Raccontare Milano con i numeri di imprese, lavoro, scienza.
E pretendere buone politiche di sviluppo e inclusione sociale
Raccontare Milano con i numeri: lavoro, redditi, brevetti, imprese, università d’avanguardia. Ritratto suggestivo, per una metropoli di scienza e creatività, industria e commerci, lavoro e investimenti, tutte dimensioni che si traducono in numeri. Qui, dove giocano l’attenzione al Pil, la ricchezza prodotta, e l’inclusione sociale, le persone di cui ci si prende cura. E dove da sempre si respira un’aria concreta, pragmatica, poche parole, rigorosa attenzione ai fatti e ai dati. Una città riformista, ragionevole e severa, attenta ai sentimenti ma non melensa e lamentosa. Tutt’altro. Una città che adesso, forte del suo sviluppo economico di respiro internazionale e delle sue ribadite capacità di inclusione sociale, può rivendicare una politica seria attenta alla crescita, alla sostenibilità, alla solidarietà e può fare sentire la sua voce critica e propositiva a un governo che preferisce scelte assistenziali (reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, condoni fiscali, pensioni anzi-tempo) a politiche economiche sull’innovazione, la crescita di lungo periodo, la competitività (se ne parlerà molto giovedì 18, all’Assemblea di Assolombarda, 6mila imprese iscritte, l’associazione territoriale più grande e dinamica di Confindustria).
Che numeri, per Milano? Eccoli, alcuni. 153 miliardi di Pil, il 10% di quello italiano. Ed esportazioni per 41 miliardi, il 9% del totale Italia. 90 grandi imprese, con fatturato superiore a 1 miliardo: Monaco ne ha 61, Barcellona 39. E 4.224 multinazionali estere (un terzo di tutte quelle presenti in Italia) con 431mila dipendenti e 208 miliardi di fatturato.
Milano è otto università di grande prestigio, con Bocconi e Politecnico in posizioni di rilievo nei ranking internazionali. E 204 mila studenti universitari, 13mila dei quali stranieri, un numero in crescita. Il 30% delle lauree specialistiche in Bocconi e Politecnico sono di studenti arrivati dall’estero, che restano poi qui a lavorare o portano, nel mondo, il meglio della cultura politecnica italiana.
Milano e la Lombardia producono 1.424 brevetti, lo scorso anno, un terzo di quelli italiani. Il 20% di tutte le pubblicazioni scientifiche. 4,8 miliardi spesi in ricerca e sviluppo (il 21% del totale Italia).
Milano è città turistica, con 8,8 milioni di turisti stranieri nel 2017, più di Roma (7,7 milioni) e di Venezia. E’ tra le prime 15 metropoli del mondo (in cima alla classifica ci sono Bangkok, Londra, Parigi, Dubai) e tra le prime cinque in Europa. E può dunque vantare un altro primato, dopo quelli legati all’economia, alle università, alla scienza, all’arredamento e alla moda. La notizia arriva dal Global Destination Cities Index di Mastercard, che documenta pure che quei turisti lasciano in città 2,7 miliardi all’anno (alberghi, ristoranti, servizi, shopping). La previsione di crescita per il 2018 è del 4,36%, oltre dunque i 9 milioni.
Qual è il motore? Funziona ancora il traino di un grande evento globale come l’Expo 2015. E i media internazionali, di carta e sulla rete, continuano a parlare di Milano come “the place to be” (“New York Times”) e d’una eccellenza per affari, cibo e qualità della vita (il giudizio recente è di “The Wall Street Journal”). “Un modello virtuoso che unisce ricerca della bellezza e produttività intelligente”, commenta il “Corriere della Sera”.
Tali e tanti numeri sono lo sfondo dell’Assemblea di Assolombarda, in programma giovedì mattina in un luogo dalla grande forza simbolica: la Scala. E motivano la scelta del presidente dell’associazione Carlo Bonomi d’avere come punto di riferimento della sua relazione il ruolo degli imprenditori, attori sociali con sguardo lungo e pensiero generale, verso lo sviluppo di tutto il Paese. Un impegno forte pensando all’Europa, da difendere e cambiare. Una scelta di iniziative verso i ceti sociali più deboli, da coinvolgere e includere. Non un’assemblea di categoria. Ma un vero e proprio appuntamento con una forte rilevanza culturale e “politica”, non certo militante, da da indicazione di “policy”: progetti, programmi, riforme.
Quali? “Domus”, prestigiosa rivista milanese d’urbanistica, grandi firme e respiro internazionale, ha dedicato 36 pagine del suo ultimo numero alle “grandi trasformazioni di Milano”, parlando di “umanesimo industriale”, innovazione, metamorfosi urbane (a cominciare dall’area di Human Technopole, luogo d’eccellenza per formazione, ricerca e imprese hi tech), vocazioni metropolitane: scienze della vita, industria agro-alimentare trainata da originale food culture ed esportazioni globali, manifattura 4.0 e cambiamenti digital di industria e servizi, sintesi tra arte, cultura e design e finanza legata ai grani mercati internazionali e finalmente attenta (anche se ancora poco) alle start up. Sono tutte dimensioni in movimento, in cui il ruolo dell’impresa privata è fondamentale. Ma che chiedono buona politica. Non solo quella del Comune ben amministrato dal sindaco Beppe Sala, con una giunta capace di coniugare competitività e inclusività. Ma anche quella della Regione e e soprattutto quella del governo nazionale, guardando all’Europa. Tutti temi chiave dell’Assemblea di Assolombarda e già ribaditi, nei giorni scorsi, da un “DomusForum” su “The future of cities”. Un futuro difficile, in metropoli che sono “complesse e incomplete”, per usare la brillante sintesi di Saskia Sassen, famosa sociologa della Colombia University di New York.
Milano ha buone carte da giocare. I suoi cittadini hanno coscienza critica ma anche sguardo consapevole: una ricerca fatta per “Domus” dalla Nielsen ha confermato che il milanesi, per l’85%, sono sodisfatti della loro città, mediamente di più degli altri abitanti di Chicago, Londra e San Paolo, appena un gradino sotto la soddisfazione dei cinesi per Shanghai.
Milano in movimento, dunque. “La città che sale” ha pur sempre un’anima intraprendente e dinamica. E il suo carattere costante è appunto quello del cambiamento. Ancora adesso.
Milano crocevia di scambi e relazioni inclusive (“milanese è chi lavora a Milano”, sostenevano gli statuti medioevali), ha costruito “cultura politecnica” con Bramante e soprattutto Leonardo, nella stagione più fertile del Rinascimento, fra creatività artistica e sapienza tecnologica. Anticipando la modernità del Paese, è stata “città delle fabbriche” tra Ottocento e Novecento, mai company town d’unica dimensione culturale, come la Torino dell’auto, ma luogo di sinergie originali tra manifatture e finanza, centri di ricerca e università, con l’orgoglio del “fare” e l’acutezza critica del “raccontare” (non c’è artista di livello che non abbia fatto i conti con Milano). Il “paradigma Natta”, per ricordare il premio Nobel per la Chimica Giulio Natta (formazione milanese nei laboratori Pirelli e Montecatini, ricerca applicata da cui nasce un’eccellenza internazionale dell’industria italiana anni 60, la plastica), vale ancora oggi per indicare la sintesi tra scienza, tecnica e industria. Una dimensione cardine di Milano, appunto. Umanesimo industriale. Un patrimonio vitale, utilissimo proprio in una stagione che, varcato il confine del Duemila, pone nuove sfide di cambiamento tra digital e sharing economy.
La Grande Crisi esplosa a livello internazionale giusto dieci anni fa ha imposto un vero e proprio “cambio di paradigma” su produzione, consumo, mercati, servizi, culture della crescita letta secondo parametri non più solo quantitativi (il Pil) ma soprattutto qualitativi (il Bes, l’indice del benessere equo e sostenibile). E sono venuti in primo piano, per larghi settori dell’opinione pubblica e degli attori economici, i temi dell’etica dello sviluppo, dei migliori equilibri economici, della sostenibilità ambientale e sociale, della responsabilità delle imprese, in cerca, con una vera e propria “morale del tornio” (la qualità del lavoro ben fatto e la sicurezza di prodotti e meccanismi di produzione, in una relazione positiva con territori e stakeholders) di una rilegittimazione dell’impresa stessa e della cultura del mercato.
Una cultura dei valori, non solo del “valore per gli azionisti” in cui proprio Milano, per storia e attualità, ha molto da dire. Assolombarda, nella sua assemblea, ne rifletterà ancora una volta le inclinazioni. Economiche. Ed etiche.
“Lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico”, ha detto di recente Papa Francesco (intervista a “Il Sole24Ore”, 7 settembre), riprendendo i temi della sua enciclica “Laudato si’” sulla “cura della casa comune”, per lavoro e dignità, persona, sviluppo e giustizia sociale. Indicazioni importanti. Di cui proprio la cultura economica lombarda, tra impresa e “saper fare”, ha sempre dato importanti testimonianze (le parole del cardinal Martini e, oggi, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura su “fare impresa per creare valori” ne sono conferma).
Milano, dunque, attiva, inclusiva, solidale. Con sguardo lungo sulle mutazioni in corso. Metropoli smart segnata da “un elevato grado di integrazione nell’economica globale” tra le 50 Global Cities, secondo il “Globalization and World Cities Research Network”. In crescita, più che altrove nel paese (è sopra del 3,2% rispetto al Pil dell’inizio della Grande Crisi del 2008, mentre l’Italia è indietro del 4,4%). E forte d’una dimensione europea: nel raggio di 60 chilometri si produce il 25% dell’export italiano e altrettanto valore aggiunto manifatturiero.
