliore qualità dello sviluppo economico e sociale.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Il XIII “Rapporto Italiani nel mondo”, curato dalla Fondazione Cei Migrantes e presentato a Roma il 24 ottobre scorso nota che negli ultimi dodici anni, dal 2006 al 2018, la mobilità degli italiani è passata da 3,1 milioni di iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) a 5,1 milioni, l’8,5% dei 60 milioni dei residenti in Italia. Una cifra altissima. Da guardare comunque con maggior attenzione: poco più di metà sono iscritti per “espatrio”, mentre il 39,5% sono figli di cittadini italiani all’estero e gli altri per acquisizione di cittadinanza (figli di oriundi che ottengono il secondo passaporto). Il dato certo è gli iscritti all’Aire sono in aumento, il 64,7% in più di dodici anni fa. E l’Airi comunque non registra compiutamente il numero degli italiani all’estero perché in tanti, andati fuori dall’Italia per motidi di studio o di lavoro temporaneo, non vi si iscrivono.

Chi va via? Soprattutto i giovani, tra i 18 e i 34 anni (37,4%) e i “giovani adulti” (25%). Ma negli anni è aumentato il fenomeno che riguarda chi ha più di 50 anni: metà vanno in Europa (con sempre minor interesse per il Regno Unito, dopo le infauste scelte della Brexit), un altro 40% negli Usa e in America latina. Sono persone ancora in età di lavoro o pensionati attivi che, rimasti da soli, tendono a ricongiungersi con le famiglie dei figli e dei nipoti. Nonni in movimento, insomma. Una piccola parte sono pensionati che decidono di andare a vivere dove i carichi fiscali sono minori (il Portogallo, per esempio), il costo della vita basso o le condizioni climatiche più favorevoli per la “terza età”.

Dei 243mila nuovi iscritti all’Airi nel 2017, più di metà, 128mila, sono quelli “espatriati”, i nuovi migranti italiani, cioè. Da dove partono? Dalla ricca e dinamica Lombardia, innanzitutto, in 21.980. Poi, dall’Emilia Romagna (12.912) e dal Veneto, terra di fabbriche (11.132). Un fenomeno su cui riflettere: si parte proprio da aree economicamente prospere, con solide opportunità di lavoro e un robusto tessuto di università di grande qualità e di imprese multinazionali. E’ la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Giovani colti, ben preparati, intraprendenti, che preferiscono le strade internazionali per cercare migliori opportunità di lavoro e di vita e di spazi più accoglienti rispetto a università (in cui vigono ancora un po’ troppo il “familismo” e i criteri di selezione per cooptazione e relazione e molto meno per merito)  e a centri di ricerca dai budget ridotti e comunque meno ricchi di quanto non succeda negli Usa e in Germania, ma anche nei paesi del Nord Europa e in Cina.

Al quarto posto, per aree di espatrio, ecco la Sicilia (10.6499 e la Puglia (8.816). Vale la pena aggiungere che proprio dalle regioni del Sud il primo spostamento, soprattutto dei giovani, è verso le regioni del Nord, per studiare e poi per cercare lavoro e solo in un secondo tempo, da lì verso l’estero.

Fondazione Migrantes e la Cei (la Conferenza episcopale italiana) insistono su una valutazione etica e sociale, su cui riflettere con attenzione: “Il migrare non è legato a una particolare congiuntura ma è un diritto umano fondamentale della persona. E al centro del fenomeno delle migrazioni va posto sempre il problema dell’accoglienza”, sostiene il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei.

Ecco un tema cardine: quello dell’accoglienza. C’è un paradigma positivo, Milano e la Lombardia. Già segnalato dall’Ocse, nel rapporto annuale sulle migrazioni presentato a Parigi il 20 giugno scorso, sottolineando che “nel 2016 l’82% della popolazione immigrata” era “in una situazione regolare e lavorava nel settore formale”.

Milano attrattiva, dunque. E sempre più amata dai giovani studenti universitari di mezzo mondo. Lo documenta l’indagine annuale di Assolombarda su “L’internazionalizzazione degli atenei di Milano e della Lombardia”, presentata il 25 ottobre scorso.

Cosa dicono i dati? Nell’anno accademico 2016-2017 si contano 12.878 iscritti internazionali: di questi 2.017 sono cinesi e più della metà degli studenti frequenta corsi di laurea “Stem” ( e cioè Science, Technology, Engineering and Mathematics, quelli più richiesti dalle imprese tecnologicamente all’avanguardia). Il loro numero continua a crescere: il 2,4% in più sull’anno precedente. Un aumento in linea con le rilevazioni degli ultimi anni: erano 12.020 nel ‘14-‘15 e 12.577 nel ‘15-‘16. L’indagine, oramai all’ottava edizione, prende in considerazione 13 atenei della regione, 8 dei quali con sede a Milano: Politecnico, Bocconi, Cattolica,  Humanitas, IULM, Università Statale, Bicocca e San Raffaele. Poi, la LIUC di Castellanza, le Università di Bergamo, Brescia, Pavia e dell’Insubria. Commenta Pietro Guindani, vicepresidente di Assolombarda, con delega a Università e Innovazione: “Il Rapporto evidenzia il processo di apertura internazionale del polo accademico lombardo. E occorre continuare ad alimentare la capacità attrattiva dei nostri atenei. A cominciare dall’aumento dell’offerta di corsi in lingua inglese, una scelta decisiva per inserire gli studenti nella comunità internazionale”.

Ci sono altre indicazioni interessanti, nel Rapporto Assolombarda: un sostanziale bilanciamento tra i generi (52,2% femmine e 47,8% maschi): la maggior parte è iscritta a corsi di laurea di 1°, 2° livello e ciclo unico (90,5% degli studenti internazionali), mentre il restante 9,5% è impegnato in corsi post lauream come dottorati, master e scuole di specializzazione. Per quanto riguarda la provenienza geografica, il 42,6% arriva dall’Europa e il 38,4% dall’Asia. ma in termini assoluti la nazionalità più rappresentata è quella cinese con 2.017 studenti, seguita dall’Iran (876 studenti), dall’India (752 studenti) e dalla Svizzera (751 studenti).

Cosa attrae tanti studenti stranieri? Rispetto agli universitari lombardi, gli studenti internazionali scelgono più frequentemente corsi Stem (50,1% contro 40%) e, in misura ancora maggiore, corsi di arte e design (6,1% contro 1,4%). Un risultato probabilmente legato anche al prestigio del made in Italy e all’elevata reputazione internazionale di Milano nel settore del design e creativo. Cresce poi il numero di studenti coinvolti in programmi di mobilità. Rispetto all’anno 2015 – 2016, sono 17.820 in totale (+5,3%), di cui 10.737 sono italiani in uscita (+0,6%) e 7.083 sono stranieri in entrata (+13,2%). Dallo studio emerge, infine, come le università lombarde e in particolare quelle milanesi, se confrontate con il resto degli atenei italiani, si distinguano per il numero di corsi offerti in lingua inglese: rispettivamente il 24,2% e il 28,7% del totale contro il 16,3% italiani.

Milano attrattiva per la forza della sua “cultura politecnica”, dunque. E città aperta, dinamica, coinvolgente. Una dimensione urbana, economica e sociale su cui insistere, proprio in termini di vitalità della metropoli e della regione.  Guardiamo bene una coppia di dati: i 22mila che partono dalla Lombardia, i 13 mila studenti che arrivano. Uno scambio virtuoso di conoscenze, culture, attitudini, stili di vita, sguardi sul mondo. Un capitale umano e un capitale sociale che si rinnovano continuamente. Un’indicazioine positiva per il nostro futuro.

L’Italia è ancora terra di emigranti. E contemporaneamente terra d’accoglienza, anche per studenti di alto livello, nelle nostre migliori università, a partire da Milano. Sono dati di movimento economico e sociale che raccontano un Paese in cambiamento. E chiamano direttamente in causa la politica, per fare consapevoli ed efficaci  scelte di governo d’un fenomeno che segnala sia condizioni di crisi di lungo periodo sia opportunità di crescita e di migliore qualità dello sviluppo economico e sociale.

Guardiamo i dati, innanzitutto. Il XIII “Rapporto Italiani nel mondo”, curato dalla Fondazione Cei Migrantes e presentato a Roma il 24 ottobre scorso nota che negli ultimi dodici anni, dal 2006 al 2018, la mobilità degli italiani è passata da 3,1 milioni di iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) a 5,1 milioni, l’8,5% dei 60 milioni dei residenti in Italia. Una cifra altissima. Da guardare comunque con maggior attenzione: poco più di metà sono iscritti per “espatrio”, mentre il 39,5% sono figli di cittadini italiani all’estero e gli altri per acquisizione di cittadinanza (figli di oriundi che ottengono il secondo passaporto). Il dato certo è gli iscritti all’Aire sono in aumento, il 64,7% in più di dodici anni fa. E l’Airi comunque non registra compiutamente il numero degli italiani all’estero perché in tanti, andati fuori dall’Italia per motidi di studio o di lavoro temporaneo, non vi si iscrivono.

