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Il peso del contesto nella crescita delle imprese

Una ricerca mette a fuoco la difficoltà di governance delle aziende collocate in economie in transizione

 

Governare l’impresa è cosa sempre complessa e delicata. E lo è ancora di più quando ci si trova in ambienti delicati e in transizione. Occorre avere accortezze che in altre situazioni potrebbero essere date per acquisite e che invece, in sistemi economici e politici in movimento, non lo sono affatto.

Il lavoro di tesi di Mustafa Saxhide presentato alle Lecturer at “Riinvest“ College, Pristina, è una buona lettura per capire qualcosa di più su questo tema, che non sempre viene affrontato con attenzione.

La ricerca parte dalla considerazione che, secondo i principi e gli standard delle economie di mercato e in base ai principi dell’OCSE, la Corporate Governance dovrebbe garantire la crescita del valore del patrimonio delle imprese, ma dovrebbe anche fornire una rappresentazione equilibrata degli interessi delle parti coinvolte, in primo luogo, dei proprietari, e poi della direzione e dei dipendenti. Questioni di equilibrio e di compartecipazione, dunque, che si accentuano nelle nuove imprese e nelle imprese private create con le operazioni di privatizzazione.

Tutto poi si complica nelle economie in transizione, specialmente nell’Europa orientale e sud-orientale.

Per ragionare correttamente sull’argomento, Mustafa Saxhide  analizza l’apparato teorico a disposizione e poi effettua una serie di comparazioni fra i sistemi d’impresa di Kosovo, Croazia, Bulgaria e Albania sulla base di indicatori di governance   come la struttura e i metodi di lavoro delle direzione, la trasparenza di gestione, i controlli interni, il ruolo delle istituzioni e degli stakeholders, i diritti degli azionisti.

Le discussioni teoriche e la ricerca empirica – spiega quindi Saxhide  -, in gran parte concludono che i problemi non sono tanto associati al quadro giuridico, ma soprattutto al metodo di attuazione ed al contesto istituzionale oltre che alle difficoltà di applicazione delle normative e alla corruzione.

Imprese dunque non solo alle prese con la necessità di darsi una governance  adeguata economicamente, ma anche – e forse soprattutto -, con l’obbligo di costruire una cultura del lavoro e della produzione che per lunghi periodo non è esistita.

Some Corporate Governance specifications in economies in transition 

Saxhide Mustafa, PhD Candidate, Lecturer at “Riinvest“ College, Pristina

Thesis, no.1, 2018

Una ricerca mette a fuoco la difficoltà di governance delle aziende collocate in economie in transizione

 

Governare l’impresa è cosa sempre complessa e delicata. E lo è ancora di più quando ci si trova in ambienti delicati e in transizione. Occorre avere accortezze che in altre situazioni potrebbero essere date per acquisite e che invece, in sistemi economici e politici in movimento, non lo sono affatto.

Il lavoro di tesi di Mustafa Saxhide presentato alle Lecturer at “Riinvest“ College, Pristina, è una buona lettura per capire qualcosa di più su questo tema, che non sempre viene affrontato con attenzione.

La ricerca parte dalla considerazione che, secondo i principi e gli standard delle economie di mercato e in base ai principi dell’OCSE, la Corporate Governance dovrebbe garantire la crescita del valore del patrimonio delle imprese, ma dovrebbe anche fornire una rappresentazione equilibrata degli interessi delle parti coinvolte, in primo luogo, dei proprietari, e poi della direzione e dei dipendenti. Questioni di equilibrio e di compartecipazione, dunque, che si accentuano nelle nuove imprese e nelle imprese private create con le operazioni di privatizzazione.

Tutto poi si complica nelle economie in transizione, specialmente nell’Europa orientale e sud-orientale.

Per ragionare correttamente sull’argomento, Mustafa Saxhide  analizza l’apparato teorico a disposizione e poi effettua una serie di comparazioni fra i sistemi d’impresa di Kosovo, Croazia, Bulgaria e Albania sulla base di indicatori di governance   come la struttura e i metodi di lavoro delle direzione, la trasparenza di gestione, i controlli interni, il ruolo delle istituzioni e degli stakeholders, i diritti degli azionisti.

Le discussioni teoriche e la ricerca empirica – spiega quindi Saxhide  -, in gran parte concludono che i problemi non sono tanto associati al quadro giuridico, ma soprattutto al metodo di attuazione ed al contesto istituzionale oltre che alle difficoltà di applicazione delle normative e alla corruzione.

Imprese dunque non solo alle prese con la necessità di darsi una governance  adeguata economicamente, ma anche – e forse soprattutto -, con l’obbligo di costruire una cultura del lavoro e della produzione che per lunghi periodo non è esistita.

Some Corporate Governance specifications in economies in transition 

Saxhide Mustafa, PhD Candidate, Lecturer at “Riinvest“ College, Pristina

Thesis, no.1, 2018

Le imprese green crescono di più in fatturato ed export. Una ricerca Ipsos sulla fiducia dei consumatori

Le imprese che hanno scelto comportamenti caratterizzati dalla sostenibilità ambientale e sociale sono più competitive. Ispirano più fiducia ai consumatori. Migliorano il proprio conto economico. E le dimensioni di una economia green sono in crescita, in un’Italia che proprio alle buone imprese affida le sue opportunità di sviluppo economico e sociale, anche in stagioni controverse in cui emergono con prepotenza culture anti-impresa, anti-crescita, anti-mercato. Lo conferma una recente ricerca Ipsos su “La sostenibilità oltre l’etica: nuove opportunità per la CSR”, la Corporate social responsibility.

Per capire meglio, partiamo dalla consapevolezza dei termini della questione.

La sostenibilità, per la maggior parte dell’opinione pubblica italiana (il 35% degli intervistati) viene legata alla tutela dell’ambiente e al suo rispetto nei processi produttivi. Il 28% parla di “necessità di uno sviluppo che permetta di mantenere in equilibrio le risorse naturali attuali e future. E solo il 14% fa riferimento alla “sostenibilità economica” in un sistema che riesca a generare “benessere condiviso”. L’11% parla di “inclusione e tutela di chi è in difficoltà”, in un’ottica di “sostenibilità sociale”. In sintesi: tre quarti parlano soprattutto di ambiente, un quarto di necessità di affrontare anche le diseguaglianze.

Sul piano della conoscenza, insomma, c’è ancora molto da fare. Anche se un dato rassicura sul buon cammino intrapreso: tra il 2014 e il 2018 è aumentato dal 12 al 20% il numero di coloro che dichiarano che, quando si parla di sostenibilità, sanno bene di cosa si tratta.

Una consapevolezza che incide sui comportamenti dei consumatori: i principali driver di acquisto di prodotti sostenibili – spiega la ricerca Ipsos – sono l’etica, la paura (i cambiamenti climatici spaventano il consumatore e lo portano a cercare di limitare il proprio impatto negativo sul pianeta) e la qualità (“la percezione di innovazione e di alta qualità dei beni prodotti in modo sostenibile spinge il consumatore verso acquisti più responsabili”).

Consumatori attenti ed esigenti: il 53% ritiene che l’attenzione alla sostenibilità da parte delle imprese sia aumentata e il 64% considera la corporate social responsibility come una leva fondamentale di successo aziendale. Un’opinione forte, che trova riscontro in quello che pensano i manager delle imprese stesse: il 59% è convinto che “questo sia il momento più propizio per cominciare ad agire in tal senso”.

Essere sostenibili non è solo una corretta scelta morale, una risposta civile ai cambiamenti economici in corso. Ha anche un’evidente convenienza economica. L’indagine Ipsos, infatti, documenta che nelle medie imprese industriali che hanno investito nel green il 58% ha visto incrementare il fatturato, il 41% l’occupazione e il 49% l’export (la fonte è il Rapporto GreenItaly di Unioncamere e Symbola). Migliora dunque anche l’attenzione dei vertici aziendali: il numero di top manager e CSR manager che riconoscono un aumento dell’attenzione al tema da parte dei consigli d’amministrazione delle imprese è cresciuto del 125% (la fonte à l’Osservatorio Sustainability Sentiment 2018 di Aida Partners).