Eccola, dunque, Milano al centro di un sistema di relazioni che, nella trasformazione digital dell’economia, tra robotica, big data e Internet of things, tengono insieme manifattura (il 29% del suo Pil), servizi hi tech, ricerca, formazione, cultura. E baricentro di industria, finanza ed “economia della conoscenza” in una “città infinita” che riguarda Piemonte, Lombardia, Emilia e Nord Est, cuore dinamico della migliore impresa europea. Un cuore attrattivo di talenti e capitali. L’innovazione ne è il motore. L’apertura culturale e creativa la caratteristica di fondo. Un buon futuro possibile.
Raccontare Milano con i numeri: lavoro, redditi, brevetti, imprese, università d’avanguardia. Ritratto suggestivo, per una metropoli di scienza e creatività, industria e commerci, lavoro e investimenti, tutte dimensioni che si traducono in numeri. Qui, dove giocano l’attenzione al Pil, la ricchezza prodotta, e l’inclusione sociale, le persone di cui ci si prende cura. E dove da sempre si respira un’aria concreta, pragmatica, poche parole, rigorosa attenzione ai fatti e ai dati. Una città riformista, ragionevole e severa, attenta ai sentimenti ma non melensa e lamentosa. Tutt’altro. Una città che adesso, forte del suo sviluppo economico di respiro internazionale e delle sue ribadite capacità di inclusione sociale, può rivendicare una politica seria attenta alla crescita, alla sostenibilità, alla solidarietà e può fare sentire la sua voce critica e propositiva a un governo che preferisce scelte assistenziali (reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, condoni fiscali, pensioni anzi-tempo) a politiche economiche sull’innovazione, la crescita di lungo periodo, la competitività (se ne parlerà molto giovedì 18, all’Assemblea di Assolombarda, 6mila imprese iscritte, l’associazione territoriale più grande e dinamica di Confindustria).
Che numeri, per Milano? Eccoli, alcuni. 153 miliardi di Pil, il 10% di quello italiano. Ed esportazioni per 41 miliardi, il 9% del totale Italia. 90 grandi imprese, con fatturato superiore a 1 miliardo: Monaco ne ha 61, Barcellona 39. E 4.224 multinazionali estere (un terzo di tutte quelle presenti in Italia) con 431mila dipendenti e 208 miliardi di fatturato.
Milano è otto università di grande prestigio, con Bocconi e Politecnico in posizioni di rilievo nei ranking internazionali. E 204 mila studenti universitari, 13mila dei quali stranieri, un numero in crescita. Il 30% delle lauree specialistiche in Bocconi e Politecnico sono di studenti arrivati dall’estero, che restano poi qui a lavorare o portano, nel mondo, il meglio della cultura politecnica italiana.
Milano e la Lombardia producono 1.424 brevetti, lo scorso anno, un terzo di quelli italiani. Il 20% di tutte le pubblicazioni scientifiche. 4,8 miliardi spesi in ricerca e sviluppo (il 21% del totale Italia).
Milano è città turistica, con 8,8 milioni di turisti stranieri nel 2017, più di Roma (7,7 milioni) e di Venezia. E’ tra le prime 15 metropoli del mondo (in cima alla classifica ci sono Bangkok, Londra, Parigi, Dubai) e tra le prime cinque in Europa. E può dunque vantare un altro primato, dopo quelli legati all’economia, alle università, alla scienza, all’arredamento e alla moda. La notizia arriva dal Global Destination Cities Index di Mastercard, che documenta pure che quei turisti lasciano in città 2,7 miliardi all’anno (alberghi, ristoranti, servizi, shopping). La previsione di crescita per il 2018 è del 4,36%, oltre dunque i 9 milioni.
Qual è il motore? Funziona ancora il traino di un grande evento globale come l’Expo 2015. E i media internazionali, di carta e sulla rete, continuano a parlare di Milano come “the place to be” (“New York Times”) e d’una eccellenza per affari, cibo e qualità della vita (il giudizio recente è di “The Wall Street Journal”). “Un modello virtuoso che unisce ricerca della bellezza e produttività intelligente”, commenta il “Corriere della Sera”.
Tali e tanti numeri sono lo sfondo dell’Assemblea di Assolombarda, in programma giovedì mattina in un luogo dalla grande forza simbolica: la Scala. E motivano la scelta del presidente dell’associazione Carlo Bonomi d’avere come punto di riferimento della sua relazione il ruolo degli imprenditori, attori sociali con sguardo lungo e pensiero generale, verso lo sviluppo di tutto il Paese. Un impegno forte pensando all’Europa, da difendere e cambiare. Una scelta di iniziative verso i ceti sociali più deboli, da coinvolgere e includere. Non un’assemblea di categoria. Ma un vero e proprio appuntamento con una forte rilevanza culturale e “politica”, non certo militante, da da indicazione di “policy”: progetti, programmi, riforme.
Quali? “Domus”, prestigiosa rivista milanese d’urbanistica, grandi firme e respiro internazionale, ha dedicato 36 pagine del suo ultimo numero alle “grandi trasformazioni di Milano”, parlando di “umanesimo industriale”, innovazione, metamorfosi urbane (a cominciare dall’area di Human Technopole, luogo d’eccellenza per formazione, ricerca e imprese hi tech), vocazioni metropolitane: scienze della vita, industria agro-alimentare trainata da originale food culture ed esportazioni globali, manifattura 4.0 e cambiamenti digital di industria e servizi, sintesi tra arte, cultura e design e finanza legata ai grani mercati internazionali e finalmente attenta (anche se ancora poco) alle start up. Sono tutte dimensioni in movimento, in cui il ruolo dell’impresa privata è fondamentale. Ma che chiedono buona politica. Non solo quella del Comune ben amministrato dal sindaco Beppe Sala, con una giunta capace di coniugare competitività e inclusività. Ma anche quella della Regione e e soprattutto quella del governo nazionale, guardando all’Europa. Tutti temi chiave dell’Assemblea di Assolombarda e già ribaditi, nei giorni scorsi, da un “DomusForum” su “The future of cities”. Un futuro difficile, in metropoli che sono “complesse e incomplete”, per usare la brillante sintesi di Saskia Sassen, famosa sociologa della Colombia University di New York.
Milano ha buone carte da giocare. I suoi cittadini hanno coscienza critica ma anche sguardo consapevole: una ricerca fatta per “Domus” dalla Nielsen ha confermato che il milanesi, per l’85%, sono sodisfatti della loro città, mediamente di più degli altri abitanti di Chicago, Londra e San Paolo, appena un gradino sotto la soddisfazione dei cinesi per Shanghai.
Milano in movimento, dunque. “La città che sale” ha pur sempre un’anima intraprendente e dinamica. E il suo carattere costante è appunto quello del cambiamento. Ancora adesso.
Milano crocevia di scambi e relazioni inclusive (“milanese è chi lavora a Milano”, sostenevano gli statuti medioevali), ha costruito “cultura politecnica” con Bramante e soprattutto Leonardo, nella stagione più fertile del Rinascimento, fra creatività artistica e sapienza tecnologica. Anticipando la modernità del Paese, è stata “città delle fabbriche” tra Ottocento e Novecento, mai company town d’unica dimensione culturale, come la Torino dell’auto, ma luogo di sinergie originali tra manifatture e finanza, centri di ricerca e università, con l’orgoglio del “fare” e l’acutezza critica del “raccontare” (non c’è artista di livello che non abbia fatto i conti con Milano). Il “paradigma Natta”, per ricordare il premio Nobel per la Chimica Giulio Natta (formazione milanese nei laboratori Pirelli e Montecatini, ricerca applicata da cui nasce un’eccellenza internazionale dell’industria italiana anni 60, la plastica), vale ancora oggi per indicare la sintesi tra scienza, tecnica e industria. Una dimensione cardine di Milano, appunto. Umanesimo industriale. Un patrimonio vitale, utilissimo proprio in una stagione che, varcato il confine del Duemila, pone nuove sfide di cambiamento tra digital e sharing economy.
La Grande Crisi esplosa a livello internazionale giusto dieci anni fa ha imposto un vero e proprio “cambio di paradigma” su produzione, consumo, mercati, servizi, culture della crescita letta secondo parametri non più solo quantitativi (il Pil) ma soprattutto qualitativi (il Bes, l’indice del benessere equo e sostenibile). E sono venuti in primo piano, per larghi settori dell’opinione pubblica e degli attori economici, i temi dell’etica dello sviluppo, dei migliori equilibri economici, della sostenibilità ambientale e sociale, della responsabilità delle imprese, in cerca, con una vera e propria “morale del tornio” (la qualità del lavoro ben fatto e la sicurezza di prodotti e meccanismi di produzione, in una relazione positiva con territori e stakeholders) di una rilegittimazione dell’impresa stessa e della cultura del mercato.
Una cultura dei valori, non solo del “valore per gli azionisti” in cui proprio Milano, per storia e attualità, ha molto da dire. Assolombarda, nella sua assemblea, ne rifletterà ancora una volta le inclinazioni. Economiche. Ed etiche.
“Lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico”, ha detto di recente Papa Francesco (intervista a “Il Sole24Ore”, 7 settembre), riprendendo i temi della sua enciclica “Laudato si’” sulla “cura della casa comune”, per lavoro e dignità, persona, sviluppo e giustizia sociale. Indicazioni importanti. Di cui proprio la cultura economica lombarda, tra impresa e “saper fare”, ha sempre dato importanti testimonianze (le parole del cardinal Martini e, oggi, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura su “fare impresa per creare valori” ne sono conferma).
Milano, dunque, attiva, inclusiva, solidale. Con sguardo lungo sulle mutazioni in corso. Metropoli smart segnata da “un elevato grado di integrazione nell’economica globale” tra le 50 Global Cities, secondo il “Globalization and World Cities Research Network”. In crescita, più che altrove nel paese (è sopra del 3,2% rispetto al Pil dell’inizio della Grande Crisi del 2008, mentre l’Italia è indietro del 4,4%). E forte d’una dimensione europea: nel raggio di 60 chilometri si produce il 25% dell’export italiano e altrettanto valore aggiunto manifatturiero.
Eccola, dunque, Milano al centro di un sistema di relazioni che, nella trasformazione digital dell’economia, tra robotica, big data e Internet of things, tengono insieme manifattura (il 29% del suo Pil), servizi hi tech, ricerca, formazione, cultura. E baricentro di industria, finanza ed “economia della conoscenza” in una “città infinita” che riguarda Piemonte, Lombardia, Emilia e Nord Est, cuore dinamico della migliore impresa europea. Un cuore attrattivo di talenti e capitali. L’innovazione ne è il motore. L’apertura culturale e creativa la caratteristica di fondo. Un buon futuro possibile.
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Fare rete ma con giudizio
L’analisi attenta dei contratti di rete svela i limiti di questo strumento ma ne illumina meglio anche le potenzialità
Fare squadra. Creare un gruppo di lavoro. Dare vita ad un’associazione con uno scopo ben determinato. Fare rete. Il concetto può essere declinato in diverse modi ma il succo è sempre lo stesso: lavorare insieme per raggiungere un traguardo più facilmente e con maggiore efficacia. E’ anche l’obiettivo dei contratti di rete progettati, nati e sviluppati in un periodo difficile per l’economia e la produzione. Strumenti che, proprio per le condizioni nelle quali sono sorti, hanno generato grandi aspettative e cocenti delusioni.
E’ attorno al tema dei contratti di rete che si è esercitata Laura Azzolina (ricercatrice presso l’Università degli studi di Palermo), in un suo intervento apparso recentemente.
“I contratti di rete: valutazioni oltre l’emergenza” vuole in particolare guardare ai contratti di rete al di là delle situazioni contingenti che li hanno in qualche modo generati. Questo strumento, viene subito spiegato, si è sviluppato nella fase più acuta della crisi delle imprese italiane, circostanza che ha contribuito ad ampliarne le attese, ma anche l’insoddisfazione conseguente. E’ da questa constatazione che Azzolina inizia la sua analisi.
L’articolo riconsidera i limiti e le opportunità dello strumento così come sono state delineate all’inizio dei ragionamenti e delle applicazioni conseguenti. Oltre alla teoria però, Laura Azzolina prova a verificare la situazione con una analisi qualitativa di quattordici esperienze aggregative, selezionate distinguendo settori in declino e settori in crescita nel contesto di due regioni meridionali del paese: la Puglia e la Sicilia.
I risultati sono diversi. L’articolo mostra infatti che, sebbene in ritardo rispetto ad alcune regioni del Nord, anche il Sud ha conosciuto una diffusione dei contratti di rete che risultano adesso essere adottati da un numero di imprese più alto (in valore assoluto) che nel Nord. Ciò che più conta tuttavia è la relazione fra il contratto di rete e le situazioni di crisi. L’esperienza delle reti considerate – dice infatti Azzolina -, tende a smentire l’idea che il contratto di rete possa favorire la gestione di crisi sistemiche, di filiera o di territorio. Anzi in molti casi sarebbe proprio la crisi generalizzata fra le principali cause del fallimento della cooperazione fra imprese per il raggiungimento di obiettivi comuni. Insomma, non è con i contratti di rete che si combatte sempre la crisi. Anche se questi possono originare grandi benefici alle imprese che vengono messe in condizioni migliori di fronte alle difficoltà. Questione di cultura d’impresa, che può influire notevolmente la risposta delle singole imprese alle possibilità offerte dalla rete. Ma questione anche di circostanze legate al territorio così come alle situazioni aziendali singole. Proprio l’analisi di Azzolina, per esempio, indica come i contratti di rete riescano a sostenere la competitività delle piccole e medie imprese meridionali in tre differenti modi: avvicinandole a nuovi mercati, favorendone la crescita delle competenze, estendendone la cerchia di potenziali partners.
I contratti di rete: valutazioni oltre l’emergenza
Laura Azzolina
Studi Organizzativi, 2018, Fascicolo 1
L’analisi attenta dei contratti di rete svela i limiti di questo strumento ma ne illumina meglio anche le potenzialità
Fare squadra. Creare un gruppo di lavoro. Dare vita ad un’associazione con uno scopo ben determinato. Fare rete. Il concetto può essere declinato in diverse modi ma il succo è sempre lo stesso: lavorare insieme per raggiungere un traguardo più facilmente e con maggiore efficacia. E’ anche l’obiettivo dei contratti di rete progettati, nati e sviluppati in un periodo difficile per l’economia e la produzione. Strumenti che, proprio per le condizioni nelle quali sono sorti, hanno generato grandi aspettative e cocenti delusioni.
E’ attorno al tema dei contratti di rete che si è esercitata Laura Azzolina (ricercatrice presso l’Università degli studi di Palermo), in un suo intervento apparso recentemente.
“I contratti di rete: valutazioni oltre l’emergenza” vuole in particolare guardare ai contratti di rete al di là delle situazioni contingenti che li hanno in qualche modo generati. Questo strumento, viene subito spiegato, si è sviluppato nella fase più acuta della crisi delle imprese italiane, circostanza che ha contribuito ad ampliarne le attese, ma anche l’insoddisfazione conseguente. E’ da questa constatazione che Azzolina inizia la sua analisi.
L’articolo riconsidera i limiti e le opportunità dello strumento così come sono state delineate all’inizio dei ragionamenti e delle applicazioni conseguenti. Oltre alla teoria però, Laura Azzolina prova a verificare la situazione con una analisi qualitativa di quattordici esperienze aggregative, selezionate distinguendo settori in declino e settori in crescita nel contesto di due regioni meridionali del paese: la Puglia e la Sicilia.
I risultati sono diversi. L’articolo mostra infatti che, sebbene in ritardo rispetto ad alcune regioni del Nord, anche il Sud ha conosciuto una diffusione dei contratti di rete che risultano adesso essere adottati da un numero di imprese più alto (in valore assoluto) che nel Nord. Ciò che più conta tuttavia è la relazione fra il contratto di rete e le situazioni di crisi. L’esperienza delle reti considerate – dice infatti Azzolina -, tende a smentire l’idea che il contratto di rete possa favorire la gestione di crisi sistemiche, di filiera o di territorio. Anzi in molti casi sarebbe proprio la crisi generalizzata fra le principali cause del fallimento della cooperazione fra imprese per il raggiungimento di obiettivi comuni. Insomma, non è con i contratti di rete che si combatte sempre la crisi. Anche se questi possono originare grandi benefici alle imprese che vengono messe in condizioni migliori di fronte alle difficoltà. Questione di cultura d’impresa, che può influire notevolmente la risposta delle singole imprese alle possibilità offerte dalla rete. Ma questione anche di circostanze legate al territorio così come alle situazioni aziendali singole. Proprio l’analisi di Azzolina, per esempio, indica come i contratti di rete riescano a sostenere la competitività delle piccole e medie imprese meridionali in tre differenti modi: avvicinandole a nuovi mercati, favorendone la crescita delle competenze, estendendone la cerchia di potenziali partners.
I contratti di rete: valutazioni oltre l’emergenza
Laura Azzolina
Studi Organizzativi, 2018, Fascicolo 1
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La cultura della produzione smart
Condensati in un libro principi e pratica dello smartworking
Prima c’erano la fabbrica e l’ufficio, adesso non solo. Anzi, sempre di più si fanno largo modalità di produzione differenziata, anche dal punto di vista della collocazione fisica, certamente da quello dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti gerarchici. E’ ciò che viene indicato come smartworking, tema di “Smarting up! La smart organization: una nuova relazione tra persona e organizzazione” scritto da Alessandro Donadio (HR Innovation Leader PwC e con un’attenzione particolare agli aspetti etnologici dell’agire umano) pubblicato da poco.
Il libro – circa 150 pagine che si leggono velocemente ma che vanno prese con grande serietà -, inizia a ragionare dalla constatazione che fino a poco tempo le aziende hanno posto la loro attenzione solo sugli aspetti tecnologici oppure normativi del loro agire. Adesso, proprio lo smartworking sta cambiano alla radice il modo di produrre agendo sullo spazio e sul tempo della produzione.