Chi va via? Soprattutto i giovani, tra i 18 e i 34 anni (37,4%) e i “giovani adulti” (25%). Ma negli anni è aumentato il fenomeno che riguarda chi ha più di 50 anni: metà vanno in Europa (con sempre minor interesse per il Regno Unito, dopo le infauste scelte della Brexit), un altro 40% negli Usa e in America latina. Sono persone ancora in età di lavoro o pensionati attivi che, rimasti da soli, tendono a ricongiungersi con le famiglie dei figli e dei nipoti. Nonni in movimento, insomma. Una piccola parte sono pensionati che decidono di andare a vivere dove i carichi fiscali sono minori (il Portogallo, per esempio), il costo della vita basso o le condizioni climatiche più favorevoli per la “terza età”.

Dei 243mila nuovi iscritti all’Airi nel 2017, più di metà, 128mila, sono quelli “espatriati”, i nuovi migranti italiani, cioè. Da dove partono? Dalla ricca e dinamica Lombardia, innanzitutto, in 21.980. Poi, dall’Emilia Romagna (12.912) e dal Veneto, terra di fabbriche (11.132). Un fenomeno su cui riflettere: si parte proprio da aree economicamente prospere, con solide opportunità di lavoro e un robusto tessuto di università di grande qualità e di imprese multinazionali. E’ la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Giovani colti, ben preparati, intraprendenti, che preferiscono le strade internazionali per cercare migliori opportunità di lavoro e di vita e di spazi più accoglienti rispetto a università (in cui vigono ancora un po’ troppo il “familismo” e i criteri di selezione per cooptazione e relazione e molto meno per merito)  e a centri di ricerca dai budget ridotti e comunque meno ricchi di quanto non succeda negli Usa e in Germania, ma anche nei paesi del Nord Europa e in Cina.

Al quarto posto, per aree di espatrio, ecco la Sicilia (10.6499 e la Puglia (8.816). Vale la pena aggiungere che proprio dalle regioni del Sud il primo spostamento, soprattutto dei giovani, è verso le regioni del Nord, per studiare e poi per cercare lavoro e solo in un secondo tempo, da lì verso l’estero.

Fondazione Migrantes e la Cei (la Conferenza episcopale italiana) insistono su una valutazione etica e sociale, su cui riflettere con attenzione: “Il migrare non è legato a una particolare congiuntura ma è un diritto umano fondamentale della persona. E al centro del fenomeno delle migrazioni va posto sempre il problema dell’accoglienza”, sostiene il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei.

Ecco un tema cardine: quello dell’accoglienza. C’è un paradigma positivo, Milano e la Lombardia. Già segnalato dall’Ocse, nel rapporto annuale sulle migrazioni presentato a Parigi il 20 giugno scorso, sottolineando che “nel 2016 l’82% della popolazione immigrata” era “in una situazione regolare e lavorava nel settore formale”.

Milano attrattiva, dunque. E sempre più amata dai giovani studenti universitari di mezzo mondo. Lo documenta l’indagine annuale di Assolombarda su “L’internazionalizzazione degli atenei di Milano e della Lombardia”, presentata il 25 ottobre scorso.

Cosa dicono i dati? Nell’anno accademico 2016-2017 si contano 12.878 iscritti internazionali: di questi 2.017 sono cinesi e più della metà degli studenti frequenta corsi di laurea “Stem” ( e cioè Science, Technology, Engineering and Mathematics, quelli più richiesti dalle imprese tecnologicamente all’avanguardia). Il loro numero continua a crescere: il 2,4% in più sull’anno precedente. Un aumento in linea con le rilevazioni degli ultimi anni: erano 12.020 nel ‘14-‘15 e 12.577 nel ‘15-‘16. L’indagine, oramai all’ottava edizione, prende in considerazione 13 atenei della regione, 8 dei quali con sede a Milano: Politecnico, Bocconi, Cattolica,  Humanitas, IULM, Università Statale, Bicocca e San Raffaele. Poi, la LIUC di Castellanza, le Università di Bergamo, Brescia, Pavia e dell’Insubria. Commenta Pietro Guindani, vicepresidente di Assolombarda, con delega a Università e Innovazione: “Il Rapporto evidenzia il processo di apertura internazionale del polo accademico lombardo. E occorre continuare ad alimentare la capacità attrattiva dei nostri atenei. A cominciare dall’aumento dell’offerta di corsi in lingua inglese, una scelta decisiva per inserire gli studenti nella comunità internazionale”.

Ci sono altre indicazioni interessanti, nel Rapporto Assolombarda: un sostanziale bilanciamento tra i generi (52,2% femmine e 47,8% maschi): la maggior parte è iscritta a corsi di laurea di 1°, 2° livello e ciclo unico (90,5% degli studenti internazionali), mentre il restante 9,5% è impegnato in corsi post lauream come dottorati, master e scuole di specializzazione. Per quanto riguarda la provenienza geografica, il 42,6% arriva dall’Europa e il 38,4% dall’Asia. ma in termini assoluti la nazionalità più rappresentata è quella cinese con 2.017 studenti, seguita dall’Iran (876 studenti), dall’India (752 studenti) e dalla Svizzera (751 studenti).

Cosa attrae tanti studenti stranieri? Rispetto agli universitari lombardi, gli studenti internazionali scelgono più frequentemente corsi Stem (50,1% contro 40%) e, in misura ancora maggiore, corsi di arte e design (6,1% contro 1,4%). Un risultato probabilmente legato anche al prestigio del made in Italy e all’elevata reputazione internazionale di Milano nel settore del design e creativo. Cresce poi il numero di studenti coinvolti in programmi di mobilità. Rispetto all’anno 2015 – 2016, sono 17.820 in totale (+5,3%), di cui 10.737 sono italiani in uscita (+0,6%) e 7.083 sono stranieri in entrata (+13,2%). Dallo studio emerge, infine, come le università lombarde e in particolare quelle milanesi, se confrontate con il resto degli atenei italiani, si distinguano per il numero di corsi offerti in lingua inglese: rispettivamente il 24,2% e il 28,7% del totale contro il 16,3% italiani.

Milano attrattiva per la forza della sua “cultura politecnica”, dunque. E città aperta, dinamica, coinvolgente. Una dimensione urbana, economica e sociale su cui insistere, proprio in termini di vitalità della metropoli e della regione.  Guardiamo bene una coppia di dati: i 22mila che partono dalla Lombardia, i 13 mila studenti che arrivano. Uno scambio virtuoso di conoscenze, culture, attitudini, stili di vita, sguardi sul mondo. Un capitale umano e un capitale sociale che si rinnovano continuamente. Un’indicazioine positiva per il nostro futuro.

Fotografare la velocità: gli scatti rubati in pista

La rubrica “Storie dal mondo Pirelli” si è a suo tempo occupata dei fotoreporter di corse ciclistiche: l’arte di cogliere la fatica. Oggi parliamo di fotoreporter e di corse automobilistiche: l’arte di cogliere la velocità. Uno dei primi reportage per immagini di una competizione auto fu quello realizzato nel 1907 durante il raid Pechino-Parigi: un servizio fotografico a più mani, prodotto di volta in volta, di città in città, da fotografi locali quando non dagli stessi membri del team italiano a bordo della Itala. E’ dell’agenzia parigina Branger la foto iconica dell’arrivo vincente alla Porte de Joinville: diventerà una cartolina-ricordo da vendere agli appassionati. Nei ruggenti anni Venti, dovunque ci sia una gara c’è un uomo dell’agenzia Strazza Photo Reportage munito di macchina fotografica: nei nostri racconti l’abbiamo già “visto in azione” per le corse ciclistiche, lo ritroviamo naturalmente anche sui più famosi circuiti automobilistici. Come l’autodromo di Monza, appena inaugurato per il Gran Premio d’Italia 1923, dove l’obiettivo dell’agenzia Strazza inquadra il pilota americano Jimmy Murphy al volante della Miller su cui è stato appena pennellato il numero 5. Ma di Strazza “automobilistico” vogliamo soprattutto ricordare la famosissima foto del 1925, quando, sempre a Monza, il pilota Gastone Brilli-Peri viene immortalato mentre sfreccia verso la vittoria del Grand Prix d’Italia e del Campionato Mondiale: sullo sfondo, una fila di cartelloni pubblicitari “Gomme Pirelli”.

Un altro fotografo di cui abbiamo già parlato a proposito di corse velo è l’ex ciclista Lauro Bordin. Ma anche Bordin, armato di obiettivo, ha realizzato diversi reportage sui circuiti automobilistici: alla partenza del Circuito di Milano del 1936, per esempio. Il pilota ritratto è Omobono Tenni, motociclista “prestato” all’automobilismo come spesso accadeva ai tempi: lo dimostra la celebre carriera “su due e quattro ruote” di Tazio Nuvolari. Inarrivabile in moto, Tenni uscì però di strada con la sua Maserati già al settimo giro.