Ma come capire bene se le imprese, quando parlano di sostenibilità, sono chiare, sincere? Utili certificazioni e bilanci sociali, ma anche i loghi che documentano un accertamento della qualità (ISO 9000, Eu Ecolabel o il recente “Made Green in Italy” varato dal ministero dell’Ambiente). Commenta la ricerca Ipsos. “La presenza di loghi e certificazioni rende migliore la percezione di un prodotto e fa aumentare sia la propensione ad acquistarlo sia la disponibilità a pagare un premium price”. Civiltà economica e convenienza, appunto. Una buona sintesi.

Le imprese che hanno scelto comportamenti caratterizzati dalla sostenibilità ambientale e sociale sono più competitive. Ispirano più fiducia ai consumatori. Migliorano il proprio conto economico. E le dimensioni di una economia green sono in crescita, in un’Italia che proprio alle buone imprese affida le sue opportunità di sviluppo economico e sociale, anche in stagioni controverse in cui emergono con prepotenza culture anti-impresa, anti-crescita, anti-mercato. Lo conferma una recente ricerca Ipsos su “La sostenibilità oltre l’etica: nuove opportunità per la CSR”, la Corporate social responsibility.

Per capire meglio, partiamo dalla consapevolezza dei termini della questione.

La sostenibilità, per la maggior parte dell’opinione pubblica italiana (il 35% degli intervistati) viene legata alla tutela dell’ambiente e al suo rispetto nei processi produttivi. Il 28% parla di “necessità di uno sviluppo che permetta di mantenere in equilibrio le risorse naturali attuali e future. E solo il 14% fa riferimento alla “sostenibilità economica” in un sistema che riesca a generare “benessere condiviso”. L’11% parla di “inclusione e tutela di chi è in difficoltà”, in un’ottica di “sostenibilità sociale”. In sintesi: tre quarti parlano soprattutto di ambiente, un quarto di necessità di affrontare anche le diseguaglianze.

Sul piano della conoscenza, insomma, c’è ancora molto da fare. Anche se un dato rassicura sul buon cammino intrapreso: tra il 2014 e il 2018 è aumentato dal 12 al 20% il numero di coloro che dichiarano che, quando si parla di sostenibilità, sanno bene di cosa si tratta.

Una consapevolezza che incide sui comportamenti dei consumatori: i principali driver di acquisto di prodotti sostenibili – spiega la ricerca Ipsos – sono l’etica, la paura (i cambiamenti climatici spaventano il consumatore e lo portano a cercare di limitare il proprio impatto negativo sul pianeta) e la qualità (“la percezione di innovazione e di alta qualità dei beni prodotti in modo sostenibile spinge il consumatore verso acquisti più responsabili”).

Consumatori attenti ed esigenti: il 53% ritiene che l’attenzione alla sostenibilità da parte delle imprese sia aumentata e il 64% considera la corporate social responsibility come una leva fondamentale di successo aziendale. Un’opinione forte, che trova riscontro in quello che pensano i manager delle imprese stesse: il 59% è convinto che “questo sia il momento più propizio per cominciare ad agire in tal senso”.

Essere sostenibili non è solo una corretta scelta morale, una risposta civile ai cambiamenti economici in corso. Ha anche un’evidente convenienza economica. L’indagine Ipsos, infatti, documenta che nelle medie imprese industriali che hanno investito nel green il 58% ha visto incrementare il fatturato, il 41% l’occupazione e il 49% l’export (la fonte è il Rapporto GreenItaly di Unioncamere e Symbola). Migliora dunque anche l’attenzione dei vertici aziendali: il numero di top manager e CSR manager che riconoscono un aumento dell’attenzione al tema da parte dei consigli d’amministrazione delle imprese è cresciuto del 125% (la fonte à l’Osservatorio Sustainability Sentiment 2018 di Aida Partners).

Ma come capire bene se le imprese, quando parlano di sostenibilità, sono chiare, sincere? Utili certificazioni e bilanci sociali, ma anche i loghi che documentano un accertamento della qualità (ISO 9000, Eu Ecolabel o il recente “Made Green in Italy” varato dal ministero dell’Ambiente). Commenta la ricerca Ipsos. “La presenza di loghi e certificazioni rende migliore la percezione di un prodotto e fa aumentare sia la propensione ad acquistarlo sia la disponibilità a pagare un premium price”. Civiltà economica e convenienza, appunto. Una buona sintesi.

Coppi e Bartali, tra uomini e semidei

Come fosse la domanda più semplice del mondo: “ma tu conosci Bartali? conosci Coppi?” Così inizia l’articolo “Come conosco Gino e Fausto“, che Orio Vergani scrive per la rivista Pirelli n° 4 del 1950. “Una domanda che a tanti può sembrar sciocca”, premette l’autore. Perchè chi non conosce Fausto Coppi e Gino Bartali, al culmine di quella dorata stagione 1950? E invece è probabile che neppure “chi dà loro del tu”, e che li segue pazientemente per ore in gara, conosca poi così a fondo questi campioni del pedale. E’ un mestiere silenzioso il loro, e per il cronista saranno al massimo venti parole per gara, qualche occhiata tutt’al più.

Ma Vergani non si dà per vinto: vi sarà pure un modo di “raccontare” Gino e Fausto, i due atleti che in quel momento sono indiscutibilmente le più grandi stelle del ciclismo italiano. E sarà certamente possibile per il grande giornalista del Corriere della Sera farlo in un modo non convenzionale, così come qualche mese prima era riuscito a immortalare un mito della velocità ormai sul viale del tramonto come Tazio Nuvolari. In fondo, un confronto estremamente attento e quasi “scientifico” sui due campioni era già stato fatto da Giuseppe Ambrosini sul numero 3 della stessa Rivista, nel 1949. Un articolo in cui Bartali e Coppi erano stati radiografati fino all’ultimo tendine, studiati nel più profondo della loro psicologia.

E poi c’era il grande Nino Nutrizio che seguiva da anni le loro imprese sportive, traendone meticolosi diari e andando a “spiarli” anche quando era il loro momento del riposo. Insomma, ci si doveva inventare qualcosa d’altro per continuare a raccontare i due campioni. Quando ne scrive in quell’estate del 1950, Vergani conosce Bartali ormai da una quindicina d’anni. E’ “la locomotiva umana”, ma non ha scatto. Il suo talento emerge nella lunga regolarità “forte come la pioggia di novembre e nera come i temporali d’estate”. Un talento che nel Tour de France del 1948 fa dire a Bartali, in enorme ritardo sull’avversario Louison Bobet, “il giro termina a Parigi”. E infatti sarà il campione italiano a vincere il Tour, entrando nella storia con la sua perseveranza anche di fronte all’impossibile. Fausto Coppi è invece “l’uomo che porta sulle spalle il peso e la responsabilità di essere l’atleta più fenomenale che, dopo Binda, mi sia accaduto di vedere”, dice il grande veterano di interviste agli sportivi Orio Vergani.

Coppi è un fenomeno, sa di esserlo e non lo vorrebbe. La malinconia, l’incertezza, il peso della responsabilità sono le cifre della sua vita. Nel racconto di Vergani, Bartali è solare come può esserlo un uomo, mentre Coppi è enigmatico come un superuomo; paragona l’uno ad Ulisse – paziente iroso figlio di mortali – e l’altro ad Achille, figlio degli dei e desideroso di rinunciare ai doni divini. Sì, tutti ma proprio tutti conoscono “Gino e Fausto” in quell’estate del 1950. Ma forse nessuno li conosce come Orio Vergani.

Come fosse la domanda più semplice del mondo: “ma tu conosci Bartali? conosci Coppi?” Così inizia l’articolo “Come conosco Gino e Fausto“, che Orio Vergani scrive per la rivista Pirelli n° 4 del 1950. “Una domanda che a tanti può sembrar sciocca”, premette l’autore. Perchè chi non conosce Fausto Coppi e Gino Bartali, al culmine di quella dorata stagione 1950? E invece è probabile che neppure “chi dà loro del tu”, e che li segue pazientemente per ore in gara, conosca poi così a fondo questi campioni del pedale. E’ un mestiere silenzioso il loro, e per il cronista saranno al massimo venti parole per gara, qualche occhiata tutt’al più.