In passato – viene spiegato nella presentazione del libro -, la persona entrata in azienda aveva chiaro che il corrispettivo alla retribuzione fosse il suo lavoro in uno spazio (fabbrica o ufficio) e in un tempo di lavoro definiti e preordinati. Oggi la smart organization riporta questi due pilastri in carico alle persone, anziché alle organizzazioni, cambiando nelle fondamenta la geometria della relazione. Si passa così alla valorizzazione del risultato e della bontà dell’autogestione piuttosto che del coordinamento. In altre parole, gli elementi forti delle nuove organizzazioni della produzione smart sono la responsabilizzazione di ognuno, la delega ed l’autonomia. Cambia anche la stessa definizione di leadership. Mentre prendono spazio le nuove tecnologie in grado di mettere in collegamento le persone, tecnologie che divengono una sorta di collante di un’organizzazione che si fa liquida e gestita con modalità totalmente nuove.
Alessandro Donadio illustra tutto questo partendo proprio dai pilastri abbattuti – lo spazio e il tempo -, per passare poi alla costruzione di nuovi pilastri della produzione: una nuova responsabilità individuale e una nuova leadership. Tutto viene poi fuso in uno schema di organizzazione smart raccontato attraverso la sigla 4P4Smart che identifica i concetti di Practice, People, Platform e Place – operatività, persone, collegamenti e collocazioni -, visti come elementi sui quali le nuove modalità produttive possono essere costruite e fatte funzionare. Con un nucleo culturale di fondo che deve essere assicurato: il senso di appartenenza che va oltre lo spazio e il tempo.
Produrre smart – può essere uno dei messaggi del libro -, non implica solo una maggiore efficienza ed efficacia nei processi, ma anche una più alta consapevolezza del proprio ruolo, una cultura del produrre che si evolve verso orizzonti diversi da quelli dell’oggi. Tutto da leggere.
Smarting up! La smart organization: una nuova relazione tra persona e organizzazione
Alessandro Donadio
Franco Angeli, 2018






Condensati in un libro principi e pratica dello smartworking
Prima c’erano la fabbrica e l’ufficio, adesso non solo. Anzi, sempre di più si fanno largo modalità di produzione differenziata, anche dal punto di vista della collocazione fisica, certamente da quello dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti gerarchici. E’ ciò che viene indicato come smartworking, tema di “Smarting up! La smart organization: una nuova relazione tra persona e organizzazione” scritto da Alessandro Donadio (HR Innovation Leader PwC e con un’attenzione particolare agli aspetti etnologici dell’agire umano) pubblicato da poco.
Il libro – circa 150 pagine che si leggono velocemente ma che vanno prese con grande serietà -, inizia a ragionare dalla constatazione che fino a poco tempo le aziende hanno posto la loro attenzione solo sugli aspetti tecnologici oppure normativi del loro agire. Adesso, proprio lo smartworking sta cambiano alla radice il modo di produrre agendo sullo spazio e sul tempo della produzione.
In passato – viene spiegato nella presentazione del libro -, la persona entrata in azienda aveva chiaro che il corrispettivo alla retribuzione fosse il suo lavoro in uno spazio (fabbrica o ufficio) e in un tempo di lavoro definiti e preordinati. Oggi la smart organization riporta questi due pilastri in carico alle persone, anziché alle organizzazioni, cambiando nelle fondamenta la geometria della relazione. Si passa così alla valorizzazione del risultato e della bontà dell’autogestione piuttosto che del coordinamento. In altre parole, gli elementi forti delle nuove organizzazioni della produzione smart sono la responsabilizzazione di ognuno, la delega ed l’autonomia. Cambia anche la stessa definizione di leadership. Mentre prendono spazio le nuove tecnologie in grado di mettere in collegamento le persone, tecnologie che divengono una sorta di collante di un’organizzazione che si fa liquida e gestita con modalità totalmente nuove.
Alessandro Donadio illustra tutto questo partendo proprio dai pilastri abbattuti – lo spazio e il tempo -, per passare poi alla costruzione di nuovi pilastri della produzione: una nuova responsabilità individuale e una nuova leadership. Tutto viene poi fuso in uno schema di organizzazione smart raccontato attraverso la sigla 4P4Smart che identifica i concetti di Practice, People, Platform e Place – operatività, persone, collegamenti e collocazioni -, visti come elementi sui quali le nuove modalità produttive possono essere costruite e fatte funzionare. Con un nucleo culturale di fondo che deve essere assicurato: il senso di appartenenza che va oltre lo spazio e il tempo.
Produrre smart – può essere uno dei messaggi del libro -, non implica solo una maggiore efficienza ed efficacia nei processi, ma anche una più alta consapevolezza del proprio ruolo, una cultura del produrre che si evolve verso orizzonti diversi da quelli dell’oggi. Tutto da leggere.
Smarting up! La smart organization: una nuova relazione tra persona e organizzazione
Alessandro Donadio
Franco Angeli, 2018
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Fotografare il lavoro: uno sguardo dentro la fabbrica
Nel tentativo di raccontare i tanti momenti in cui l’arte della fotografia ha incontrato il mondo Pirelli, la rubrica “Storie” si è anche naturalmente occupata dei “fotografi in fabbrica”. L’opportunità che la macchina fotografica “esplorasse” i reparti di produzione per rivelarli al mondo esterno è stato un argomento ampiamente dibattuto nel corso della seconda metà del Novecento: pagine e pagine sono state dedicate ad esempio dalla rivista Pirelli alle “storie di fabbrica” viste attraverso lo sguardo dei grandi fotografi del tempo. Tuttavia, altri documenti del nostro Archivio Storico testimoniano come il lavoro e i lavoratori siano entrati molto presto nell’obiettivo dei fotografi.
Luca Comerio, “L’uscita delle maestranze Pirelli dallo stabilimento di via Ponte Seveso”, 1905: un nome, un luogo, una data che insieme rappresentano una vera e propria icona del “mondo pirelliano”. La gigantesca fotografia – oggi restaurata e conservata presso la nostra Fondazione – fu realizzata dal grande regista-fotografo milanese su commissione della Pirelli per rappresentarne la forza industriale all’Expo Universale del Sempione 1906: oltre duemila volti di uomini e donne che fuori dai cancelli della prima fabbrica di Via Ponte Seveso guardano in alto, verso l’uomo armato di fotocamera e flash al magnesio che sta per immortalarli come simboli di una rivoluzione industriale nascente. La foto di fabbrica come tributo ad una raggiunta forza manifatturiera, dunque. E’ questo il senso che anima anche il reportage realizzato all’interno dei reparti di Bicocca nel 1922 per celebrare i 50 anni del Gruppo Pirelli. Nelle gigantesche calandre americane Farrel “domate” da uomini in tuta da lavoro, nei macchinari che riempiono questi ritratti color seppia c’è tutto il significato del rapporto tra uomo e macchina.
Se il Dopoguerra e gli anni Cinquanta vedono un nuovo “rinascimento industriale”, gli scatti del maestro olandese Arno Hammacher all’interno dello stabilimento Pirelli Pneumatici di Settimo Torinese da poco inaugurato sono emblematici nella definizione del concetto di “saper fare”. Qui sono protagoniste le mani: mani che conoscono i segreti della gomma, che sanno guidare un vulcanizzatore, che sono capaci di piegare la macchina alla volontà umana. E’ una cultura del progetto che ritroviamo analizzata nei tanti articoli che la rivista Pirelli – attraverso l’allora direttore Leonardo Sinisgalli, l’ingegnere-poeta – ha dedicato al boom industriale di metà Novecento. Possono cambiare i tempi – dal “rinascimento industriale” alle crisi strutturali degli anni Settanta – ma non cambia la curiosità del fotografo nel cercare il significato “umano” della fabbrica: per l’house-organ aziendale Fatti e Notizie, tra il 1973 e il 1977, i due giovani fotografi Enzo Nocera e Gianfranco Corso realizzano i loro personali reportage – rigorosamente in bianco e nero – che sono vere e proprie “inchieste per immagini” sul senso del lavoro, sulle sue contraddizioni, sui suoi problemi, sui suoi orizzonti. I loro ritratti di fabbrica diventeranno anche mostre personali sull’Italia che cambia.
E sulla “fabbrica che cambia” non può mancare lo sguardo di un altro grande poeta dell’immagine: è di Gabriele Basilico il servizio – sempre in bianco e nero – che nel 1985 testimonia e fissa nella memoria il momento in cui il quartiere di Milano Bicocca inizia il suo processo di trasformazione verso una nuova realtà urbana con l’avvio ufficiale del Progetto Bicocca. E non si è ancora fermata questa passione del raccontare “da dentro” gli uomini, la fabbrica e il lavoro. Fin dall’inizio delle sue attività nel 2008, la Fondazione Pirelli si è avvalsa della collaborazione di Carlo Furgeri Gilbert per la realizzazione di servizi fotografici presso i suoi stabilimenti nel mondo, dalla fabbrica tedesca di Breuberg a quella turca di İzmit, alla rumena Slatina. E su tutti, di grande respiro il reportage con cui Furgeri Gilbert ha documentato nel tempo la nascita del nuovo Polo Industriale di Settimo Torinese, la Fabbrica 4.0 del futuro. Un’altra storia di civiltà di uomini e di macchine.






Nel tentativo di raccontare i tanti momenti in cui l’arte della fotografia ha incontrato il mondo Pirelli, la rubrica “Storie” si è anche naturalmente occupata dei “fotografi in fabbrica”. L’opportunità che la macchina fotografica “esplorasse” i reparti di produzione per rivelarli al mondo esterno è stato un argomento ampiamente dibattuto nel corso della seconda metà del Novecento: pagine e pagine sono state dedicate ad esempio dalla rivista Pirelli alle “storie di fabbrica” viste attraverso lo sguardo dei grandi fotografi del tempo. Tuttavia, altri documenti del nostro Archivio Storico testimoniano come il lavoro e i lavoratori siano entrati molto presto nell’obiettivo dei fotografi.