Ferruccio Testi  è un fotoamatore di Modena e non a caso il protagonista di tanti suoi scatti è il modenese più noto al mondo: Enzo Ferrari. Nel 1931 Testi lo immortala con il ciclista Costante Girardengo, per l’occasione in macchina; poi di nuovo il patron della Squadra Corse Alfa Romeo è ritratto nel 1932  – visibilmente soddisfatto sotto lo striscione “Pirelli Stella Bianca” – insieme a Vittorio Jano, progettista dell’Alfa, e ancora  nel 1933 Ferrari sorride all’obiettivo di Testi  nel “giuramento di eterna fedeltà” con i piloti Nuvolari e Mario Umberto Baconin Borzacchini nel bosco di San Damaso.

L’immediato Dopoguerra, con i suoi anni di prepotente rinascita dei motori, è spesso firmato dal fotografo Corrado Millanta. Toscano di Pontremoli trasferitosi giovanissimo a Milano, Millanta mette il suo timbro su decine e decine delle fotografie conservate nel nostro Archivio storico. E’ il 1948 e si intuisce una rinnovata passione per la velocità dietro gli occhialoni di Bruno Sterzi al Circuito di Vercelli, o nel controsterzo di Felice Bonetto con la Cisitalia a Mantova, o ancora nella silhouette filante della Ferrari di Besana al Circuito delle Cascine. Magnifica anche la veduta dall’alto dove Millanta coglie l’inclinazione del pilota della Osca n° 52 al Circuito del Tigullio. E’ il 1949: l’anno successivo sarebbe nata la Formula 1. Un’altra storia da raccontare.

La rubrica “Storie dal mondo Pirelli” si è a suo tempo occupata dei fotoreporter di corse ciclistiche: l’arte di cogliere la fatica. Oggi parliamo di fotoreporter e di corse automobilistiche: l’arte di cogliere la velocità. Uno dei primi reportage per immagini di una competizione auto fu quello realizzato nel 1907 durante il raid Pechino-Parigi: un servizio fotografico a più mani, prodotto di volta in volta, di città in città, da fotografi locali quando non dagli stessi membri del team italiano a bordo della Itala. E’ dell’agenzia parigina Branger la foto iconica dell’arrivo vincente alla Porte de Joinville: diventerà una cartolina-ricordo da vendere agli appassionati. Nei ruggenti anni Venti, dovunque ci sia una gara c’è un uomo dell’agenzia Strazza Photo Reportage munito di macchina fotografica: nei nostri racconti l’abbiamo già “visto in azione” per le corse ciclistiche, lo ritroviamo naturalmente anche sui più famosi circuiti automobilistici. Come l’autodromo di Monza, appena inaugurato per il Gran Premio d’Italia 1923, dove l’obiettivo dell’agenzia Strazza inquadra il pilota americano Jimmy Murphy al volante della Miller su cui è stato appena pennellato il numero 5. Ma di Strazza “automobilistico” vogliamo soprattutto ricordare la famosissima foto del 1925, quando, sempre a Monza, il pilota Gastone Brilli-Peri viene immortalato mentre sfreccia verso la vittoria del Grand Prix d’Italia e del Campionato Mondiale: sullo sfondo, una fila di cartelloni pubblicitari “Gomme Pirelli”.

Un altro fotografo di cui abbiamo già parlato a proposito di corse velo è l’ex ciclista Lauro Bordin. Ma anche Bordin, armato di obiettivo, ha realizzato diversi reportage sui circuiti automobilistici: alla partenza del Circuito di Milano del 1936, per esempio. Il pilota ritratto è Omobono Tenni, motociclista “prestato” all’automobilismo come spesso accadeva ai tempi: lo dimostra la celebre carriera “su due e quattro ruote” di Tazio Nuvolari. Inarrivabile in moto, Tenni uscì però di strada con la sua Maserati già al settimo giro.

Ferruccio Testi  è un fotoamatore di Modena e non a caso il protagonista di tanti suoi scatti è il modenese più noto al mondo: Enzo Ferrari. Nel 1931 Testi lo immortala con il ciclista Costante Girardengo, per l’occasione in macchina; poi di nuovo il patron della Squadra Corse Alfa Romeo è ritratto nel 1932  – visibilmente soddisfatto sotto lo striscione “Pirelli Stella Bianca” – insieme a Vittorio Jano, progettista dell’Alfa, e ancora  nel 1933 Ferrari sorride all’obiettivo di Testi  nel “giuramento di eterna fedeltà” con i piloti Nuvolari e Mario Umberto Baconin Borzacchini nel bosco di San Damaso.

L’immediato Dopoguerra, con i suoi anni di prepotente rinascita dei motori, è spesso firmato dal fotografo Corrado Millanta. Toscano di Pontremoli trasferitosi giovanissimo a Milano, Millanta mette il suo timbro su decine e decine delle fotografie conservate nel nostro Archivio storico. E’ il 1948 e si intuisce una rinnovata passione per la velocità dietro gli occhialoni di Bruno Sterzi al Circuito di Vercelli, o nel controsterzo di Felice Bonetto con la Cisitalia a Mantova, o ancora nella silhouette filante della Ferrari di Besana al Circuito delle Cascine. Magnifica anche la veduta dall’alto dove Millanta coglie l’inclinazione del pilota della Osca n° 52 al Circuito del Tigullio. E’ il 1949: l’anno successivo sarebbe nata la Formula 1. Un’altra storia da raccontare.

L’allarme delle imprese sui rischi per lavoro e sviluppo e le parole di Mattarella all’Assolombarda: responsabilità

Mestiere di chi fa politica e governa è cercare di cambiare i numeri delle cose che non vanno. Non negandoli o falsificandoli, naturalmente. Ma lavorando (con scelte, riforme, atti amministrativi, accordi, trattati) per costruire nuovi equilibri, migliori condizioni di sviluppo economico, di lavoro e di vita. Per farlo, però, è necessario conoscerli, i numeri, i dati (i bilanci, gli indici, le statistiche) che dicono come stanno le cose. Altrimenti il governante demagogo e incurante va a sbattere contro “la realtà testarda dei numeri”, come sottolinea giustamente Francesco Giavazzi, un competente economista, sulla prima pagina del Corriere della Sera (20 ottobre).

Quali numeri? Quelli che hanno portato al downgrade di Moody’s sul nostro debito pubblico a Baa3, appena un gradino sopra il livello dei “titoli spazzatura” (“un deficit molto più elevato rispetto alle attese” e previsioni di crescita fatte dal governo per il 2019, l’1,5% del Pil, su cui è basata la manovra, troppo “ottimistiche” e cioè poco credibili; il nostro debito in rapporto al Pil dunque non si ridurrà ma crescerà). Lo spread in crescita, ben oltre i 330 punti base, con timori che tocchi 400 (il che vuol dire denaro più caro per finanziare i 400 miliardi annui di titoli pubblici, perché come debitori siamo poco credibili e il premio al rischio di prestarci soldi aumenta). Quel 2,4% di rapporto tra deficit e Pil (legato a programmi di spesa pubblica corrente per reddito di cittadinanza e pensioni) che la Ue ritiene fuori dalle regole e dagli equilibri finanziari. I 67 miliardi di capitali investiti in Btp che da maggio ad agosto sono andati via dall’Italia perché gli investitori internazionali non si fidano d’una Italia governata confusamente dai “gialloverdi” (e l’emorragia finanziaria continua. Il rallentamento dell’economia, calcolato da Istati, Fmi, Confindustria e Confcommercio: l’1% appena del Pil, forse peggio ancora lo 0,9, altro che l’1,5 “ottimista” del governo.

Preferiamo i cittadini ai “numerini”, la felicità del popolo alle valutazioni dei “signori dello spread”, i diritti dei poveri ai giudizi del “mercato” e dei “poteri forti”, dicono i demagoghi al governo. Ma i “numerini” sono i nostri redditi e i nostri risparmi, i posti di lavoro che le imprese non potranno più creare perché prevale l’incertezza delle regole su mercato del lavoro, fisco (i condoni hanno nel medio periodo un effetto devastante sul comportamento e le aspettative delle imprese oneste e in regola con le tasse), esportazioni (minacciate da tentazioni protezioniste, visto che sono orientate all’export e ai mercati aperti). I “numerini” sono i mutui che costeranno di più alle famiglie e i crediti più difficili da ottenere e più costosi che aggraveranno i bilanci delle imprese (“Credit crunch e rialzo dei tassi, doppia scure per le imprese”, ha titolato domenica 21 ottobre, conti alla mano, un quotidiano che sa lavorare bene con i numeri, “Il Sole24Ore”). I “numerini” sono i tagli ai finanziamenti e ai sostegni fiscali per le imprese che, con l’evoluzione digitale e “Industria4.0” hanno investito, innovato e creato ricchezza e lavoro. I “numerini” sono i soldi che nella manovra non ci sono per finanziare ricerca, innovazione, scuola, formazione scientifica e tecnologica, brevetti, “start up” dei giovani che, da imprenditori, vogliono creare futuro, ricchezza, lavoro e uscire così dalle secche di una generazione impoverita e smarrita. I “numerini” sono il blocco delle opere pubbliche già avviate. Come denuncia bene Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo, una delle imprese di costruzione italiane più apprezzate nel mondo (ha appena vinto un appalto da 700 milioni per la Grand Paris Express, un nuovo sistema di trasporti della capitale francese): “I ritardi decisionali del governo sulle opere in portafoglio in Italia pregiudicano 5mila assunzioni e 800 milioni di fatturato”.