Ma Vergani non si dà per vinto: vi sarà pure un modo di “raccontare” Gino e Fausto, i due atleti che in quel momento sono indiscutibilmente le più grandi stelle del ciclismo italiano. E sarà certamente possibile per il grande giornalista del Corriere della Sera farlo in un modo non convenzionale, così come qualche mese prima era riuscito a immortalare un mito della velocità ormai sul viale del tramonto come Tazio Nuvolari. In fondo, un confronto estremamente attento e quasi “scientifico” sui due campioni era già stato fatto da Giuseppe Ambrosini sul numero 3 della stessa Rivista, nel 1949. Un articolo in cui Bartali e Coppi erano stati radiografati fino all’ultimo tendine, studiati nel più profondo della loro psicologia.

E poi c’era il grande Nino Nutrizio che seguiva da anni le loro imprese sportive, traendone meticolosi diari e andando a “spiarli” anche quando era il loro momento del riposo. Insomma, ci si doveva inventare qualcosa d’altro per continuare a raccontare i due campioni. Quando ne scrive in quell’estate del 1950, Vergani conosce Bartali ormai da una quindicina d’anni. E’ “la locomotiva umana”, ma non ha scatto. Il suo talento emerge nella lunga regolarità “forte come la pioggia di novembre e nera come i temporali d’estate”. Un talento che nel Tour de France del 1948 fa dire a Bartali, in enorme ritardo sull’avversario Louison Bobet, “il giro termina a Parigi”. E infatti sarà il campione italiano a vincere il Tour, entrando nella storia con la sua perseveranza anche di fronte all’impossibile. Fausto Coppi è invece “l’uomo che porta sulle spalle il peso e la responsabilità di essere l’atleta più fenomenale che, dopo Binda, mi sia accaduto di vedere”, dice il grande veterano di interviste agli sportivi Orio Vergani.

Coppi è un fenomeno, sa di esserlo e non lo vorrebbe. La malinconia, l’incertezza, il peso della responsabilità sono le cifre della sua vita. Nel racconto di Vergani, Bartali è solare come può esserlo un uomo, mentre Coppi è enigmatico come un superuomo; paragona l’uno ad Ulisse – paziente iroso figlio di mortali – e l’altro ad Achille, figlio degli dei e desideroso di rinunciare ai doni divini. Sì, tutti ma proprio tutti conoscono “Gino e Fausto” in quell’estate del 1950. Ma forse nessuno li conosce come Orio Vergani.

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Manifatture aperte a Milano, per fare conoscere industria e ricerca. L’esempio dei laboratori Pirelli e i racconti d’innovazione digitale

Aprire le fabbriche. Renderle visibili ai cittadini, agli studenti, a coloro che abitano nei territori industriali e a tutti quelli che ne hanno solo sentito parlare (e spesso male, con accenti negativi). E farle vivere, per un giorno, in pubblico, per ciò che sono: luoghi positivi di lavoro e di relazioni personali, in cui convivono macchine di produzione e laboratori di ricerca, robot hi tech e torni d’antica tradizione meccanica, computer e attrezzi di raffinato artigianato manuale, mense e biblioteche. Fabbriche che raccontano fatica e invenzione, salario e benessere, interessi talvolta contrastanti e inclusione sociale (si cresce, in fabbrica, e si fa carriera molto spesso per merito e per capacità, indipendentemente dalle caratteristiche personali di razza, cultura, religione, genere, appartenenze). Fabbriche, un luogo civile. In un’Italia che, nonostante la crisi, resta il secondo paese manifatturiero d’Europa, subito dopo la Germania: un primato da rivendicare e rafforzare.

“Fabbriche aperte” è un’intelligente iniziativa nata anni fa in Federchimica (ha fatto capire a migliaia di italiani che l’industria chimica è tutt’altro che sporca, pericolosa e inquinante, ma una protagonista, semmai, d’un corretto sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista ambientale). E a “fabbriche aperte”, nel tempo, hanno dedicato grande impegno parecchie industrie del Veneto, del Piemonte, della Lombardia. Molte imprese hanno “l’Open Day”, con stabilimenti e uffici aperti ai familiari e ai figli dei dipendenti.

Adesso, a Milano, nasce “Manifatture aperte”, su iniziativa del Comune e con la collaborazione di settanta imprese, tra aziende industriali, laboratori, atelier e botteghe artigiane, maker space, musei scientifici, centri di ricerca e “Fab Lab”: il 29 settembre sarà “una giornata di visite guidate, workshop e incontri alla scoperta dei luoghi in cui nascono gli oggetti del made in Italy ricercati in tutto il mondo. Un appuntamento ideato e voluto dal Comune di Milano per avvicinare i cittadini, i giovani e gli studenti alla nuova e antica manifattura valorizzando nel contempo il grande patrimonio di sapienza artigiana di ieri e di oggi presente in città”.

Il giudizio è di Cristina Tajani, assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive, Commercio, Moda e Design. Che insiste: “E’ importante, per i milanesi, vedere cosa succede dietro le quinte di una creazione industriale o artigianale. E per noi amministratori questo è un tassello del programma ‘Manifattura Milano’ che vuole incentivare il ritorno della ‘manifattura leggera’ in città, con l’obiettivo di rigenerare aree dismesse e creare buona occupazione, permettendo a tanti giovani di trasformare la propria creatività in idee, progetti e oggetti grazie all’uso sempre più diffuso delle nuove tecnologie, dalle stampanti 3D ai laser cutter che rendono più semplice ed economica la prototipazione”.

Cosa si vedrà, nei settanta luoghi del “fare, e fare bene”, nelle fabbriche, piccole e grandi, in cui si esprime tutta l’intraprendenza tipica della storia e dell’attualità di Milano? Spiega l’assessore Tajani: “Dal laboratorio che produce i cappelli per i reali inglesi alla fabbrica che crea le chitarre in alluminio per gli idoli del rock come Lou Reed e Ben Harper, passando per il laboratorio della Pirelli dove nascono i mitici pneumatici da Formula1 sino all’officina meccanica che realizza a mano e con l’ausilio delle nuove stampanti 3D i componenti per riportare in vita le fuoriserie d’epoca o scoprire i segreti della legatoria d’arte o di come nascono un anello in un laboratorio orafo o un paio di scarpe artigianali”.

L’elenco completo degli aderenti alla manifestazione è su www.manifattura.milano.it. Qui in Pirelli, in particolare, il programma del 29 settembre prevede visite guidate nei laboratori di ricerca, sviluppo e sperimentazione nell’HeadQuarters di Bicocca, dove sarà possibile vedere come si crea un prototipo di pneumatico, combinando tecnologie innovative ed esperta manualità e assistere ad alcuni test tra quelli utilizzati da Pirelli per lo sviluppo dei pneumatici stradali e da competizione. Un’eccellenza italiana di valore internazionale.

Milano, la Milano grande dell’area metropolitana, in trasformazione come smart city di respiro globale, è ancora una città industriale, in cui la manifattura incide per il 29% sul Pil (il Prodotto interno lordo), molto più dunque della media nazionale (il 17%) ma anche della media tedesca (il 22%). Ed è una manifattura in grande cambiamento, nel cuore di una vera e propria svolta digital dell’economia, secondo i criteri di “Industria 4.0”: la produzione si lega ai servizi hi tech, le sofisticate abilità produttive migliorano la propria competitività con un robusto contributo di centri di ricerca, le competenze industriali si rafforzano con il sostegno dell’”economia della conoscenza” rafforzata da università (Politecnico, Bocconi, Cattolica, Statale, Bicocca, Humanitas) che conquistano posizioni di rilievo tra i migliori centri di formazione e ricerca internazionali. La meccanica diventa meccatronica, si raggiungono alti livelli di produttività per gomma e plastica, automotive, chimica e farmaceutica, life sciences e negli stessi settori tradizionali del made in Italy, abbigliamento e moda, arredamento e industria agroalimentare. Milano industriale è contemporaneità d’avanguardia e possibilità d’un buon futuro.

Sostiene Stefano Micelli, economista attento a tutti i fenomeni di “Industria 4.0”, presidente dell’Advisory Board Manifattura Milano: “Visitare gli spazi del lavoro e della manifattura consente di scoprire la vitalità e la qualità di tante imprese e laboratori artigiani che danno vita alla città di Milano. L’obiettivo della manifestazione è creare sempre più consapevolezza rispetto al patrimonio economico e culturale che queste realtà rappresentano e mettere in evidenza il loro potenziale di crescita. L’iniziativa si rivolge soprattutto ai giovani che oggi sono alla ricerca di opportunità di lavoro: la manifattura attiva in città ha bisogno del loro talento per sviluppare design e innovazione tecnologica”.