Luca Comerio, “L’uscita delle maestranze Pirelli dallo stabilimento di via Ponte Seveso”, 1905: un nome, un luogo, una data che insieme rappresentano una vera e propria icona del “mondo pirelliano”. La gigantesca fotografia – oggi restaurata e conservata presso la nostra Fondazione – fu realizzata dal grande regista-fotografo milanese su commissione della Pirelli per rappresentarne la forza industriale all’Expo Universale del Sempione 1906: oltre duemila volti di uomini e donne che fuori dai cancelli della prima fabbrica di Via Ponte Seveso guardano in alto, verso l’uomo armato di fotocamera e flash al magnesio che sta per immortalarli come simboli di una rivoluzione industriale nascente. La foto di fabbrica come tributo ad una raggiunta forza manifatturiera, dunque. E’ questo il senso che anima anche il reportage realizzato all’interno dei reparti di Bicocca nel 1922 per celebrare i 50 anni del Gruppo Pirelli. Nelle gigantesche calandre americane Farrel “domate” da uomini in tuta da lavoro, nei macchinari che riempiono questi ritratti color seppia c’è tutto il significato del rapporto tra uomo e macchina.
Se il Dopoguerra e gli anni Cinquanta vedono un nuovo “rinascimento industriale”, gli scatti del maestro olandese Arno Hammacher all’interno dello stabilimento Pirelli Pneumatici di Settimo Torinese da poco inaugurato sono emblematici nella definizione del concetto di “saper fare”. Qui sono protagoniste le mani: mani che conoscono i segreti della gomma, che sanno guidare un vulcanizzatore, che sono capaci di piegare la macchina alla volontà umana. E’ una cultura del progetto che ritroviamo analizzata nei tanti articoli che la rivista Pirelli – attraverso l’allora direttore Leonardo Sinisgalli, l’ingegnere-poeta – ha dedicato al boom industriale di metà Novecento. Possono cambiare i tempi – dal “rinascimento industriale” alle crisi strutturali degli anni Settanta – ma non cambia la curiosità del fotografo nel cercare il significato “umano” della fabbrica: per l’house-organ aziendale Fatti e Notizie, tra il 1973 e il 1977, i due giovani fotografi Enzo Nocera e Gianfranco Corso realizzano i loro personali reportage – rigorosamente in bianco e nero – che sono vere e proprie “inchieste per immagini” sul senso del lavoro, sulle sue contraddizioni, sui suoi problemi, sui suoi orizzonti. I loro ritratti di fabbrica diventeranno anche mostre personali sull’Italia che cambia.
E sulla “fabbrica che cambia” non può mancare lo sguardo di un altro grande poeta dell’immagine: è di Gabriele Basilico il servizio – sempre in bianco e nero – che nel 1985 testimonia e fissa nella memoria il momento in cui il quartiere di Milano Bicocca inizia il suo processo di trasformazione verso una nuova realtà urbana con l’avvio ufficiale del Progetto Bicocca. E non si è ancora fermata questa passione del raccontare “da dentro” gli uomini, la fabbrica e il lavoro. Fin dall’inizio delle sue attività nel 2008, la Fondazione Pirelli si è avvalsa della collaborazione di Carlo Furgeri Gilbert per la realizzazione di servizi fotografici presso i suoi stabilimenti nel mondo, dalla fabbrica tedesca di Breuberg a quella turca di İzmit, alla rumena Slatina. E su tutti, di grande respiro il reportage con cui Furgeri Gilbert ha documentato nel tempo la nascita del nuovo Polo Industriale di Settimo Torinese, la Fabbrica 4.0 del futuro. Un’altra storia di civiltà di uomini e di macchine.
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L’importanza del divulgare
In una Lectio magistralis del Direttore generale di Banca d’Italia, l’importanza della divulgazione per la comprensione del presente
Conoscere meglio per comprendere di più dove si è collocati. Obiettivo comune a tutti – individui, imprese, organizzazioni -, difficile però a raggiungersi, soprattutto in un’epoca nella quale la conoscenza sembra a portata di mano più che nel passato ed è, invece, allontanata più di prima. Rumore d’informazioni che si fa ostacolo alla comprensione. Questione anche di strumenti a disposizione, che solo apparentemente aiutano.
La migliore conoscenza del mondo, passa allora anche dal miglioramento degli strumenti conoscitivi e dall’uso che di questi viene fatto. E’ il nodo della divulgazione che deve essere sciolto. Cosa non facile.
Attorno al tema della divulgazione ha ragionato recentissimamente Salvatore Rossi (Direttore generale di Banca d’Italia), in una Lectio magistralis tenuta all’Università Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Economia).
Il ragionare di Rossi, dopo essere partito dalla descrizione del mondo d’oggi dal punto di vista dell’abbondanza delle informazioni, del pullulare di false notizie e dalla difficoltà di destreggiarsi in tutto questo, si è focalizzato sui temi dell’economia e dell’informazione economico-finanziaria. Una delle prime conclusioni di Rossi è che “siamo tutti estremamente vulnerabili, esposti a ogni sorta di errore o di manipolazione, anche quando riteniamo di essere evoluti abbastanza da non correre questo rischio”. Necessità di cautela e attenzione, dunque, appaiono essere le prime indicazioni per costruire un’informazione utile e affidabile, oltre che comprensibile e quindi una buona divulgazione.
Ma “Elogio della divulgazione”, questo il titolo della Lectio va oltre e affronta il tema di come raggiungere una miglior comprensione attraverso una migliore divulgazione. Un traguardo che può essere raggiunto solamente con l’onesta dei contenuti e la chiarezza delle spiegazioni. “Divulgare – scrive Rossi -, è il punto più alto dell’attività di un ricercatore, se questi lo fa senza perdere nulla della forza dell’argomento e della precisione dell’analisi: divulgare in questo senso vuol dire, come si accennava all’inizio, tradurre ma anche sfrondare, andare all’essenziale. È un esercizio faticoso e complesso. Richiede visione ampia”.
La Lectio magistralis di Salvatore Rossi solo apparentemente è distante dalla buona cultura economica e d’impresa. In realtà ne è uno degli attuali esempi più limpidi.
Elogio della divulgazione
Salvatore Rossi
Lectio magistralis, Università Ca’ Foscari, Venezia, Dipartimento di Economia,
5 ottobre 2018
In una Lectio magistralis del Direttore generale di Banca d’Italia, l’importanza della divulgazione per la comprensione del presente
Conoscere meglio per comprendere di più dove si è collocati. Obiettivo comune a tutti – individui, imprese, organizzazioni -, difficile però a raggiungersi, soprattutto in un’epoca nella quale la conoscenza sembra a portata di mano più che nel passato ed è, invece, allontanata più di prima. Rumore d’informazioni che si fa ostacolo alla comprensione. Questione anche di strumenti a disposizione, che solo apparentemente aiutano.
La migliore conoscenza del mondo, passa allora anche dal miglioramento degli strumenti conoscitivi e dall’uso che di questi viene fatto. E’ il nodo della divulgazione che deve essere sciolto. Cosa non facile.
Attorno al tema della divulgazione ha ragionato recentissimamente Salvatore Rossi (Direttore generale di Banca d’Italia), in una Lectio magistralis tenuta all’Università Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Economia).
Il ragionare di Rossi, dopo essere partito dalla descrizione del mondo d’oggi dal punto di vista dell’abbondanza delle informazioni, del pullulare di false notizie e dalla difficoltà di destreggiarsi in tutto questo, si è focalizzato sui temi dell’economia e dell’informazione economico-finanziaria. Una delle prime conclusioni di Rossi è che “siamo tutti estremamente vulnerabili, esposti a ogni sorta di errore o di manipolazione, anche quando riteniamo di essere evoluti abbastanza da non correre questo rischio”. Necessità di cautela e attenzione, dunque, appaiono essere le prime indicazioni per costruire un’informazione utile e affidabile, oltre che comprensibile e quindi una buona divulgazione.
Ma “Elogio della divulgazione”, questo il titolo della Lectio va oltre e affronta il tema di come raggiungere una miglior comprensione attraverso una migliore divulgazione. Un traguardo che può essere raggiunto solamente con l’onesta dei contenuti e la chiarezza delle spiegazioni. “Divulgare – scrive Rossi -, è il punto più alto dell’attività di un ricercatore, se questi lo fa senza perdere nulla della forza dell’argomento e della precisione dell’analisi: divulgare in questo senso vuol dire, come si accennava all’inizio, tradurre ma anche sfrondare, andare all’essenziale. È un esercizio faticoso e complesso. Richiede visione ampia”.
La Lectio magistralis di Salvatore Rossi solo apparentemente è distante dalla buona cultura economica e d’impresa. In realtà ne è uno degli attuali esempi più limpidi.