Hanno dunque perfettamente ragione le imprese a esprimere la loro seria preoccupazione per l’andamento della situazione economica, i programmi di governo, le sfide temerarie con l’Europa. “Rischiamo un futuro spazzatura”, ha sostenuto Alessio Rossi, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, sabato 20, al convegno annuale dell’associazione a Capri. “No a uno Stato padre e madre” che investe sull’assistenzialismo e non sulla competitività, sui sussidi e non sul lavoro e sulle infrastrutture, ha detto giovedì 18 Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, all’assemblea annuale della maggiore organizzazione territoriale di Confindustria, 6mila imprese iscritte, in gran parte piccole e medie, quasi tutte molto innovative e internazionali. E contro una politica di governo che blocca opere pubbliche, rallenta l’export con tentazioni protezioniste, non investe se non in redditi senza lavoro e pensioni anticipate (e quasi tutto a debito, poi), compromette il ruolo dell’Italia in Europa e mina la tenuta della moneta comune, l’euro (salvo rassicurare a parole di non volerne uscire) si stanno pronunciando gli imprenditori del Lazio e del Veneto, del Piemonte e dell’Emilia, di importanti gruppi di settore: tutto quel “partito del Pil” che il governo tiene in scarsissimo conto, seguendo l’ideologia, soprattutto “grillina” che considera “le imprese” contrapposte al “popolo”: sociologia rozza, demagogica, rischiosa.

Le imprese non sono l’opposizione, non tifano per il governo o per i suoi avversari politici. Ma sanno leggere bene la realtà che hanno di fronte, conoscono il valore del mercato e i valori delle persone e del territori. E sono giustamente in allarme. La loro voce è quella dell’Italia attiva, delle forze di cambiamento reale che in tante altre occasioni hanno determinato un migliore destino del Paese: dalla Ricostruzione dopo il disastro della guerra e del fascismo (ha ragione Aldo Cazzullo quando, nelle pagine di “Non avremo più fame”, il suo ultimo libro per Mondadori, sostiene che bisogna usare la R maiuscola, come per Risorgimento e per Resistenza) al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, dalla lotta al terrorismo per superare “gli anni di piombo” all’impegno per riemergere dalla gravissima crisi dei primi anni Novanta, legandosi alla Ue e all’euro.

Una voce, dunque, da ascoltare, con attenzione e rispetto.

All’assemblea di Assolombarda, grandi applausi sono stati indirizzati dagli imprenditori presenti allo Scala, in un affollatissimo teatro, al messaggio inviato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un’istituzione cui gli imprenditori guardano in termini di fiducia, valori, garanzie democratiche. Un messaggio tutt’altro che rituale, da leggere e rileggere con attenzione. Eccolo, cominciano dall’apprezzamento del Quirinale per Milano: “Milano e la Lombardia sono espressione di un modello caratterizzato dall’interazione virtuosa tra manifattura, servizi, istituti di ricerca e università, con risultati pregevoli in termini di innovazione, attrazione di talenti, creatività”. E sono “portatori del desiderio di un futuro migliore, basato su senso di responsabilità, maturità da parte della società civile, delle istituzioni, delle imprese”. C’è insomma “un sentimento profondo di comunità al quale non è estraneo, bensì protagonista, il mondo delle imprese”.

All’azione di questo mondo, ricorda il presidente Mattarella, “è dovuta in larga misura la capacità di creare connessioni, facendo crescere internazionalizzazione, integrazione tra sistemi produttivi, qualità della vita”.

Milano e le imprese, dunque, come motore di sviluppo. Ma anche come attori sociali positivi, in condizioni di crisi. Sostiene Mattarella: “Le aree metropolitane sono oggi grandi motori di sviluppo, oppure luoghi di emarginazione, di disagio. Visitando recentemente eccellenze di questi territori, a Milano e a Monza, ho avuto conferma di come la Lombardia e milano abbiano saputo essere, su molti terreni, luoghi fondamentali di guida, orientamento, approfondimento”. Perché? “Si tratta della valorizzazione di quel senso e di quelle virtù civiche che sanno creare autentica interdipendenza, unendo tra loro le risorse messe in campo dalle imprese con le finalità generali del Paese”.

Sostiene ancora il presidente della Repubblica, contro chiusure e protezionismi, altri temi cari al mondo delle imprese: “La qualità delle aziende italiane e la loro abilità di affermarsi sui mercati internazionali inserendosi nelle catene del valore globale prospera solo in un mondo aperto e integrato. Il rallentamento del ciclo del commercio internazionale, i segnali di ulteriori tensioni e misure protezionistiche rischiano di pesare sulla fiducia”.

Che fare?  “È indispensabile uno sforzo condiviso per dimostrare la capacità del nostro Paese di affrontare le sfide. Servono un dialogo costruttivo e un alto senso di responsabilità, da parte della politica, delle istituzioni, delle imprese, delle associazioni e della società civile, per scelte consapevoli con una visione di lungo termine nell’interesse collettivo”.

Un messaggio denso di indicazioni, dunque. Visioni di lungo termine sono appunto quelle che guidano le imprese. Interesse collettivo, il punto di riferimento. Per riprendere l’idea di partenza, bisogna conoscere bene i numeri da cambiare. Senza dare i numeri.

Mestiere di chi fa politica e governa è cercare di cambiare i numeri delle cose che non vanno. Non negandoli o falsificandoli, naturalmente. Ma lavorando (con scelte, riforme, atti amministrativi, accordi, trattati) per costruire nuovi equilibri, migliori condizioni di sviluppo economico, di lavoro e di vita. Per farlo, però, è necessario conoscerli, i numeri, i dati (i bilanci, gli indici, le statistiche) che dicono come stanno le cose. Altrimenti il governante demagogo e incurante va a sbattere contro “la realtà testarda dei numeri”, come sottolinea giustamente Francesco Giavazzi, un competente economista, sulla prima pagina del Corriere della Sera (20 ottobre).

Quali numeri? Quelli che hanno portato al downgrade di Moody’s sul nostro debito pubblico a Baa3, appena un gradino sopra il livello dei “titoli spazzatura” (“un deficit molto più elevato rispetto alle attese” e previsioni di crescita fatte dal governo per il 2019, l’1,5% del Pil, su cui è basata la manovra, troppo “ottimistiche” e cioè poco credibili; il nostro debito in rapporto al Pil dunque non si ridurrà ma crescerà). Lo spread in crescita, ben oltre i 330 punti base, con timori che tocchi 400 (il che vuol dire denaro più caro per finanziare i 400 miliardi annui di titoli pubblici, perché come debitori siamo poco credibili e il premio al rischio di prestarci soldi aumenta). Quel 2,4% di rapporto tra deficit e Pil (legato a programmi di spesa pubblica corrente per reddito di cittadinanza e pensioni) che la Ue ritiene fuori dalle regole e dagli equilibri finanziari. I 67 miliardi di capitali investiti in Btp che da maggio ad agosto sono andati via dall’Italia perché gli investitori internazionali non si fidano d’una Italia governata confusamente dai “gialloverdi” (e l’emorragia finanziaria continua. Il rallentamento dell’economia, calcolato da Istati, Fmi, Confindustria e Confcommercio: l’1% appena del Pil, forse peggio ancora lo 0,9, altro che l’1,5 “ottimista” del governo.

Preferiamo i cittadini ai “numerini”, la felicità del popolo alle valutazioni dei “signori dello spread”, i diritti dei poveri ai giudizi del “mercato” e dei “poteri forti”, dicono i demagoghi al governo. Ma i “numerini” sono i nostri redditi e i nostri risparmi, i posti di lavoro che le imprese non potranno più creare perché prevale l’incertezza delle regole su mercato del lavoro, fisco (i condoni hanno nel medio periodo un effetto devastante sul comportamento e le aspettative delle imprese oneste e in regola con le tasse), esportazioni (minacciate da tentazioni protezioniste, visto che sono orientate all’export e ai mercati aperti). I “numerini” sono i mutui che costeranno di più alle famiglie e i crediti più difficili da ottenere e più costosi che aggraveranno i bilanci delle imprese (“Credit crunch e rialzo dei tassi, doppia scure per le imprese”, ha titolato domenica 21 ottobre, conti alla mano, un quotidiano che sa lavorare bene con i numeri, “Il Sole24Ore”). I “numerini” sono i tagli ai finanziamenti e ai sostegni fiscali per le imprese che, con l’evoluzione digitale e “Industria4.0” hanno investito, innovato e creato ricchezza e lavoro. I “numerini” sono i soldi che nella manovra non ci sono per finanziare ricerca, innovazione, scuola, formazione scientifica e tecnologica, brevetti, “start up” dei giovani che, da imprenditori, vogliono creare futuro, ricchezza, lavoro e uscire così dalle secche di una generazione impoverita e smarrita. I “numerini” sono il blocco delle opere pubbliche già avviate. Come denuncia bene Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo, una delle imprese di costruzione italiane più apprezzate nel mondo (ha appena vinto un appalto da 700 milioni per la Grand Paris Express, un nuovo sistema di trasporti della capitale francese): “I ritardi decisionali del governo sulle opere in portafoglio in Italia pregiudicano 5mila assunzioni e 800 milioni di fatturato”.