Cultura, tecnologia, sviluppo. Spiega Marco Taisch, Scientific Chairman del “World Manufacturing Forum” (la Fondazione che lo promuove è un buon esempio di collaborazione tra imprese, mondo accademico, istituzioni e mondo associativo per generare e diffondere cultura sul settore manifatturiero): “La manifattura è primo generatore di ricchezza ed equilibratore sociale, come mezzo di ulteriore sviluppo delle economie evolute e anche come strumento fondamentale per la crescita delle aree del mondo meno sviluppate”. L’Annual Meeting di Cernobbio del “World Manifacturing Forum”, in programma il 27 e 28 settembre (in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, l’Assolombarda, Confartigianato, Ance e una serie di altre organizzazioni di impresa e ricerca), proverà a “delineare e a incidere, a livello europeo e globale, sugli scenari futuri, approfondendo il senso delle innovazioni che dal manifatturiero impatteranno anche sui servizi oltre che sulla vita delle persone. Per questi motivi, il gemellaggio tra Manifatture Aperte e il WMF è una partnership naturale nata dalla condivisione di obiettivi da raggiungere insieme attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del manifatturiero urbano e regionale in un’ottica internazionale”.

Sulle connessioni tra manifattura e processi digital c’è, proprio da parte di Pirelli, un’attenzione particolare. Tutto il Gruppo segue da tempo processi che vanno in questa direzione, in un quadro di “cultura politecnica” che interpreta l’innovazione come un impegno generale che lega prodotti, processi produttivi, materiali, relazioni industriali, linguaggi della ricerca, del marketing e della comunicazione. E se ne trovano tracce significative anche in un documento che coniuga risultati aziendali e indicazioni progettuali: il  Bilancio Integrato 2017.

La digital trasformation Pirelli, nel Bilancio, è affiancata al racconto di cinque storie di “artigiani 4.0” che hanno colto nella trasformazione digitale la chiave per far crescere la propria attività (ne parleremo meglio tra poco). E il titolo è esemplare: “Data meets passion”, per confermare e rilanciare la tradizione della società di raccontare il bilancio al di là dei numeri ricorrendo all’arte e alla letteratura. Stavolta i contributi artistici e culturali, per raccontare come il digitale cambi radicalmente culture e abitudini nella società e nelle persone, sono quelli dell’artista Emiliano Ponzi e di tre scrittori di fama internazionale: Mohsin Hamid, Tom McCarty e Ted Chiang. E queste sono le storie dei cinque artigiani digitali, con idee di business rafforzate da modelli tecnologici avanzato: la “3Bee” (un’arnia hi tech che, attraverso sensori, monitora l’intero ciclo produttivo dell’alveare anche da remoto), “Alter Ego” (grazie a un software 3D produce tavole da surf ecosostenibili su misura), “Demeter.life” (utilizzando la tecnologia blockchain si instaura un rapporto diretto tra consumatori e agricoltori di tutto il mondo per migliorare le colture sostenibili), la “Tappezzeria Druetta” (il rilancio dell’industria di famiglia con progettazione 3D e virtual room per design d’arredamento su misura) e “Differenthood” (una piattaforma online su cui, partendo da 5mila tessuti e con oltre 1 miliardo di combinazioni possibili, si possono creare capi d’abbigliamento unici e 100% made in Italy che poi si possono condividere con la community).

C’è dunque, nel Bilancio Integrato Pirelli 2017, accanto ai dati aziendali, una indicazione generale sui valori del “fare”, nel mondo digitale. E c’è il raccontare. Con forti implicazioni letterarie e politiche. Come testimonia Tom McCarthy: “Nell’ascesa della cultura digitale…. è la politica a diventare una questione letteraria. Letteraria nel senso che la  vita pubblica – e privata – si ritrova governata dalla propria trascrizione: quando tutto viene annotato in un registro di qualche tipo, allora l’esperienza in quanto tale, e con essa il problema del libero agente (siamo padroni di noi stessi? O tutti i nostri gesti e le nostre decisioni sono governati e decisi dagli algoritmi?), si riducono a istanze e atti di scrittura”.

La sintesi? Manifatture aperte, appunto. E parole per continuare a farle vivere.

Aprire le fabbriche. Renderle visibili ai cittadini, agli studenti, a coloro che abitano nei territori industriali e a tutti quelli che ne hanno solo sentito parlare (e spesso male, con accenti negativi). E farle vivere, per un giorno, in pubblico, per ciò che sono: luoghi positivi di lavoro e di relazioni personali, in cui convivono macchine di produzione e laboratori di ricerca, robot hi tech e torni d’antica tradizione meccanica, computer e attrezzi di raffinato artigianato manuale, mense e biblioteche. Fabbriche che raccontano fatica e invenzione, salario e benessere, interessi talvolta contrastanti e inclusione sociale (si cresce, in fabbrica, e si fa carriera molto spesso per merito e per capacità, indipendentemente dalle caratteristiche personali di razza, cultura, religione, genere, appartenenze). Fabbriche, un luogo civile. In un’Italia che, nonostante la crisi, resta il secondo paese manifatturiero d’Europa, subito dopo la Germania: un primato da rivendicare e rafforzare.

“Fabbriche aperte” è un’intelligente iniziativa nata anni fa in Federchimica (ha fatto capire a migliaia di italiani che l’industria chimica è tutt’altro che sporca, pericolosa e inquinante, ma una protagonista, semmai, d’un corretto sviluppo sostenibile, anche dal punto di vista ambientale). E a “fabbriche aperte”, nel tempo, hanno dedicato grande impegno parecchie industrie del Veneto, del Piemonte, della Lombardia. Molte imprese hanno “l’Open Day”, con stabilimenti e uffici aperti ai familiari e ai figli dei dipendenti.

Adesso, a Milano, nasce “Manifatture aperte”, su iniziativa del Comune e con la collaborazione di settanta imprese, tra aziende industriali, laboratori, atelier e botteghe artigiane, maker space, musei scientifici, centri di ricerca e “Fab Lab”: il 29 settembre sarà “una giornata di visite guidate, workshop e incontri alla scoperta dei luoghi in cui nascono gli oggetti del made in Italy ricercati in tutto il mondo. Un appuntamento ideato e voluto dal Comune di Milano per avvicinare i cittadini, i giovani e gli studenti alla nuova e antica manifattura valorizzando nel contempo il grande patrimonio di sapienza artigiana di ieri e di oggi presente in città”.

Il giudizio è di Cristina Tajani, assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive, Commercio, Moda e Design. Che insiste: “E’ importante, per i milanesi, vedere cosa succede dietro le quinte di una creazione industriale o artigianale. E per noi amministratori questo è un tassello del programma ‘Manifattura Milano’ che vuole incentivare il ritorno della ‘manifattura leggera’ in città, con l’obiettivo di rigenerare aree dismesse e creare buona occupazione, permettendo a tanti giovani di trasformare la propria creatività in idee, progetti e oggetti grazie all’uso sempre più diffuso delle nuove tecnologie, dalle stampanti 3D ai laser cutter che rendono più semplice ed economica la prototipazione”.

Cosa si vedrà, nei settanta luoghi del “fare, e fare bene”, nelle fabbriche, piccole e grandi, in cui si esprime tutta l’intraprendenza tipica della storia e dell’attualità di Milano? Spiega l’assessore Tajani: “Dal laboratorio che produce i cappelli per i reali inglesi alla fabbrica che crea le chitarre in alluminio per gli idoli del rock come Lou Reed e Ben Harper, passando per il laboratorio della Pirelli dove nascono i mitici pneumatici da Formula1 sino all’officina meccanica che realizza a mano e con l’ausilio delle nuove stampanti 3D i componenti per riportare in vita le fuoriserie d’epoca o scoprire i segreti della legatoria d’arte o di come nascono un anello in un laboratorio orafo o un paio di scarpe artigianali”.