Elogio della divulgazione
Salvatore Rossi
Lectio magistralis, Università Ca’ Foscari, Venezia, Dipartimento di Economia,
5 ottobre 2018
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Cultura dell’apprendere
L’ultimo libro di un premio Nobel per l’economia ragiona sui forti legami fra apprendimento, economia e sviluppo
Una società cresce e si sviluppa se impara ad imparare. Vale anche per le imprese, così come per ogni individuo. Occorre allora creare le condizioni perché un meccanismo di questo genere sia costruito e fatto funzionare. A tutti i livelli. Cosa non facile, ma fattibile. Questione culturale e sociale di primo livello, la creazione di una società dell’apprendimento è stata affrontata da Joseph E. Stiglitz (Premio Nobel per l’economia) e Bruce C. Greenwald in un libro denso di idee ma purtuttavia facile da leggere.
“Creare una società dell’apprendimento”, appena tradotto in Italia, deriva da un libro più ampio e tecnico che i due autori hanno scritto dopo una serie di conferenze tenute alla Colombia University in onore di uno dei più grandi economisti del secolo: Kenneth J. Arrow. E del tono discorsivo il libro pubblicato in Italia (nato da una elaborazione che ha eliminato i tecnicismi), conserva tutta la freschezza.
L’idea alla base del ragionamento è che “se si crea una società dell’apprendimento, ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore”. Da qui inizia il ragionamento, prima attorno alle basi teoriche dell’economia dell’apprendimento, e poi sulle misure da adottare per diffondere la capacità di apprendere. L’obiettivo delle politiche economiche, secondo i due autori, è “eliminare il divario di conoscenza, se si vuole ridurre il divario nello sviluppo”. Questo perché un miglioramento degli standard di vita deriva dai progressi nella tecnologia e non dall’accumulazione di capitale. Questione di cultura, quindi, prima che di tecnologia. Una condizione che, a ben vedere, è a fondamento non solo di una buona società ma anche di rapporti umani e produttivi equilibrati. Sulla base di questi assunti si dipana il libro. Che tocca anche la condizione dei Paesi in via di sviluppo che – appunto -, crescono con una velocità che è funzione della velocità con cui riescono a colmare il divario di conoscenze con il resto del mondo.
Il libro di Stiglitz e Greenwald conduce chi legge attraverso i meandri di una delle frontiere più affascinanti dell’economia. Anche per quanto riguarda le imprese. Uno dei punti cruciali di tutto, infatti, è “progettare un’impresa che apprende e innova”. E che quindi spesso è gestita secondo principi diversi da quelli consueti del management più diffuso. Anche qui, apprendimento e innovazione vanno di pari passo, accanto ad un’evoluzione della cultura del produrre che si fa più aperta di prima, più permeabile alle sollecitazioni esterne e maggiormente in grado di cogliere le opportunità che derivano dal sistema sociale in cui l’azienda è immersa. Proprio parlando di organizzazione della produzione e di conoscenza, Stiglitz e Greenwald annotano un passaggio fondamentale: “Mentre per l’avanzamento della società è desiderabile che le conoscenze, una volta create, vengano trasmesse il più possibile ad ampio raggio e nel modo più efficiente, le imprese che operano per la massimizzazione del profitto cercano da sempre di limitare al massimo tale trasmissione”. Insomma, la questione dell’apprendimento passa anche da quella della responsabilità sociale d’impresa, del ruolo dell’azienda nel territorio e nel sistema umano di cui fa parte.
Il libro di Stiglitz e Greenwald – pur semplificato -, non è sempre facilissimo da leggere, ma costituisce una delle letture più importanti di questi tempi per aprire la mente al tema del futuro: imparare ad imparare. Anche nelle aziende.
Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald
Einaudi, 2018






L’ultimo libro di un premio Nobel per l’economia ragiona sui forti legami fra apprendimento, economia e sviluppo
Una società cresce e si sviluppa se impara ad imparare. Vale anche per le imprese, così come per ogni individuo. Occorre allora creare le condizioni perché un meccanismo di questo genere sia costruito e fatto funzionare. A tutti i livelli. Cosa non facile, ma fattibile. Questione culturale e sociale di primo livello, la creazione di una società dell’apprendimento è stata affrontata da Joseph E. Stiglitz (Premio Nobel per l’economia) e Bruce C. Greenwald in un libro denso di idee ma purtuttavia facile da leggere.
“Creare una società dell’apprendimento”, appena tradotto in Italia, deriva da un libro più ampio e tecnico che i due autori hanno scritto dopo una serie di conferenze tenute alla Colombia University in onore di uno dei più grandi economisti del secolo: Kenneth J. Arrow. E del tono discorsivo il libro pubblicato in Italia (nato da una elaborazione che ha eliminato i tecnicismi), conserva tutta la freschezza.
L’idea alla base del ragionamento è che “se si crea una società dell’apprendimento, ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore”. Da qui inizia il ragionamento, prima attorno alle basi teoriche dell’economia dell’apprendimento, e poi sulle misure da adottare per diffondere la capacità di apprendere. L’obiettivo delle politiche economiche, secondo i due autori, è “eliminare il divario di conoscenza, se si vuole ridurre il divario nello sviluppo”. Questo perché un miglioramento degli standard di vita deriva dai progressi nella tecnologia e non dall’accumulazione di capitale. Questione di cultura, quindi, prima che di tecnologia. Una condizione che, a ben vedere, è a fondamento non solo di una buona società ma anche di rapporti umani e produttivi equilibrati. Sulla base di questi assunti si dipana il libro. Che tocca anche la condizione dei Paesi in via di sviluppo che – appunto -, crescono con una velocità che è funzione della velocità con cui riescono a colmare il divario di conoscenze con il resto del mondo.
Il libro di Stiglitz e Greenwald conduce chi legge attraverso i meandri di una delle frontiere più affascinanti dell’economia. Anche per quanto riguarda le imprese. Uno dei punti cruciali di tutto, infatti, è “progettare un’impresa che apprende e innova”. E che quindi spesso è gestita secondo principi diversi da quelli consueti del management più diffuso. Anche qui, apprendimento e innovazione vanno di pari passo, accanto ad un’evoluzione della cultura del produrre che si fa più aperta di prima, più permeabile alle sollecitazioni esterne e maggiormente in grado di cogliere le opportunità che derivano dal sistema sociale in cui l’azienda è immersa. Proprio parlando di organizzazione della produzione e di conoscenza, Stiglitz e Greenwald annotano un passaggio fondamentale: “Mentre per l’avanzamento della società è desiderabile che le conoscenze, una volta create, vengano trasmesse il più possibile ad ampio raggio e nel modo più efficiente, le imprese che operano per la massimizzazione del profitto cercano da sempre di limitare al massimo tale trasmissione”. Insomma, la questione dell’apprendimento passa anche da quella della responsabilità sociale d’impresa, del ruolo dell’azienda nel territorio e nel sistema umano di cui fa parte.
Il libro di Stiglitz e Greenwald – pur semplificato -, non è sempre facilissimo da leggere, ma costituisce una delle letture più importanti di questi tempi per aprire la mente al tema del futuro: imparare ad imparare. Anche nelle aziende.
Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald
Einaudi, 2018
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Ecco perché guardare bene i “numerini” fa davvero l’interesse dei “cittadini”
Lo spread è un numero, come le temperature del grafico della febbre. Entrambi indicano uno stato di salute: nel primo caso quello del debitore, se ispira o meno fiducia al creditore; del malato, nel secondo. Nessun malato è mai stato così incosciente da accusare il termometro di “complotto”, ma semmai, messo in allarme proprio da quelle precise indicazioni del termometro, s’è rivolto a un buon medico, una persona competente e responsabile, uno non eletto a furor di popolo ma scelto perché bravo, per studi, scienza ed esperienza.
Il paragone con il grafico della febbre viene in mente, a chi si occupa di cultura d’impresa, di fronte alle ennesime polemiche che maturano in ambienti di governo a proposito del giudizio negativo dei mercati finanziari e delle perplessità della Commissione Ue sulla “manovra” annunciata con il Def (il Documento di economia e finanza) e sullo “sfondamento” del rapporto deficit-Pil al 2,4%.
Lo spread tra Bund (i titoli pubblici tedeschi, affidabili) e i nostri Btp ha superato quota 300. E il rendimento dei titoli pubblici all’ultima asta di ieri, lunedì 8 ottobre, ha superato il 3,5%: il che vuol dire che chi li compra pretende un maggior “premio” per il rischio che corre mettendoli in portafoglio. E la Borsa ha vissuto un’altra giornata nera (i “numerini” degli indici al ribasso dicono quanti risparmi dei “cittadini” sono andati in fumo).
In ambienti di governo si reagisce parlando di speculatori internazionali che vogliono il male dell’Italia e si contrappone ancora una volta “l’economia reale” alla “finanza”. O, per usare un altro slogan di gran moda tra i “gialloverdi” al governo, “i numerini” ai “cittadini”. Chiacchiere buone per la propaganda. E nemmeno chiacchiere originali. Anni fa ci fu un ministro che, per amore di battuta, disse che lui si occupava dei mercati rionali e non di quelli finanziari (non lasciò di sé un buon ricordo). La realtà, però, non ama le chiacchiere e racconta altro. E fatti e numeri sono testardi.
I “numerini” sui titoli di Stato dicono quanti interessi in più si devono pagare per il nostro gigantesco e crescente debito pubblico (si devono: lo Stato, cioè tutti noi “cittadini” con le nostre tasse). I “numerini” dello spread dicono quanto in più pagheremo, sempre noi “cittadini”, per i mutui sulle case, i prestiti che abbiamo fatto o per ottenere credito per cercare di fare crescere le nostre aziende e creare lavoro.