Hanno dunque perfettamente ragione le imprese a esprimere la loro seria preoccupazione per l’andamento della situazione economica, i programmi di governo, le sfide temerarie con l’Europa. “Rischiamo un futuro spazzatura”, ha sostenuto Alessio Rossi, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, sabato 20, al convegno annuale dell’associazione a Capri. “No a uno Stato padre e madre” che investe sull’assistenzialismo e non sulla competitività, sui sussidi e non sul lavoro e sulle infrastrutture, ha detto giovedì 18 Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, all’assemblea annuale della maggiore organizzazione territoriale di Confindustria, 6mila imprese iscritte, in gran parte piccole e medie, quasi tutte molto innovative e internazionali. E contro una politica di governo che blocca opere pubbliche, rallenta l’export con tentazioni protezioniste, non investe se non in redditi senza lavoro e pensioni anticipate (e quasi tutto a debito, poi), compromette il ruolo dell’Italia in Europa e mina la tenuta della moneta comune, l’euro (salvo rassicurare a parole di non volerne uscire) si stanno pronunciando gli imprenditori del Lazio e del Veneto, del Piemonte e dell’Emilia, di importanti gruppi di settore: tutto quel “partito del Pil” che il governo tiene in scarsissimo conto, seguendo l’ideologia, soprattutto “grillina” che considera “le imprese” contrapposte al “popolo”: sociologia rozza, demagogica, rischiosa.

Le imprese non sono l’opposizione, non tifano per il governo o per i suoi avversari politici. Ma sanno leggere bene la realtà che hanno di fronte, conoscono il valore del mercato e i valori delle persone e del territori. E sono giustamente in allarme. La loro voce è quella dell’Italia attiva, delle forze di cambiamento reale che in tante altre occasioni hanno determinato un migliore destino del Paese: dalla Ricostruzione dopo il disastro della guerra e del fascismo (ha ragione Aldo Cazzullo quando, nelle pagine di “Non avremo più fame”, il suo ultimo libro per Mondadori, sostiene che bisogna usare la R maiuscola, come per Risorgimento e per Resistenza) al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, dalla lotta al terrorismo per superare “gli anni di piombo” all’impegno per riemergere dalla gravissima crisi dei primi anni Novanta, legandosi alla Ue e all’euro.

Una voce, dunque, da ascoltare, con attenzione e rispetto.

All’assemblea di Assolombarda, grandi applausi sono stati indirizzati dagli imprenditori presenti allo Scala, in un affollatissimo teatro, al messaggio inviato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un’istituzione cui gli imprenditori guardano in termini di fiducia, valori, garanzie democratiche. Un messaggio tutt’altro che rituale, da leggere e rileggere con attenzione. Eccolo, cominciano dall’apprezzamento del Quirinale per Milano: “Milano e la Lombardia sono espressione di un modello caratterizzato dall’interazione virtuosa tra manifattura, servizi, istituti di ricerca e università, con risultati pregevoli in termini di innovazione, attrazione di talenti, creatività”. E sono “portatori del desiderio di un futuro migliore, basato su senso di responsabilità, maturità da parte della società civile, delle istituzioni, delle imprese”. C’è insomma “un sentimento profondo di comunità al quale non è estraneo, bensì protagonista, il mondo delle imprese”.

All’azione di questo mondo, ricorda il presidente Mattarella, “è dovuta in larga misura la capacità di creare connessioni, facendo crescere internazionalizzazione, integrazione tra sistemi produttivi, qualità della vita”.

Milano e le imprese, dunque, come motore di sviluppo. Ma anche come attori sociali positivi, in condizioni di crisi. Sostiene Mattarella: “Le aree metropolitane sono oggi grandi motori di sviluppo, oppure luoghi di emarginazione, di disagio. Visitando recentemente eccellenze di questi territori, a Milano e a Monza, ho avuto conferma di come la Lombardia e milano abbiano saputo essere, su molti terreni, luoghi fondamentali di guida, orientamento, approfondimento”. Perché? “Si tratta della valorizzazione di quel senso e di quelle virtù civiche che sanno creare autentica interdipendenza, unendo tra loro le risorse messe in campo dalle imprese con le finalità generali del Paese”.

Sostiene ancora il presidente della Repubblica, contro chiusure e protezionismi, altri temi cari al mondo delle imprese: “La qualità delle aziende italiane e la loro abilità di affermarsi sui mercati internazionali inserendosi nelle catene del valore globale prospera solo in un mondo aperto e integrato. Il rallentamento del ciclo del commercio internazionale, i segnali di ulteriori tensioni e misure protezionistiche rischiano di pesare sulla fiducia”.

Che fare?  “È indispensabile uno sforzo condiviso per dimostrare la capacità del nostro Paese di affrontare le sfide. Servono un dialogo costruttivo e un alto senso di responsabilità, da parte della politica, delle istituzioni, delle imprese, delle associazioni e della società civile, per scelte consapevoli con una visione di lungo termine nell’interesse collettivo”.

Un messaggio denso di indicazioni, dunque. Visioni di lungo termine sono appunto quelle che guidano le imprese. Interesse collettivo, il punto di riferimento. Per riprendere l’idea di partenza, bisogna conoscere bene i numeri da cambiare. Senza dare i numeri.

La cultura del lavoro all’epoca di Industria 4.0

Un libro che è una sorta di antropologia dei nuovi modi di produrre sfata il mito distruttivo delle nuove tecnologie produttive

Non è vero che Industria 4.0 azzera il lavoro dell’uomo. E non è vero, d’altra parte, che tutto rimarrà come prima. Come già per la prima Rivoluzione industriale, e poi per le altre successive, la realtà sta in mezzo agli eccessi. Insomma, esauriti i dibattiti sul futuro (magari tenuti da chi nelle fabbriche e negli uffici c’è entrato poco), rimangono loro: le fabbriche e gli uffici appunto, e soprattutto le donne e gli uomini che vi lavorano e che si giocano un ruolo dentro una trasformazione digitale ormai visibile e consistente. Come al solito, per capire occorre esplorare la realtà. E’ quanto hanno fatto Annalisa Magone e Tatiana Mazali con “Il lavoro che serve. Persone nell’Industria 4.0”, loro ultima fatica letteraria e di ricerca appena pubblicata.

Il libro restituisce uno spaccato della realtà di Industria 4.0 raccontando la vicenda di quelle imprese che stanno interpretando questa trasformazione con tutte le sue contraddittorie manifestazioni, in termini di cultura manageriale, sviluppo organizzativo, scelte tecnologiche, ruolo dei lavoratori, modelli regolativi, percezioni dei sindacati. Fabbriche vere, quindi, e non di carta. Fabbriche che hanno accolto soluzioni tecnologiche innovative e che si trovano tra le mani il problema di saperle gestire; e anche persone (pure loro vere e non di carta), che hanno capito che la “macchina 4.0” serve, ma da sola non basta.

Realtà, si è detto. Il libro quindi si dipana attraverso storie vere di fabbriche e lavoratori cercati, trovati e intervistati in un determinato momento storico (settembre 2017 e giugno 2018). Annotazione di non poco conto, perché l’esperienza di Industria 4.0 e del lavoro collegato che non muore, cambia di giorno in giorno, con la sua stessa evoluzione.

Per scrivere il libro sono state così intervistate 131 persone in 11 regioni italiane, per un numero di ore che sfiora quota cento, percorrendo in lungo e in largo il paese in 26.000 chilometri di viaggi. Vera indagine sul campo, una sorta di ricerca antropologica alla vecchia maniera, la ricerca ha delineato un orizzonte variegato e ancora incerto, inevitabilmente esposto ad aggiustamenti e interpretazioni, anche contraddittorie. Perché così è d’altra parte la realtà: ben altro da quella “da manuale”.