L’elenco completo degli aderenti alla manifestazione è su www.manifattura.milano.it. Qui in Pirelli, in particolare, il programma del 29 settembre prevede visite guidate nei laboratori di ricerca, sviluppo e sperimentazione nell’HeadQuarters di Bicocca, dove sarà possibile vedere come si crea un prototipo di pneumatico, combinando tecnologie innovative ed esperta manualità e assistere ad alcuni test tra quelli utilizzati da Pirelli per lo sviluppo dei pneumatici stradali e da competizione. Un’eccellenza italiana di valore internazionale.

Milano, la Milano grande dell’area metropolitana, in trasformazione come smart city di respiro globale, è ancora una città industriale, in cui la manifattura incide per il 29% sul Pil (il Prodotto interno lordo), molto più dunque della media nazionale (il 17%) ma anche della media tedesca (il 22%). Ed è una manifattura in grande cambiamento, nel cuore di una vera e propria svolta digital dell’economia, secondo i criteri di “Industria 4.0”: la produzione si lega ai servizi hi tech, le sofisticate abilità produttive migliorano la propria competitività con un robusto contributo di centri di ricerca, le competenze industriali si rafforzano con il sostegno dell’”economia della conoscenza” rafforzata da università (Politecnico, Bocconi, Cattolica, Statale, Bicocca, Humanitas) che conquistano posizioni di rilievo tra i migliori centri di formazione e ricerca internazionali. La meccanica diventa meccatronica, si raggiungono alti livelli di produttività per gomma e plastica, automotive, chimica e farmaceutica, life sciences e negli stessi settori tradizionali del made in Italy, abbigliamento e moda, arredamento e industria agroalimentare. Milano industriale è contemporaneità d’avanguardia e possibilità d’un buon futuro.

Sostiene Stefano Micelli, economista attento a tutti i fenomeni di “Industria 4.0”, presidente dell’Advisory Board Manifattura Milano: “Visitare gli spazi del lavoro e della manifattura consente di scoprire la vitalità e la qualità di tante imprese e laboratori artigiani che danno vita alla città di Milano. L’obiettivo della manifestazione è creare sempre più consapevolezza rispetto al patrimonio economico e culturale che queste realtà rappresentano e mettere in evidenza il loro potenziale di crescita. L’iniziativa si rivolge soprattutto ai giovani che oggi sono alla ricerca di opportunità di lavoro: la manifattura attiva in città ha bisogno del loro talento per sviluppare design e innovazione tecnologica”.

Cultura, tecnologia, sviluppo. Spiega Marco Taisch, Scientific Chairman del “World Manufacturing Forum” (la Fondazione che lo promuove è un buon esempio di collaborazione tra imprese, mondo accademico, istituzioni e mondo associativo per generare e diffondere cultura sul settore manifatturiero): “La manifattura è primo generatore di ricchezza ed equilibratore sociale, come mezzo di ulteriore sviluppo delle economie evolute e anche come strumento fondamentale per la crescita delle aree del mondo meno sviluppate”. L’Annual Meeting di Cernobbio del “World Manifacturing Forum”, in programma il 27 e 28 settembre (in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, l’Assolombarda, Confartigianato, Ance e una serie di altre organizzazioni di impresa e ricerca), proverà a “delineare e a incidere, a livello europeo e globale, sugli scenari futuri, approfondendo il senso delle innovazioni che dal manifatturiero impatteranno anche sui servizi oltre che sulla vita delle persone. Per questi motivi, il gemellaggio tra Manifatture Aperte e il WMF è una partnership naturale nata dalla condivisione di obiettivi da raggiungere insieme attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del manifatturiero urbano e regionale in un’ottica internazionale”.

Sulle connessioni tra manifattura e processi digital c’è, proprio da parte di Pirelli, un’attenzione particolare. Tutto il Gruppo segue da tempo processi che vanno in questa direzione, in un quadro di “cultura politecnica” che interpreta l’innovazione come un impegno generale che lega prodotti, processi produttivi, materiali, relazioni industriali, linguaggi della ricerca, del marketing e della comunicazione. E se ne trovano tracce significative anche in un documento che coniuga risultati aziendali e indicazioni progettuali: il  Bilancio Integrato 2017.

La digital trasformation Pirelli, nel Bilancio, è affiancata al racconto di cinque storie di “artigiani 4.0” che hanno colto nella trasformazione digitale la chiave per far crescere la propria attività (ne parleremo meglio tra poco). E il titolo è esemplare: “Data meets passion”, per confermare e rilanciare la tradizione della società di raccontare il bilancio al di là dei numeri ricorrendo all’arte e alla letteratura. Stavolta i contributi artistici e culturali, per raccontare come il digitale cambi radicalmente culture e abitudini nella società e nelle persone, sono quelli dell’artista Emiliano Ponzi e di tre scrittori di fama internazionale: Mohsin Hamid, Tom McCarty e Ted Chiang. E queste sono le storie dei cinque artigiani digitali, con idee di business rafforzate da modelli tecnologici avanzato: la “3Bee” (un’arnia hi tech che, attraverso sensori, monitora l’intero ciclo produttivo dell’alveare anche da remoto), “Alter Ego” (grazie a un software 3D produce tavole da surf ecosostenibili su misura), “Demeter.life” (utilizzando la tecnologia blockchain si instaura un rapporto diretto tra consumatori e agricoltori di tutto il mondo per migliorare le colture sostenibili), la “Tappezzeria Druetta” (il rilancio dell’industria di famiglia con progettazione 3D e virtual room per design d’arredamento su misura) e “Differenthood” (una piattaforma online su cui, partendo da 5mila tessuti e con oltre 1 miliardo di combinazioni possibili, si possono creare capi d’abbigliamento unici e 100% made in Italy che poi si possono condividere con la community).

C’è dunque, nel Bilancio Integrato Pirelli 2017, accanto ai dati aziendali, una indicazione generale sui valori del “fare”, nel mondo digitale. E c’è il raccontare. Con forti implicazioni letterarie e politiche. Come testimonia Tom McCarthy: “Nell’ascesa della cultura digitale…. è la politica a diventare una questione letteraria. Letteraria nel senso che la  vita pubblica – e privata – si ritrova governata dalla propria trascrizione: quando tutto viene annotato in un registro di qualche tipo, allora l’esperienza in quanto tale, e con essa il problema del libero agente (siamo padroni di noi stessi? O tutti i nostri gesti e le nostre decisioni sono governati e decisi dagli algoritmi?), si riducono a istanze e atti di scrittura”.

La sintesi? Manifatture aperte, appunto. E parole per continuare a farle vivere.

L’impresa futura

Appena pubblicato, un libro affronta dal punto di vista filosofico il domani

 

Occorre avere un’idea del futuro. Avere obiettivo da raggiungere, traguardi da agguantare. Ed è necessario dotarsi anche di strumenti di interpretazione della realtà che possano condurre ad una visione corretta di quanto accadrà. Serve una filosofia che porti al futuro senza illusioni. Vale anche – e soprattutto -, per le imprese.

Leggere “Filosofia del futuro. Un’introduzione” di Samuele Iaquinto e Giuliano Torrengo (entrambi del Dipartimento di filosofia dell’Università di Milano), è allora una buona cosa da fare un po’ per tutti; anche per manager e imprenditori.

Il volume offre un’introduzione al contempo accessibile e rigorosa ai più recenti sviluppi di una fondamentale branca della filosofia del tempo: la filosofia del futuro, appunto. Al centro dell’attenzione sono le domande chiave del dibattito contemporaneo. Il futuro è già scritto o esistono cammini alternativi che il tempo è in grado di imboccare? Esistere significa semplicemente essere presenti o ci sono veri e propri oggetti futuri? Siamo davvero liberi di scegliere quali azioni compiere e di modificare il corso degli eventi? Interrogativi che possono essere trasposti dal piano individuale a quelli molteplici dell’azione d’impresa. E le cui risposte si fanno via via più complesse. A partire dalla loro stessa interpretazione filosofica.  Il dibattito intorno a questi temi, infatti, esplora una zona d’intersezione tra metafisica, logica ed etica, e interessa discipline diverse come la fisica, la psicologia e l’economia. Ogni aspetto si riflette nell’articolazione del libro che prende in considerazione in successione: la metafisica, la logica, i viaggi e l’etica del futuro.