I “numerini” sulla crescita annunciata dal governo (1,5% nel 2019 dopo una crescita dell’1,2% quest’anno, ma qualcuno dei ministri azzarda anche il 2% o addirittura il 3% nell’arco di un paio di anni) o su quella prevista da autorevoli protagonisti dell’economia (1% Confcommercio, 0,9% Confindustria) dicono di un forte divario di aspettative. E se quei “numerini” ottimisti non saranno confermati, per i “cittadini” la conseguenza sarà chiara: meno lavoro, salari ridotti minori servizi pubblici, minor benessere. Tutte questioni che riguardano la vita quotidiana dei “cittadini”.
Si potrebbe andare avanti così a lungo. Ci si ferma qui per dire che l’attenzione ai “numerini” è un dovere fondamentale per qualunque governo che abbia a cuore il futuro dei suoi cittadini.
Non enumerando dati a casaccio, per ragioni di propaganda elettorale e polemica politica. Né facendo affidamento sul “potere magico” di certe parole (il “pensiero magico”, contrapposto alla realtà, è stato fonte di alcuni dei più tragici disastro del Novecento). Ma elaborando e condividendo scelte che possano essere realizzate. Non si costruisce solido sviluppo economico aumentando il peso dei debiti. E non si costruisce opinione pubblica consapevole, capace di approvare e sostenere scelte riformatrici coraggiose, senza fare i conti con la realtà. Con la realtà, non con i desideri o la propaganda. O con le illusioni d’una nota sui social media o con l’invenzione del “nemico” (un’altra funesta abitudine del Novecento).
I numeri, insomma, certi, attendibili, ben studiati ed elaborati con competenza e autonomia scientifica, ben spiegati con chiarezza, sono la base della scienza, anche di quella economica. Di numeri, vivono le imprese (gli investimenti, il lavoro, i salari, i dati contabili che dicono, nei bilanci, cosa fare e dove puntare, quante rate fare per un nuovo macchinario, quante quote di mercato conquistare o difendere). Di numeri, si alimentano i bilanci delle famiglie. Numeri da umanizzare, non da disprezzare.
I numeri sono un fondamento del buon governo e, naturalmente, d’una solida, partecipata democrazia. E perché i cittadini possano ritrovare fiducia e sicurezza, è davvero indispensabile, per una dignitosa classe dirigente, “non dare i numeri”.






Lo spread è un numero, come le temperature del grafico della febbre. Entrambi indicano uno stato di salute: nel primo caso quello del debitore, se ispira o meno fiducia al creditore; del malato, nel secondo. Nessun malato è mai stato così incosciente da accusare il termometro di “complotto”, ma semmai, messo in allarme proprio da quelle precise indicazioni del termometro, s’è rivolto a un buon medico, una persona competente e responsabile, uno non eletto a furor di popolo ma scelto perché bravo, per studi, scienza ed esperienza.
Il paragone con il grafico della febbre viene in mente, a chi si occupa di cultura d’impresa, di fronte alle ennesime polemiche che maturano in ambienti di governo a proposito del giudizio negativo dei mercati finanziari e delle perplessità della Commissione Ue sulla “manovra” annunciata con il Def (il Documento di economia e finanza) e sullo “sfondamento” del rapporto deficit-Pil al 2,4%.
Lo spread tra Bund (i titoli pubblici tedeschi, affidabili) e i nostri Btp ha superato quota 300. E il rendimento dei titoli pubblici all’ultima asta di ieri, lunedì 8 ottobre, ha superato il 3,5%: il che vuol dire che chi li compra pretende un maggior “premio” per il rischio che corre mettendoli in portafoglio. E la Borsa ha vissuto un’altra giornata nera (i “numerini” degli indici al ribasso dicono quanti risparmi dei “cittadini” sono andati in fumo).
In ambienti di governo si reagisce parlando di speculatori internazionali che vogliono il male dell’Italia e si contrappone ancora una volta “l’economia reale” alla “finanza”. O, per usare un altro slogan di gran moda tra i “gialloverdi” al governo, “i numerini” ai “cittadini”. Chiacchiere buone per la propaganda. E nemmeno chiacchiere originali. Anni fa ci fu un ministro che, per amore di battuta, disse che lui si occupava dei mercati rionali e non di quelli finanziari (non lasciò di sé un buon ricordo). La realtà, però, non ama le chiacchiere e racconta altro. E fatti e numeri sono testardi.
I “numerini” sui titoli di Stato dicono quanti interessi in più si devono pagare per il nostro gigantesco e crescente debito pubblico (si devono: lo Stato, cioè tutti noi “cittadini” con le nostre tasse). I “numerini” dello spread dicono quanto in più pagheremo, sempre noi “cittadini”, per i mutui sulle case, i prestiti che abbiamo fatto o per ottenere credito per cercare di fare crescere le nostre aziende e creare lavoro.
I “numerini” sulla crescita annunciata dal governo (1,5% nel 2019 dopo una crescita dell’1,2% quest’anno, ma qualcuno dei ministri azzarda anche il 2% o addirittura il 3% nell’arco di un paio di anni) o su quella prevista da autorevoli protagonisti dell’economia (1% Confcommercio, 0,9% Confindustria) dicono di un forte divario di aspettative. E se quei “numerini” ottimisti non saranno confermati, per i “cittadini” la conseguenza sarà chiara: meno lavoro, salari ridotti minori servizi pubblici, minor benessere. Tutte questioni che riguardano la vita quotidiana dei “cittadini”.
Si potrebbe andare avanti così a lungo. Ci si ferma qui per dire che l’attenzione ai “numerini” è un dovere fondamentale per qualunque governo che abbia a cuore il futuro dei suoi cittadini.
Non enumerando dati a casaccio, per ragioni di propaganda elettorale e polemica politica. Né facendo affidamento sul “potere magico” di certe parole (il “pensiero magico”, contrapposto alla realtà, è stato fonte di alcuni dei più tragici disastro del Novecento). Ma elaborando e condividendo scelte che possano essere realizzate. Non si costruisce solido sviluppo economico aumentando il peso dei debiti. E non si costruisce opinione pubblica consapevole, capace di approvare e sostenere scelte riformatrici coraggiose, senza fare i conti con la realtà. Con la realtà, non con i desideri o la propaganda. O con le illusioni d’una nota sui social media o con l’invenzione del “nemico” (un’altra funesta abitudine del Novecento).
I numeri, insomma, certi, attendibili, ben studiati ed elaborati con competenza e autonomia scientifica, ben spiegati con chiarezza, sono la base della scienza, anche di quella economica. Di numeri, vivono le imprese (gli investimenti, il lavoro, i salari, i dati contabili che dicono, nei bilanci, cosa fare e dove puntare, quante rate fare per un nuovo macchinario, quante quote di mercato conquistare o difendere). Di numeri, si alimentano i bilanci delle famiglie. Numeri da umanizzare, non da disprezzare.
I numeri sono un fondamento del buon governo e, naturalmente, d’una solida, partecipata democrazia. E perché i cittadini possano ritrovare fiducia e sicurezza, è davvero indispensabile, per una dignitosa classe dirigente, “non dare i numeri”.
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Ciclismo e ciclisti: un diario fotografico “su due ruote”
Quanta vita c’è nelle fotografie delle corse ciclistiche? Con quanta passione il fotografo ha inseguito e catturato l’espressione di fatica dei corridori? La vecchia fotografia di un ciclista spesso è capace da sola di raccontare un’intera esistenza.
Istantanee rubate – spesso pericolosamente – sulle strade di tutto il mondo: una “storia di foto” tutta dedicata all’uomo e alla bicicletta. Navigando lungo la sezione fotografica “Corse velo” del nostro sito sembra di entrare direttamente in un mondo di antichi eroi, tra baffi a manubrio e strade polverose, sguardi ora stremati ora di sfida, dove i grandi campioni del pedale si dividono la stessa fatica con uomini che resteranno sconosciuti alla storia e allo stesso fotografo. Dietro la macchina fotografica – nei primi anni del Novecento – c’è spesso un operatore dell’agenzia Strazza Photo Reportage di Milano: c’è il loro timbro su alcuni piccoli capolavori custoditi presso il nostro Archivio Storico. Come sul geniale fotoritocco del ciclista Carlo Oriani ritratto probabilmente al Parco Trotter di Milano dopo la vittoria al Giro d’italia del 1913. È invece anonimo il ciclista, e imprecisato l’anno, ma è ancora una volta il conosciutissimo fotografo Strazza a comporre il delizioso “ritratto di ciclista con giubbotto impermeabile Pirelli”. Pantaloni alla zuava e coppola in testa, il ciclista è davanti alla vecchia cartiera “Ambrogio Binda” a Milano. Alle sue spalle scorre il Naviglio Pavese. Non sapremo mai di che colore era quel voluminoso giubbotto, ma soprattutto non sapremo mai se il ciclista era lì casualmente o se fosse davvero in posa. Sono invece sicuramente in posa per Strazza i due fratelli belgi Lucien e Marcel, rispettivamente primo e terzo alla “Sei Ore” del 1919. Tra loro, il secondo arrivato Valemberghe: per non sbagliare, una mano anonima ha scritto le posizioni direttamente sulle maglie.
Tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento i reportage di ciclismo sono spesso “firmati” da Lauro Bordin. Veneto originario di Crespino, provincia di Rovigo, classe 1890 e ottimo ciclista a sua volta, dopo il ritiro dalle competizioni nel 1924 Bordin si reinventa fotoreporter per ritrarre i suoi “colleghi” di un tempo. È suo il famosissimo scatto che vede i due piloti automobilistici Tazio Nuvolari e Giuseppe Campari impegnati in un testa a testa su due ruote nel 1932. Sono di Lauro Bordin anche le prime testimonianze fotografiche del Gran Premio Pirelli, torneo ciclistico che negli anni Cinquanta fu trampolino di lancio per tante giovani generazioni di campioni del pedale.
Non solo corse, però, in questo diario fotografico “su due ruote” conservato nel nostro Archivio Storico. Risale all’immediato dopoguerra una serie di servizi realizzati da maestri dell’obiettivo come Federico Patellani e Milani, dedicati alla bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano, fedele compagna di viaggio in un’Italia che sta scoprendo l’immenso valore del potersi muovere liberamente. Uno spaccato di vita per riscoprire quei “social” di un secolo fa.






Quanta vita c’è nelle fotografie delle corse ciclistiche? Con quanta passione il fotografo ha inseguito e catturato l’espressione di fatica dei corridori? La vecchia fotografia di un ciclista spesso è capace da sola di raccontare un’intera esistenza.
Istantanee rubate – spesso pericolosamente – sulle strade di tutto il mondo: una “storia di foto” tutta dedicata all’uomo e alla bicicletta. Navigando lungo la sezione fotografica “Corse velo” del nostro sito sembra di entrare direttamente in un mondo di antichi eroi, tra baffi a manubrio e strade polverose, sguardi ora stremati ora di sfida, dove i grandi campioni del pedale si dividono la stessa fatica con uomini che resteranno sconosciuti alla storia e allo stesso fotografo. Dietro la macchina fotografica – nei primi anni del Novecento – c’è spesso un operatore dell’agenzia Strazza Photo Reportage di Milano: c’è il loro timbro su alcuni piccoli capolavori custoditi presso il nostro Archivio Storico. Come sul geniale fotoritocco del ciclista Carlo Oriani ritratto probabilmente al Parco Trotter di Milano dopo la vittoria al Giro d’italia del 1913. È invece anonimo il ciclista, e imprecisato l’anno, ma è ancora una volta il conosciutissimo fotografo Strazza a comporre il delizioso “ritratto di ciclista con giubbotto impermeabile Pirelli”. Pantaloni alla zuava e coppola in testa, il ciclista è davanti alla vecchia cartiera “Ambrogio Binda” a Milano. Alle sue spalle scorre il Naviglio Pavese. Non sapremo mai di che colore era quel voluminoso giubbotto, ma soprattutto non sapremo mai se il ciclista era lì casualmente o se fosse davvero in posa. Sono invece sicuramente in posa per Strazza i due fratelli belgi Lucien e Marcel, rispettivamente primo e terzo alla “Sei Ore” del 1919. Tra loro, il secondo arrivato Valemberghe: per non sbagliare, una mano anonima ha scritto le posizioni direttamente sulle maglie.
Tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento i reportage di ciclismo sono spesso “firmati” da Lauro Bordin. Veneto originario di Crespino, provincia di Rovigo, classe 1890 e ottimo ciclista a sua volta, dopo il ritiro dalle competizioni nel 1924 Bordin si reinventa fotoreporter per ritrarre i suoi “colleghi” di un tempo. È suo il famosissimo scatto che vede i due piloti automobilistici Tazio Nuvolari e Giuseppe Campari impegnati in un testa a testa su due ruote nel 1932. Sono di Lauro Bordin anche le prime testimonianze fotografiche del Gran Premio Pirelli, torneo ciclistico che negli anni Cinquanta fu trampolino di lancio per tante giovani generazioni di campioni del pedale.
Non solo corse, però, in questo diario fotografico “su due ruote” conservato nel nostro Archivio Storico. Risale all’immediato dopoguerra una serie di servizi realizzati da maestri dell’obiettivo come Federico Patellani e Milani, dedicati alla bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano, fedele compagna di viaggio in un’Italia che sta scoprendo l’immenso valore del potersi muovere liberamente. Uno spaccato di vita per riscoprire quei “social” di un secolo fa.
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Chi è davvero innovatore?
Un libro sintetizza la natura dell’innovazione in azienda e le caratteristiche che deve avere un innovation manager
Sembra facile ma non lo è. Innovare in azienda è probabilmente uno dei passi più complessi e difficili da fare. Anche se spesso gli effetti dell’innovazione fanno apparire questa come un insieme di scelte e di azioni quasi normali. Chi poi deve avviare l’innovazione, lanciarla e poi gestirla, si trova ad essere in una delle posizione più rischiose dell’intera organizzazione della produzione. Insomma, ricoprire la figura dell’innovation manager non è cosa per tutti.
Leggere “Innovation manager. Disegnare e gestire l’innovazione in azienda” scritto da Ivan Ortenzi (Chief Innovation Evangelist e Partner in Bip – Business Integration Partners -, che ha coordinato e diretto progetti di innovation management e innovation strategy in importanti aziende in Italia e all’estero) può essere un buon passo per addentrarsi a ragion veduta nei meandri dell’innovazione aziendale.
Il ragionamento di Ortenzi è semplice: per essere un buon innovation manager occorrono predisposizione, curiosità e coraggio, ma anche un insieme di strumenti e un percorso strutturato che conduca ad una consapevolezza di quello che si può fare e delle proprie capacità. In altre parole, l’innovation manager deve essere supportato da processi e mezzi che, insieme all’investitura da parte dei vertici d’impresa, gli consentano di valorizzare le proprie attitudini al servizio della strategia aziendale, come referente delle iniziative di trasformazione digitale e di evoluzione del modello di business.
Il libro ha proprio l’obiettivo di identificare le competenze necessarie e illustrare gli strumenti fondamentali per svolgere questa professione in azienda in modo efficace ed efficiente. Un compito raggiunto e non solo dal punto di vista teorico. Ogni capitolo è infatti corredato da una conversazione con un innovation manager che racconta l’esperienza diretta di chi ricopre questo ruolo. Passano quindi sotto gli occhi di chi legge temi come la natura reale dell’innovazione, le tipologie di innovazione, l’identikit del manager adatto ad innovare, cosa vi deve essere dentro la “cassetta degli attrezzi” dell’innovation manager, cosa deve accadere nei cosiddetti primi cento giorni da innovation manager.
Il libro di Ortenzi è certamente da leggere gustando non solo il contenuto ma anche lo stile con il quale è portato al lettore: anche questa può essere un’innovazione nel campo della gestione d’impresa. Interessante poi l’elenco al fondo del libro delle frasi usate spesso nelle imprese per “uccidere” l’innovazione.
Innovation manager. Disegnare e gestire l’innovazione in azienda
Franco Angeli, 2018






Un libro sintetizza la natura dell’innovazione in azienda e le caratteristiche che deve avere un innovation manager
Sembra facile ma non lo è. Innovare in azienda è probabilmente uno dei passi più complessi e difficili da fare. Anche se spesso gli effetti dell’innovazione fanno apparire questa come un insieme di scelte e di azioni quasi normali. Chi poi deve avviare l’innovazione, lanciarla e poi gestirla, si trova ad essere in una delle posizione più rischiose dell’intera organizzazione della produzione. Insomma, ricoprire la figura dell’innovation manager non è cosa per tutti.
Leggere “Innovation manager. Disegnare e gestire l’innovazione in azienda” scritto da Ivan Ortenzi (Chief Innovation Evangelist e Partner in Bip – Business Integration Partners -, che ha coordinato e diretto progetti di innovation management e innovation strategy in importanti aziende in Italia e all’estero) può essere un buon passo per addentrarsi a ragion veduta nei meandri dell’innovazione aziendale.
Il ragionamento di Ortenzi è semplice: per essere un buon innovation manager occorrono predisposizione, curiosità e coraggio, ma anche un insieme di strumenti e un percorso strutturato che conduca ad una consapevolezza di quello che si può fare e delle proprie capacità. In altre parole, l’innovation manager deve essere supportato da processi e mezzi che, insieme all’investitura da parte dei vertici d’impresa, gli consentano di valorizzare le proprie attitudini al servizio della strategia aziendale, come referente delle iniziative di trasformazione digitale e di evoluzione del modello di business.
Il libro ha proprio l’obiettivo di identificare le competenze necessarie e illustrare gli strumenti fondamentali per svolgere questa professione in azienda in modo efficace ed efficiente. Un compito raggiunto e non solo dal punto di vista teorico. Ogni capitolo è infatti corredato da una conversazione con un innovation manager che racconta l’esperienza diretta di chi ricopre questo ruolo. Passano quindi sotto gli occhi di chi legge temi come la natura reale dell’innovazione, le tipologie di innovazione, l’identikit del manager adatto ad innovare, cosa vi deve essere dentro la “cassetta degli attrezzi” dell’innovation manager, cosa deve accadere nei cosiddetti primi cento giorni da innovation manager.
Il libro di Ortenzi è certamente da leggere gustando non solo il contenuto ma anche lo stile con il quale è portato al lettore: anche questa può essere un’innovazione nel campo della gestione d’impresa. Interessante poi l’elenco al fondo del libro delle frasi usate spesso nelle imprese per “uccidere” l’innovazione.
Innovation manager. Disegnare e gestire l’innovazione in azienda
Franco Angeli, 2018
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