Il libro coordinato da Magone e Mazali (divulgatrice la prima, sociologa dei processi culturali e comunicativi la seconda), è diviso in due parti; nella prima ci sono dieci storie di dieci persone che delineano altrettanti paradigmi di Industria 4.0; nella seconda è delineata prima la “grammatica digitale” e poi la “grammatica del lavoro” connesso alle trasformazioni in corso. Una ulteriore parte dà voce ad una serie di esperti settoriali. Chiude il tutto un’acuta postfazione di Guido Saracco, Rettore del Politecnico di Torino, della quale si capisce tutto dal titolo: “Ingegneri di nuova generazione”.

Il messaggio del libro è semplice: Industria 4.0 sta cambiando il modo di produrre come

un’onda lunga e graduale, ma la via italiana ha un dato certo: prima vengono le persone con le loro capacità di far camminare le imprese, ciascuna nel proprio ruolo.

Il lavoro che serve. Persone nell’Industria 4.0

Annalisa Magone, Tatiana Mazali

Guerini e Associati, 2018

Un libro che è una sorta di antropologia dei nuovi modi di produrre sfata il mito distruttivo delle nuove tecnologie produttive

Non è vero che Industria 4.0 azzera il lavoro dell’uomo. E non è vero, d’altra parte, che tutto rimarrà come prima. Come già per la prima Rivoluzione industriale, e poi per le altre successive, la realtà sta in mezzo agli eccessi. Insomma, esauriti i dibattiti sul futuro (magari tenuti da chi nelle fabbriche e negli uffici c’è entrato poco), rimangono loro: le fabbriche e gli uffici appunto, e soprattutto le donne e gli uomini che vi lavorano e che si giocano un ruolo dentro una trasformazione digitale ormai visibile e consistente. Come al solito, per capire occorre esplorare la realtà. E’ quanto hanno fatto Annalisa Magone e Tatiana Mazali con “Il lavoro che serve. Persone nell’Industria 4.0”, loro ultima fatica letteraria e di ricerca appena pubblicata.

Il libro restituisce uno spaccato della realtà di Industria 4.0 raccontando la vicenda di quelle imprese che stanno interpretando questa trasformazione con tutte le sue contraddittorie manifestazioni, in termini di cultura manageriale, sviluppo organizzativo, scelte tecnologiche, ruolo dei lavoratori, modelli regolativi, percezioni dei sindacati. Fabbriche vere, quindi, e non di carta. Fabbriche che hanno accolto soluzioni tecnologiche innovative e che si trovano tra le mani il problema di saperle gestire; e anche persone (pure loro vere e non di carta), che hanno capito che la “macchina 4.0” serve, ma da sola non basta.

Realtà, si è detto. Il libro quindi si dipana attraverso storie vere di fabbriche e lavoratori cercati, trovati e intervistati in un determinato momento storico (settembre 2017 e giugno 2018). Annotazione di non poco conto, perché l’esperienza di Industria 4.0 e del lavoro collegato che non muore, cambia di giorno in giorno, con la sua stessa evoluzione.

Per scrivere il libro sono state così intervistate 131 persone in 11 regioni italiane, per un numero di ore che sfiora quota cento, percorrendo in lungo e in largo il paese in 26.000 chilometri di viaggi. Vera indagine sul campo, una sorta di ricerca antropologica alla vecchia maniera, la ricerca ha delineato un orizzonte variegato e ancora incerto, inevitabilmente esposto ad aggiustamenti e interpretazioni, anche contraddittorie. Perché così è d’altra parte la realtà: ben altro da quella “da manuale”.

Il libro coordinato da Magone e Mazali (divulgatrice la prima, sociologa dei processi culturali e comunicativi la seconda), è diviso in due parti; nella prima ci sono dieci storie di dieci persone che delineano altrettanti paradigmi di Industria 4.0; nella seconda è delineata prima la “grammatica digitale” e poi la “grammatica del lavoro” connesso alle trasformazioni in corso. Una ulteriore parte dà voce ad una serie di esperti settoriali. Chiude il tutto un’acuta postfazione di Guido Saracco, Rettore del Politecnico di Torino, della quale si capisce tutto dal titolo: “Ingegneri di nuova generazione”.

Il messaggio del libro è semplice: Industria 4.0 sta cambiando il modo di produrre come

un’onda lunga e graduale, ma la via italiana ha un dato certo: prima vengono le persone con le loro capacità di far camminare le imprese, ciascuna nel proprio ruolo.

Il lavoro che serve. Persone nell’Industria 4.0

Annalisa Magone, Tatiana Mazali

Guerini e Associati, 2018

Maestri di cultura d’impresa

Una pubblicazione di Ca’ Foscari ricorda Gino Zappa e il suo contributo all’economia aziendale

La buona cultura d’impresa si fa anche attraverso buoni maestri. Imprenditori e manager, ma non solo. Impiegati e operai, naturalmente, e poi tecnici e funzionari. Ma non solo. Conta –  e non poco -, anche chi riesce a dare forma teorica alla pratica di fabbrica e d’ufficio. E’ il caso di Gino Zappa, indicato dai più come il “fondatore” dell’Economia aziendale. E con ragione.

Per capire di più e meglio di Zappa, e quindi per approfondire l’evoluzione dell’economia e della cultura d’impresa, è possibile adesso leggere “Gino Zappa: il fondatore dell’Economia aziendale”, un bel saggio scritto da Stefano Coronella e Lucrezia Santaniello (dell’Università degli Studi ‘Parthenope’ di Napoli, Italia) e recentemente apparso in una raccolta pubblicata da Ca’ Foscari.

In poche pagine di Zappa vengono ripercorse prima le tappe di vita, poi le più importanti pubblicazioni e infine viene fatto il punto sul suo contributo all’Economia d’azienda. Certo, Zappa vede l’azienda e l’impresa dal punto di vista economico e ragionieristico, ma, spiegano Coronella e Santaniello, riesce anche ad unire a queste due visioni quella organizzativa. A tutto questo, poi, Zappa riesce a dare una sintesi nell’evoluzione stessa della definizione di azienda, che viene ricordato del saggio di Ca’ Foscari. Nel periodo di massi maturazione dei suoi studi, Zappa definisce l’azienda come “un istituto economico atto a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione la produzione, o il procacciamento e il consumo della ricchezza”. Sistema complesso, dunque, che agisce per soddisfare i bisogni dell’uomo.

L’intervento di Coronella e Santaniello è una bella sintesi di una parte importante degli studi economici in Italia negli ultimi cento anni, ma anche e soprattutto una sintesi lucida di una visione d’azienda e d’impresa che ancora oggi – aggiornate -, possono dire molto.

Gino Zappa: il fondatore dell’Economia aziendale

Stefano Coronella, Lucrezia Santaniello

in “Le discipline economiche e aziendali nei 150 anni di storia di Ca’ Foscari”, a cura di Monica Billio, Stefano Coronella, Chiara Mio e Ugo Sostero, 2018, pagg. 161-182.

Una pubblicazione di Ca’ Foscari ricorda Gino Zappa e il suo contributo all’economia aziendale

La buona cultura d’impresa si fa anche attraverso buoni maestri. Imprenditori e manager, ma non solo. Impiegati e operai, naturalmente, e poi tecnici e funzionari. Ma non solo. Conta –  e non poco -, anche chi riesce a dare forma teorica alla pratica di fabbrica e d’ufficio. E’ il caso di Gino Zappa, indicato dai più come il “fondatore” dell’Economia aziendale. E con ragione.

Per capire di più e meglio di Zappa, e quindi per approfondire l’evoluzione dell’economia e della cultura d’impresa, è possibile adesso leggere “Gino Zappa: il fondatore dell’Economia aziendale”, un bel saggio scritto da Stefano Coronella e Lucrezia Santaniello (dell’Università degli Studi ‘Parthenope’ di Napoli, Italia) e recentemente apparso in una raccolta pubblicata da Ca’ Foscari.

In poche pagine di Zappa vengono ripercorse prima le tappe di vita, poi le più importanti pubblicazioni e infine viene fatto il punto sul suo contributo all’Economia d’azienda. Certo, Zappa vede l’azienda e l’impresa dal punto di vista economico e ragionieristico, ma, spiegano Coronella e Santaniello, riesce anche ad unire a queste due visioni quella organizzativa. A tutto questo, poi, Zappa riesce a dare una sintesi nell’evoluzione stessa della definizione di azienda, che viene ricordato del saggio di Ca’ Foscari. Nel periodo di massi maturazione dei suoi studi, Zappa definisce l’azienda come “un istituto economico atto a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione la produzione, o il procacciamento e il consumo della ricchezza”. Sistema complesso, dunque, che agisce per soddisfare i bisogni dell’uomo.

L’intervento di Coronella e Santaniello è una bella sintesi di una parte importante degli studi economici in Italia negli ultimi cento anni, ma anche e soprattutto una sintesi lucida di una visione d’azienda e d’impresa che ancora oggi – aggiornate -, possono dire molto.

Gino Zappa: il fondatore dell’Economia aziendale

Stefano Coronella, Lucrezia Santaniello

in “Le discipline economiche e aziendali nei 150 anni di storia di Ca’ Foscari”, a cura di Monica Billio, Stefano Coronella, Chiara Mio e Ugo Sostero, 2018, pagg. 161-182.