“Filosofia del futuro” non è un libro che esplora argomenti alla moda, ma uno strumento per capire meglio cosa accade intorno alle attività umane per tentare poi di arrivare meglio preparati al domani.

Filosofia del futuro. Un’introduzione

Samuele Iaquinto, Giuliano Torrengo

Raffaello Cortina  Editore, 2018

Appena pubblicato, un libro affronta dal punto di vista filosofico il domani

 

Occorre avere un’idea del futuro. Avere obiettivo da raggiungere, traguardi da agguantare. Ed è necessario dotarsi anche di strumenti di interpretazione della realtà che possano condurre ad una visione corretta di quanto accadrà. Serve una filosofia che porti al futuro senza illusioni. Vale anche – e soprattutto -, per le imprese.

Leggere “Filosofia del futuro. Un’introduzione” di Samuele Iaquinto e Giuliano Torrengo (entrambi del Dipartimento di filosofia dell’Università di Milano), è allora una buona cosa da fare un po’ per tutti; anche per manager e imprenditori.

Il volume offre un’introduzione al contempo accessibile e rigorosa ai più recenti sviluppi di una fondamentale branca della filosofia del tempo: la filosofia del futuro, appunto. Al centro dell’attenzione sono le domande chiave del dibattito contemporaneo. Il futuro è già scritto o esistono cammini alternativi che il tempo è in grado di imboccare? Esistere significa semplicemente essere presenti o ci sono veri e propri oggetti futuri? Siamo davvero liberi di scegliere quali azioni compiere e di modificare il corso degli eventi? Interrogativi che possono essere trasposti dal piano individuale a quelli molteplici dell’azione d’impresa. E le cui risposte si fanno via via più complesse. A partire dalla loro stessa interpretazione filosofica.  Il dibattito intorno a questi temi, infatti, esplora una zona d’intersezione tra metafisica, logica ed etica, e interessa discipline diverse come la fisica, la psicologia e l’economia. Ogni aspetto si riflette nell’articolazione del libro che prende in considerazione in successione: la metafisica, la logica, i viaggi e l’etica del futuro.

“Filosofia del futuro” non è un libro che esplora argomenti alla moda, ma uno strumento per capire meglio cosa accade intorno alle attività umane per tentare poi di arrivare meglio preparati al domani.

Filosofia del futuro. Un’introduzione

Samuele Iaquinto, Giuliano Torrengo

Raffaello Cortina  Editore, 2018

La cultura dell’impresa culturale

Un intervento appena pubblicato studia le differenze di regole fra l’ordinamento italiano e quello europeo, indicando un’evoluzione diversa

 

Si fa impresa anche facendo cultura. Anzi, è la stessa attività d’impresa a costituire un elemento culturale se, occorre sottolinearlo, questa è ben gestita e soprattutto ha un occhio attento al ruolo dell’uomo nella produzione ed a quello del territorio. Cultura come impresa dunque, con una sua precisa dimensione economica che va compresa e tutelata. E’ attorno a questi argomenti che ruota il lavoro di Alessia Ottavia Cozzi pubblicato da poche settimane.

“La dimensione economica del patrimonio culturale. Dimensione economica e dimensione culturale europea” ha proprio l’obiettivo di confrontare il significato di “dimensione economica” del patrimonio culturale nel quadro giuridico italiano e europeo. Operazione di non poco conto, perché è proprio dalle regole che passa buona parte della possibilità di fare impresa anche con la cultura.

A.O. Cozzi spiega come nel quadro italiano la dimensione economica riguardi principalmente le interazioni pubblico-privato per fornire servizi relativi ai beni culturali. Nel quadro europeo, invece, a causa della crisi economica negli ultimi anni, le politiche dell’UE nel campo della cultura si spostano dalla diversità culturale e dal dialogo interculturale all’industria e agli investimenti. La cultura è stata quindi percepita come un fattore chiave per la crescita e la creazione di posti di lavoro. Per incoraggiare lo sviluppo economico, l’UE ricorre quindi ad una varietà di strumenti di finanziamento e strumenti di soft law, come il metodo di coordinamento culturale aperto. Ed è qui che Cozzi lancia l’allarme: la logica degli strumenti di intervento europei potrebbe minare gli obiettivi costituzionali italiani non economici e sociali per la protezione del patrimonio culturale. Non si tratta, precisa l’autrice, di regole contro quelle italiane ma di regole costruite in modo tale da sostituire quelle de Paese.

L’intervento di Alessia Ottavia Cozzi propone così una cultura dell’impresa culturale che si diversifica a seconda del tipo di regole seguite, perché queste influenzano il tipo di organizzazione della produzione culturale che viene costruito. L’articolo di A.C. Cozzi non è sempre facilissimo da leggere, ma rappresenta una buona strada per conoscere un’interpretazione diversa dell’intendere la cultura d’impresa.

La dimensione economica del patrimonio culturale. Dimensione economica e dimensione culturale europea

Alessia Ottavia Cozzi

Aedon, Fascicolo 2, maggio-agosto 2018

Un intervento appena pubblicato studia le differenze di regole fra l’ordinamento italiano e quello europeo, indicando un’evoluzione diversa

 

Si fa impresa anche facendo cultura. Anzi, è la stessa attività d’impresa a costituire un elemento culturale se, occorre sottolinearlo, questa è ben gestita e soprattutto ha un occhio attento al ruolo dell’uomo nella produzione ed a quello del territorio. Cultura come impresa dunque, con una sua precisa dimensione economica che va compresa e tutelata. E’ attorno a questi argomenti che ruota il lavoro di Alessia Ottavia Cozzi pubblicato da poche settimane.

“La dimensione economica del patrimonio culturale. Dimensione economica e dimensione culturale europea” ha proprio l’obiettivo di confrontare il significato di “dimensione economica” del patrimonio culturale nel quadro giuridico italiano e europeo. Operazione di non poco conto, perché è proprio dalle regole che passa buona parte della possibilità di fare impresa anche con la cultura.

A.O. Cozzi spiega come nel quadro italiano la dimensione economica riguardi principalmente le interazioni pubblico-privato per fornire servizi relativi ai beni culturali. Nel quadro europeo, invece, a causa della crisi economica negli ultimi anni, le politiche dell’UE nel campo della cultura si spostano dalla diversità culturale e dal dialogo interculturale all’industria e agli investimenti. La cultura è stata quindi percepita come un fattore chiave per la crescita e la creazione di posti di lavoro. Per incoraggiare lo sviluppo economico, l’UE ricorre quindi ad una varietà di strumenti di finanziamento e strumenti di soft law, come il metodo di coordinamento culturale aperto. Ed è qui che Cozzi lancia l’allarme: la logica degli strumenti di intervento europei potrebbe minare gli obiettivi costituzionali italiani non economici e sociali per la protezione del patrimonio culturale. Non si tratta, precisa l’autrice, di regole contro quelle italiane ma di regole costruite in modo tale da sostituire quelle de Paese.

L’intervento di Alessia Ottavia Cozzi propone così una cultura dell’impresa culturale che si diversifica a seconda del tipo di regole seguite, perché queste influenzano il tipo di organizzazione della produzione culturale che viene costruito. L’articolo di A.C. Cozzi non è sempre facilissimo da leggere, ma rappresenta una buona strada per conoscere un’interpretazione diversa dell’intendere la cultura d’impresa.

La dimensione economica del patrimonio culturale. Dimensione economica e dimensione culturale europea

Alessia Ottavia Cozzi

Aedon, Fascicolo 2, maggio-agosto 2018

Un autunno con la Fondazione Pirelli

Proseguono anche in questo autunno 2018 le iniziative di promozione della Cultura d’Impresa e i festeggiamenti del decimo anniversario della nostra Fondazione.

Il 13 luglio abbiamo riaperto le porte della Fondazione a “Bicocca racconta”, iniziativa che proseguirà con 3 nuovi appuntamenti il 28 settembre, il 5 ottobre e il 15 novembre, promossa in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca in occasione di un duplice anniversario: il decennale della Fondazione e il ventennale dell’Università milanese. Un percorso che permette ai visitatori di scoprire – oltre al patrimonio storico aziendale conservato in Fondazione Pirelli – alcuni degli edifici del campus universitario, seguendo il racconto della trasformazione urbanistica del quartiere Bicocca da “fabbrica di prodotti” a “fabbrica di idee”.

Numerose anche le novità del nuovo programma educational 2018-2019 firmato Fondazione Pirelli: bambini e ragazzi potranno confrontarsi con tematiche di attualità come il welfare aziendale,  la multiculturalità e la sostenibilità come leve di competitività delle imprese. Al centro delle nuove proposte la storia della comunicazione visiva tra design d’autore e campagne globali dagli anni Settanta fino ai primi anni Duemila, raccontata attraverso video-proiezioni e materiali d’archivio della nuova mostra in corso in Fondazione.

La nuova mostra e il ricco patrimonio audiovisivo di Pirelli, costituito da centinaia di film su pellicola e nastro magnetico dal 1912, sono stati in questo mese di settembre anche i focus dei tour guidati proposti nell’ambito della prima edizione della Milano Movie Week, iniziativa promossa e coordinata dal Comune di Milano. Una settimana – dal 14 al 21 settembre – in un palinsesto di eventi diffuso, che ha coinvolto tutte le realtà milanesi che si occupano di cinema: le sale cinematografiche, i festival, le scuole di cinema, le case di produzione, le organizzazioni e le associazioni, tutti protagonisti riconosciuti del panorama culturale della città.

Il 20 ottobre apriremo nuovamente le porte della Fondazione ad “Archivi Aperti”, iniziativa promossa da Rete Fotografia alla sua quarta edizione, quest’anno sul tema della fotografia in Italia negli anni Sessanta. I visitatori avranno la possibilità di accedere a un’ampia selezione di documenti provenienti dall’Archivio fotografico Pirelli: tra questi, oltre 5000 scatti editi e inediti realizzati da maestri come Ugo Mulas, Arno Hammacher, Fulvio Roiter, Enzo Sellerio e Mario De Biasi, provenienti dalla sezione d’archivio dedicata al magazine “Pirelli. Rivista d’informazione e di tenica”.

E infine nel mese di novembre parteciperemo con tour guidati alla XVII Settimana della Cultura d’Impresa, promossa da Confindustria, che avrà per tema “La cultura industriale”. Si conferma ancora la collaborazione della nostra Fondazione con le istituzioni culturali che operano nell’ambito della valorizzazione del patrimonio storico e artistico nazionale.

Proseguono anche in questo autunno 2018 le iniziative di promozione della Cultura d’Impresa e i festeggiamenti del decimo anniversario della nostra Fondazione.

Il 13 luglio abbiamo riaperto le porte della Fondazione a “Bicocca racconta”, iniziativa che proseguirà con 3 nuovi appuntamenti il 28 settembre, il 5 ottobre e il 15 novembre, promossa in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca in occasione di un duplice anniversario: il decennale della Fondazione e il ventennale dell’Università milanese. Un percorso che permette ai visitatori di scoprire – oltre al patrimonio storico aziendale conservato in Fondazione Pirelli – alcuni degli edifici del campus universitario, seguendo il racconto della trasformazione urbanistica del quartiere Bicocca da “fabbrica di prodotti” a “fabbrica di idee”.

Numerose anche le novità del nuovo programma educational 2018-2019 firmato Fondazione Pirelli: bambini e ragazzi potranno confrontarsi con tematiche di attualità come il welfare aziendale,  la multiculturalità e la sostenibilità come leve di competitività delle imprese. Al centro delle nuove proposte la storia della comunicazione visiva tra design d’autore e campagne globali dagli anni Settanta fino ai primi anni Duemila, raccontata attraverso video-proiezioni e materiali d’archivio della nuova mostra in corso in Fondazione.

La nuova mostra e il ricco patrimonio audiovisivo di Pirelli, costituito da centinaia di film su pellicola e nastro magnetico dal 1912, sono stati in questo mese di settembre anche i focus dei tour guidati proposti nell’ambito della prima edizione della Milano Movie Week, iniziativa promossa e coordinata dal Comune di Milano. Una settimana – dal 14 al 21 settembre – in un palinsesto di eventi diffuso, che ha coinvolto tutte le realtà milanesi che si occupano di cinema: le sale cinematografiche, i festival, le scuole di cinema, le case di produzione, le organizzazioni e le associazioni, tutti protagonisti riconosciuti del panorama culturale della città.

Il 20 ottobre apriremo nuovamente le porte della Fondazione ad “Archivi Aperti”, iniziativa promossa da Rete Fotografia alla sua quarta edizione, quest’anno sul tema della fotografia in Italia negli anni Sessanta. I visitatori avranno la possibilità di accedere a un’ampia selezione di documenti provenienti dall’Archivio fotografico Pirelli: tra questi, oltre 5000 scatti editi e inediti realizzati da maestri come Ugo Mulas, Arno Hammacher, Fulvio Roiter, Enzo Sellerio e Mario De Biasi, provenienti dalla sezione d’archivio dedicata al magazine “Pirelli. Rivista d’informazione e di tenica”.

E infine nel mese di novembre parteciperemo con tour guidati alla XVII Settimana della Cultura d’Impresa, promossa da Confindustria, che avrà per tema “La cultura industriale”. Si conferma ancora la collaborazione della nostra Fondazione con le istituzioni culturali che operano nell’ambito della valorizzazione del patrimonio storico e artistico nazionale.

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Consolini, il pirelliano “gigante” delle Olimpiadi

Quando, nel novembre 1948, la rivista “Pirelli gli dedica un ritratto dal titolo Stile e potenzaAdolfo Consolini è da quasi un anno dipendente dell’A.G.A.- Articoli Gomma e Affini, consociata del Gruppo Pirelli. Con la qualifica di “produttore”, gira Milano in scooter proponendo ai negozianti articoli vari in caucciù come tappeti per auto, articoli casalinghi, giocattoli. Alle cinque del pomeriggio è poi immancabilmente al campo sportivo Pirelli di Viale Sarca, proprio di fronte allo stabilimento della Bicocca, per la consueta seduta di allenamento. Perchè il rappresentante di articoli in gomma  da qualche mese è anche medaglia d’oro olimpica nel lancio del disco: Londra 1948, primo con 52,78 metri. Il trentenne veronese – 183 centimetri d’altezza per 99 chili di peso – è anche detentore per quell’anno del record mondiale, con 55 metri e 33 centimetri.

Insomma: per la pirelliana A.G.A., lavora un campione. Su Consolini la Rivista torna nel 1950, con il bell’articolo Atleti per illustrazione di Gulliver di Corrado Pizzinelli. Con l’atleta, che intanto ha conquistato un’altra medaglia d’oro agli Europei di Bruxelles, c’è il collega Teseo Taddia. Anche Taddia lavora da qualche tempo all’A.G.A., anche lui è un campione: lancio del martello, 54,73 metri e medaglia d’argento a Bruxelles. Campioni che sono “due giganti che paiono usciti dalle illustrazioni del viaggio di Gulliver a Brobdingnag  -secondo il giornalista Pizzinelli-  ma che non posseggono automobili fuoriserie, nè ville, nè industrie. Due arcangeli dello sport, candidi, ingenui, puri, semplici e poveri”. Così Consolini racconta di quella volta che stava per concedersi qualche giorno di vacanza al mare, a godersi il suo record mondiale. E invece arriva l’americano Fortune Everett Gordien a soffiargli il primato: “come si fa a rimanere tranquilli? Mi, sa, non son capace. Ho strappato il biglietto e sono andato sul campo ad allenarmi…”.

Consolini parteciperà ad altre tre olimpiadi, conquistando l’argento a Helsinki 1952. Melbourne 1956 e Roma 1960 saranno l’onorevolissima passarella di fine carriera per uno dei più grandi e amati atleti italiani. Intanto, nel 1951, ha sposato la slovena Hanny Cuk e nel 1956 è nato il figlio Sergio. Alle nozze con Hanny, l’house organ pirelliano “Fatti e Notizie” ha dedicato una pagina con “i migliori auguri dei pirelliani ad Adolfo Consolini e gentile consorte”. Da esperto qual è di articoli in gomma – oltre che del legno e metallo del disco, naturalmente – a Consolini capita anche di maneggiare ferri di cavallo: nel 1953 infatti interpreta il personaggio del maniscalco Maciste nel film Cronache di poveri amanti che il regista Carlo Lizzani trae dal romanzo di Vasco Pratolini. Dice la leggenda che, girando una scena di litigio, abbia recitato con tale realismo da mettere veramente ko il grande Marcello Mastroianni.