Gio Ponti e Pirelli: architettura e design nell’Italia del boom

Il primo stabilimento della Pirelli in via Fabio Filzi era stato pesantemente danneggiato dai bombardamenti dell’estate 1943. Nel clima di ricostruzione del dopoguerra l’azienda decise di realizzare una nuova sede amministrativa e le opzioni erano due: la sistemazione della sede di viale Abruzzi, dove gli uffici erano stati trasferiti in seguito ai bombardamenti, oppure la costruzione di un nuovo edificio nell’area della “Brusada”, tra via Fabio Filzi e piazza Duca d’Aosta. Nonostante i costi dell’opzione Brusada fossero maggiori, e la superficie a disposizione nettamente inferiore, altri fattori entrarono in gioco nella decisione. L’idea di Alberto Pirelli era quella di realizzare un edificio dalla forte “individualità” in un’area dal grande valore simbolico per l’azienda: dalle macerie dello storico stabilimento sarebbe sorta una torre che avrebbe superato in altezza qualunque altro edificio di Milano. Come raccontano le carte del nostro Archivio Storico, nel 1950 gli ingegneri pirelliani Alberti e Loria e il consulente Giuseppe Valtolina furono incaricati della fase preliminare del progetto e nel 1952 fu coinvolto anche l’architetto Gio Ponti.

La scelta aziendale di un nome di prestigio come quello di Ponti, conosciuto in Italia ma anche all’estero e già ideatore di importanti complessi direzionali come quelli per la società Montecatini, sempre a Milano, rientrava pienamente nel carattere fortemente promozionale che l’operazione assunse sin da subito. Il grattacielo, definito dal critico d’arte britannico Reyner Banham nel 1961 un perfetto esempio di “architettura pubblicitaria”, rappresentava infatti per l’azienda un potente veicolo di immagine di modernità, progresso, slancio verso il futuro, internazionalità e nello stesso tempo di profonda milanesità. Fu infatti oggetto di una campagna di comunicazione che per estensione e durata non aveva eguali “neanche per i più eminenti grattacieli di New York” – scrive sempre Banham. Lo dimostrano i diversi articoli usciti su “Edilizia Moderna”, “Domus”, la rivista “Pirelli” che hanno preceduto e accompagnato la costruzione dell’edificio, e i numerosi materiali pubblicitari “istituzionali” con l’immagine del grattacielo prodotti dalla Pirelli per tutti gli anni Sessanta. Nel 1953 agli studi Valtolina-Dell’Orto e Ponti-Fornaroli-Rosselli fu affidato l’incarico per la progettazione esecutiva, la direzione dei lavori e il collaudo dell’edificio. Il progetto definitivo maturerà a fine 1954: una torre in cemento armato di 127 metri e 31 piani, con una pianta larga al centro che si stringe gradualmente ai lati fin quasi a chiudersi nelle punte. Con l’intervento degli ingegneri Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, chiamati alla progettazione della struttura in cemento armato, il progetto si concluse nel 1956. Il 12 luglio 1956 venne posata ufficialmente la prima pietra del grattacielo: da allora la crescita dell’edificio, piano dopo piano, giorno dopo giorno, scandì nell’immaginario collettivo il ritmo dello sviluppo della Pirelli, di Milano, dell’intero Paese, negli anni del boom economico. Un cantiere straordinario, in cui furono adottate soluzioni mai sperimentate prima.

Tutte le fasi del cantiere, dalla demolizione della Brusada fino al completamento del grattacielo, sono documentate da oltre 230 immagini, pubblicate sul nostro sito. Oltre a Calcagni, fotografo della Direzione Propaganda Pirelli, gli scatti furono realizzati dall’agenzia Publifoto e da noti autori come Aldo Ballo e Giancarlo Scalfati. Da oggi altre fotografie si aggiungono -nell’archivio online- a quelle della costruzione: oltre 390 immagini dell’edificio completato e circa 800 immagini che documentano gli interni dell’edificio, i materiali utilizzati per i rivestimenti, gli arredi. Gli interni sono progettati da Gio Ponti “in relazione e continuità con l’architettura”, secondo un’identità di stile che deve coinvolgere tutti gli ambienti e tutte le componenti d’arredo, nella convinzione “democratica” che tutti gli “abitanti” dell’edificio, dal presidente dell’azienda agli impiegati, debbano vivere gli stessi spazi.

Il design di Ponti coinvolge così le pareti e i pavimenti, tutti rivestiti da gomma e linoleum Pirelli, le porte, gli ascensori, gli orologi, gli apparecchi per l’illuminazione. E i mobili naturalmente, curati soprattutto da Ponti e da Alberto Rosselli: dalle sedie Arflex ai tavoli prodotti dall’azienda Rima in due versioni, per impiegati (con piano in linoleum) e per dirigenti (con piano in legno). Il colore, al quale Ponti teneva particolarmente – come dimostra il suo articolo del 1952 per la rivista “Pirelli”, “Tutto al mondo deve essere coloratissimo” – è utilizzato come “correttivo alla monotonia e alla impersonalità degli spazi” nelle porte, rivestite in linoleum rosso, e nei pavimenti, in linoleum “fantastico” giallo e nero. I servizi fotografici, realizzati nel 1960 con l’edificio ancora pressochè vuoto, documentano atri, corridoi, uffici, sale riunioni, toilette, la mensa, il centro meccanografico, l’auditorium da 600 posti destinato ai congressi e alle manifestazioni del Centro Culturale Pirelli. Tra le foto pubblicate trovano spazio anche i servizi di due grandi fotografi, Gianfranco Corso ed Enzo Nocera, che ritraggono i dipendenti Pirelli nel grattacielo per le inchieste sul lavoro pubblicate tra il 1974 e il 1975 sull’house organ “Fatti e Notizie”. Splendidi reportage che ci permettono di “entrare” nella storia di un edificio che da sessant’anni caratterizza lo skyline della città di Milano.

Il primo stabilimento della Pirelli in via Fabio Filzi era stato pesantemente danneggiato dai bombardamenti dell’estate 1943. Nel clima di ricostruzione del dopoguerra l’azienda decise di realizzare una nuova sede amministrativa e le opzioni erano due: la sistemazione della sede di viale Abruzzi, dove gli uffici erano stati trasferiti in seguito ai bombardamenti, oppure la costruzione di un nuovo edificio nell’area della “Brusada”, tra via Fabio Filzi e piazza Duca d’Aosta. Nonostante i costi dell’opzione Brusada fossero maggiori, e la superficie a disposizione nettamente inferiore, altri fattori entrarono in gioco nella decisione. L’idea di Alberto Pirelli era quella di realizzare un edificio dalla forte “individualità” in un’area dal grande valore simbolico per l’azienda: dalle macerie dello storico stabilimento sarebbe sorta una torre che avrebbe superato in altezza qualunque altro edificio di Milano. Come raccontano le carte del nostro Archivio Storico, nel 1950 gli ingegneri pirelliani Alberti e Loria e il consulente Giuseppe Valtolina furono incaricati della fase preliminare del progetto e nel 1952 fu coinvolto anche l’architetto Gio Ponti.

La scelta aziendale di un nome di prestigio come quello di Ponti, conosciuto in Italia ma anche all’estero e già ideatore di importanti complessi direzionali come quelli per la società Montecatini, sempre a Milano, rientrava pienamente nel carattere fortemente promozionale che l’operazione assunse sin da subito. Il grattacielo, definito dal critico d’arte britannico Reyner Banham nel 1961 un perfetto esempio di “architettura pubblicitaria”, rappresentava infatti per l’azienda un potente veicolo di immagine di modernità, progresso, slancio verso il futuro, internazionalità e nello stesso tempo di profonda milanesità. Fu infatti oggetto di una campagna di comunicazione che per estensione e durata non aveva eguali “neanche per i più eminenti grattacieli di New York” – scrive sempre Banham. Lo dimostrano i diversi articoli usciti su “Edilizia Moderna”, “Domus”, la rivista “Pirelli” che hanno preceduto e accompagnato la costruzione dell’edificio, e i numerosi materiali pubblicitari “istituzionali” con l’immagine del grattacielo prodotti dalla Pirelli per tutti gli anni Sessanta. Nel 1953 agli studi Valtolina-Dell’Orto e Ponti-Fornaroli-Rosselli fu affidato l’incarico per la progettazione esecutiva, la direzione dei lavori e il collaudo dell’edificio. Il progetto definitivo maturerà a fine 1954: una torre in cemento armato di 127 metri e 31 piani, con una pianta larga al centro che si stringe gradualmente ai lati fin quasi a chiudersi nelle punte. Con l’intervento degli ingegneri Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso, chiamati alla progettazione della struttura in cemento armato, il progetto si concluse nel 1956. Il 12 luglio 1956 venne posata ufficialmente la prima pietra del grattacielo: da allora la crescita dell’edificio, piano dopo piano, giorno dopo giorno, scandì nell’immaginario collettivo il ritmo dello sviluppo della Pirelli, di Milano, dell’intero Paese, negli anni del boom economico. Un cantiere straordinario, in cui furono adottate soluzioni mai sperimentate prima.

Tutte le fasi del cantiere, dalla demolizione della Brusada fino al completamento del grattacielo, sono documentate da oltre 230 immagini, pubblicate sul nostro sito. Oltre a Calcagni, fotografo della Direzione Propaganda Pirelli, gli scatti furono realizzati dall’agenzia Publifoto e da noti autori come Aldo Ballo e Giancarlo Scalfati. Da oggi altre fotografie si aggiungono -nell’archivio online- a quelle della costruzione: oltre 390 immagini dell’edificio completato e circa 800 immagini che documentano gli interni dell’edificio, i materiali utilizzati per i rivestimenti, gli arredi. Gli interni sono progettati da Gio Ponti “in relazione e continuità con l’architettura”, secondo un’identità di stile che deve coinvolgere tutti gli ambienti e tutte le componenti d’arredo, nella convinzione “democratica” che tutti gli “abitanti” dell’edificio, dal presidente dell’azienda agli impiegati, debbano vivere gli stessi spazi.

Il design di Ponti coinvolge così le pareti e i pavimenti, tutti rivestiti da gomma e linoleum Pirelli, le porte, gli ascensori, gli orologi, gli apparecchi per l’illuminazione. E i mobili naturalmente, curati soprattutto da Ponti e da Alberto Rosselli: dalle sedie Arflex ai tavoli prodotti dall’azienda Rima in due versioni, per impiegati (con piano in linoleum) e per dirigenti (con piano in legno). Il colore, al quale Ponti teneva particolarmente – come dimostra il suo articolo del 1952 per la rivista “Pirelli”, “Tutto al mondo deve essere coloratissimo” – è utilizzato come “correttivo alla monotonia e alla impersonalità degli spazi” nelle porte, rivestite in linoleum rosso, e nei pavimenti, in linoleum “fantastico” giallo e nero. I servizi fotografici, realizzati nel 1960 con l’edificio ancora pressochè vuoto, documentano atri, corridoi, uffici, sale riunioni, toilette, la mensa, il centro meccanografico, l’auditorium da 600 posti destinato ai congressi e alle manifestazioni del Centro Culturale Pirelli. Tra le foto pubblicate trovano spazio anche i servizi di due grandi fotografi, Gianfranco Corso ed Enzo Nocera, che ritraggono i dipendenti Pirelli nel grattacielo per le inchieste sul lavoro pubblicate tra il 1974 e il 1975 sull’house organ “Fatti e Notizie”. Splendidi reportage che ci permettono di “entrare” nella storia di un edificio che da sessant’anni caratterizza lo skyline della città di Milano.

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Raccontare per immagini: i grandi fotografi della rivista Pirelli

Durante questo mese di ottobre dedicato al tema “Pirelli e la fotografia”, la rubrica Storia e storie dal mondo Pirelli si è occupata dei grandi reportage realizzati all’interno della fabbrica: scatti che rendono eterno l’atto del lavoro, fermano il moto delle macchine, nobilitano le mani dell’uomo. Spesso queste foto sono destinate alla rivista Pirelli, che dal 1948 al 1972 indaga più volte la relazione  tra l’uomo e il lavoro. E sulle pagine della stessa rivista, ai “reporter di fabbrica” si affiancano altri grandi fotografi che, in modi diversi, contribuiscono a questa narrazione per immagini dell’universo Pirelli.
Uno su tutti: Fulvio Roiter. Il maestro veneziano esordisce sulla  rivista Pirelli n° 6 del dicembre 1962: Non c’è mare nel porto di Mileto. Ad aprire il servizio, una magnifica veduta di Istanbul all’alba. Per la rivista, Roiter sarà sempre “a caccia” di paesi sconosciuti, intento a disegnare una mappa del mondo che anno dopo anno, numero dopo numero, copertina dopo copertina, andrà a costituire per Pirelli un immaginario di immenso valore. Con Roiter i lettori viaggeranno dalle verdissime foreste di alberi della gomma in Brasile a Teheran circondata dal deserto, dai templi maya messicani  ai vigneti di colore blu acceso di Madera.
Se ad affascinare Fulvio Roiter è lo spettacolo della natura, è invece la “cronaca della vita” a suscitare l’interesse di un altro grande fotografo che collabora con la rivista per tutto il corso degli anni Sessanta: Ugo Mulas. In bianco e nero rigoroso, davanti all’obiettivo del fotografo milanese “sfilano” silenziosi il minatore  del traforo del Monte Bianco, Don Zeno Saltini fondatore della comunità di Nomadelfia, i sensali con fazzoletto al collo e cappello di feltro al mercato dei cavalli, i bambini della scuola di Chiesa Rossa, le donne che sono “angeli senza focolare” perchè il lavoro non ammette distinzioni di genere. Insieme a loro ci sono giganti dell’arte come Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Fausto Melotti, Henry Moore, tra tele strappate, blocchi di marmo, bronzi accartocciati.
I reportage di Pepi Merisio, nato a Caravaggio nel  1931, evocano invece un’immaginario che rimanda a quello del regista Ermanno Olmi, suo coetaneo e conterraneo. I soggetti sono case di montagna e greggi di pecore, le lampare del Mar Ligure, i casali e i borghi lombardi. Chiudiamo questo tributo ai maestri della fotografia che hanno collaborato con la rivista Pirelli con Enzo Sellerio, di cui ricordiamo due servizi per il magazine pirelliano: “Il vulcano in fiore” del 1964 e “Deserto di tufo” del 1968. I reportage raccontano per immagini l’Etna, una “lotta col gigante è fatta di pazienza e di forza”e il terremoto del Belice dove “in una notte, le case le chiese, tutto è diventato un deserto di tufo immobile”. E dove ora regna  il silenzio.

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Durante questo mese di ottobre dedicato al tema “Pirelli e la fotografia”, la rubrica Storia e storie dal mondo Pirelli si è occupata dei grandi reportage realizzati all’interno della fabbrica: scatti che rendono eterno l’atto del lavoro, fermano il moto delle macchine, nobilitano le mani dell’uomo. Spesso queste foto sono destinate alla rivista Pirelli, che dal 1948 al 1972 indaga più volte la relazione  tra l’uomo e il lavoro. E sulle pagine della stessa rivista, ai “reporter di fabbrica” si affiancano altri grandi fotografi che, in modi diversi, contribuiscono a questa narrazione per immagini dell’universo Pirelli.
Uno su tutti: Fulvio Roiter. Il maestro veneziano esordisce sulla  rivista Pirelli n° 6 del dicembre 1962: Non c’è mare nel porto di Mileto. Ad aprire il servizio, una magnifica veduta di Istanbul all’alba. Per la rivista, Roiter sarà sempre “a caccia” di paesi sconosciuti, intento a disegnare una mappa del mondo che anno dopo anno, numero dopo numero, copertina dopo copertina, andrà a costituire per Pirelli un immaginario di immenso valore. Con Roiter i lettori viaggeranno dalle verdissime foreste di alberi della gomma in Brasile a Teheran circondata dal deserto, dai templi maya messicani  ai vigneti di colore blu acceso di Madera.
Se ad affascinare Fulvio Roiter è lo spettacolo della natura, è invece la “cronaca della vita” a suscitare l’interesse di un altro grande fotografo che collabora con la rivista per tutto il corso degli anni Sessanta: Ugo Mulas. In bianco e nero rigoroso, davanti all’obiettivo del fotografo milanese “sfilano” silenziosi il minatore  del traforo del Monte Bianco, Don Zeno Saltini fondatore della comunità di Nomadelfia, i sensali con fazzoletto al collo e cappello di feltro al mercato dei cavalli, i bambini della scuola di Chiesa Rossa, le donne che sono “angeli senza focolare” perchè il lavoro non ammette distinzioni di genere. Insieme a loro ci sono giganti dell’arte come Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Fausto Melotti, Henry Moore, tra tele strappate, blocchi di marmo, bronzi accartocciati.
I reportage di Pepi Merisio, nato a Caravaggio nel  1931, evocano invece un’immaginario che rimanda a quello del regista Ermanno Olmi, suo coetaneo e conterraneo. I soggetti sono case di montagna e greggi di pecore, le lampare del Mar Ligure, i casali e i borghi lombardi. Chiudiamo questo tributo ai maestri della fotografia che hanno collaborato con la rivista Pirelli con Enzo Sellerio, di cui ricordiamo due servizi per il magazine pirelliano: “Il vulcano in fiore” del 1964 e “Deserto di tufo” del 1968. I reportage raccontano per immagini l’Etna, una “lotta col gigante è fatta di pazienza e di forza”e il terremoto del Belice dove “in una notte, le case le chiese, tutto è diventato un deserto di tufo immobile”. E dove ora regna  il silenzio.

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