Consolini muore il 20 dicembre del 1969, a cinquantadue anni. Da qualche tempo è responsabile del Magazzino Prodotti Finiti a Milano Bicocca: da lui dipendono una decina di operai. “Non si può dire che fosse un capo tradizionale”, – ricorda l’operaio Alfredo su “Fatti e Notizie”, “Avevamo con lui un rapporto di collaborazione al punto che ci aiutava a caricare e scaricare la merce”.  Dal nostro archivio un’altra storia di sport, una storia di fabbrica.

Quando, nel novembre 1948, la rivista “Pirelli gli dedica un ritratto dal titolo Stile e potenzaAdolfo Consolini è da quasi un anno dipendente dell’A.G.A.- Articoli Gomma e Affini, consociata del Gruppo Pirelli. Con la qualifica di “produttore”, gira Milano in scooter proponendo ai negozianti articoli vari in caucciù come tappeti per auto, articoli casalinghi, giocattoli. Alle cinque del pomeriggio è poi immancabilmente al campo sportivo Pirelli di Viale Sarca, proprio di fronte allo stabilimento della Bicocca, per la consueta seduta di allenamento. Perchè il rappresentante di articoli in gomma  da qualche mese è anche medaglia d’oro olimpica nel lancio del disco: Londra 1948, primo con 52,78 metri. Il trentenne veronese – 183 centimetri d’altezza per 99 chili di peso – è anche detentore per quell’anno del record mondiale, con 55 metri e 33 centimetri.

Insomma: per la pirelliana A.G.A., lavora un campione. Su Consolini la Rivista torna nel 1950, con il bell’articolo Atleti per illustrazione di Gulliver di Corrado Pizzinelli. Con l’atleta, che intanto ha conquistato un’altra medaglia d’oro agli Europei di Bruxelles, c’è il collega Teseo Taddia. Anche Taddia lavora da qualche tempo all’A.G.A., anche lui è un campione: lancio del martello, 54,73 metri e medaglia d’argento a Bruxelles. Campioni che sono “due giganti che paiono usciti dalle illustrazioni del viaggio di Gulliver a Brobdingnag  -secondo il giornalista Pizzinelli-  ma che non posseggono automobili fuoriserie, nè ville, nè industrie. Due arcangeli dello sport, candidi, ingenui, puri, semplici e poveri”. Così Consolini racconta di quella volta che stava per concedersi qualche giorno di vacanza al mare, a godersi il suo record mondiale. E invece arriva l’americano Fortune Everett Gordien a soffiargli il primato: “come si fa a rimanere tranquilli? Mi, sa, non son capace. Ho strappato il biglietto e sono andato sul campo ad allenarmi…”.

Consolini parteciperà ad altre tre olimpiadi, conquistando l’argento a Helsinki 1952. Melbourne 1956 e Roma 1960 saranno l’onorevolissima passarella di fine carriera per uno dei più grandi e amati atleti italiani. Intanto, nel 1951, ha sposato la slovena Hanny Cuk e nel 1956 è nato il figlio Sergio. Alle nozze con Hanny, l’house organ pirelliano “Fatti e Notizie” ha dedicato una pagina con “i migliori auguri dei pirelliani ad Adolfo Consolini e gentile consorte”. Da esperto qual è di articoli in gomma – oltre che del legno e metallo del disco, naturalmente – a Consolini capita anche di maneggiare ferri di cavallo: nel 1953 infatti interpreta il personaggio del maniscalco Maciste nel film Cronache di poveri amanti che il regista Carlo Lizzani trae dal romanzo di Vasco Pratolini. Dice la leggenda che, girando una scena di litigio, abbia recitato con tale realismo da mettere veramente ko il grande Marcello Mastroianni.

Consolini muore il 20 dicembre del 1969, a cinquantadue anni. Da qualche tempo è responsabile del Magazzino Prodotti Finiti a Milano Bicocca: da lui dipendono una decina di operai. “Non si può dire che fosse un capo tradizionale”, – ricorda l’operaio Alfredo su “Fatti e Notizie”, “Avevamo con lui un rapporto di collaborazione al punto che ci aiutava a caricare e scaricare la merce”.  Dal nostro archivio un’altra storia di sport, una storia di fabbrica.

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Cultura del modello di business

In un articolo la sintesi di un concetto importante per l’impresa

Conoscere il significato dei vocaboli è essenziale per tutti, anche per imprenditori e manager. Non è solo questione di cultura generale, ma anche – e in questo caso soprattutto -, questione di cultura d’impresa che sa di cosa parla e di cosa ragiona. Quando poi accanto al significato vero, alcuni termini acquisiscono anche un senso legato alla convenienza oppure alla moda del momento, la necessità di aver chiaro il loro significato diventa ancora più impellente. E’ da quest’ordine di idee che ha preso le mosse “Modello di business, patrimonio strategico e creazione di valore” scritto  recentemente da Giorgio Donna (già Professore Ordinario di Economia Aziendale all’Università di Torino e al Politecnico di Torino).

L’intervento ha l’obiettivo di indagare il vero significato del concetto di “modello di business”. E Donna parte proprio dal precisare che “come è accaduto a tante altre etichette che negli ultimi decenni sono entrate prepotentemente nel lessico aziendale (ad esempio qualità, strategia, creazione di valore, ecc.), anche il termine di modello di business sta correndo il rischio delle parole di moda, cui spesso capita di attrarre, conquistando abbondanza di spazio e citazioni, ma alla lunga di trasformarsi in denominazioni dal contenuto molto vago e annacquato”.

Rischio ancora più importante in questo caso se si pensa che, come precisa l’autore, la letteratura è concorde nel ritenere il modello di business “un concetto potenzialmente di grande utilità, ma  (che) continua a dibattersi tra interpretazioni non sempre univoche e proposte applicative complesse o poco convincenti”. Da qui proprio l’intento di Donna di far chiarezza con l’analisi del concetto sia sul piano teorico che pratico. L’articolo quindi inizia con l’approfondimento degli “ingredienti” del modello di business per passare poi agli effetti della sua corretta applicazione: la creazione di valore per l’azienda e il cliente, il suo significato di strumento di vantaggio competitivo, il suo ruolo come patrimonio strategico dell’impresa. Scrive l’autore nelle conclusioni: “Come accade alle persone, anche le imprese sono spesso vittime di tabù o convinzioni semplicistiche (…). Così, è frequente che un’impresa tenda a sopravvalutare i propri punti di forza e a sottostimare le proprie debolezze”. Secondo l’autore la reale interpretazione del modello di business può aiutare in entrambi i casi.

L’articolo di Donna è scritto con un linguaggio comprensibile e attento e può davvero contribuire a fare chiarezza in un settore della gestione aziendale e del management esplorato ma spesso non correttamente compreso.

Modello di business, patrimonio strategico e creazione di valore

Giorgio Donna

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 2, 2018

In un articolo la sintesi di un concetto importante per l’impresa

Conoscere il significato dei vocaboli è essenziale per tutti, anche per imprenditori e manager. Non è solo questione di cultura generale, ma anche – e in questo caso soprattutto -, questione di cultura d’impresa che sa di cosa parla e di cosa ragiona. Quando poi accanto al significato vero, alcuni termini acquisiscono anche un senso legato alla convenienza oppure alla moda del momento, la necessità di aver chiaro il loro significato diventa ancora più impellente. E’ da quest’ordine di idee che ha preso le mosse “Modello di business, patrimonio strategico e creazione di valore” scritto  recentemente da Giorgio Donna (già Professore Ordinario di Economia Aziendale all’Università di Torino e al Politecnico di Torino).

L’intervento ha l’obiettivo di indagare il vero significato del concetto di “modello di business”. E Donna parte proprio dal precisare che “come è accaduto a tante altre etichette che negli ultimi decenni sono entrate prepotentemente nel lessico aziendale (ad esempio qualità, strategia, creazione di valore, ecc.), anche il termine di modello di business sta correndo il rischio delle parole di moda, cui spesso capita di attrarre, conquistando abbondanza di spazio e citazioni, ma alla lunga di trasformarsi in denominazioni dal contenuto molto vago e annacquato”.

Rischio ancora più importante in questo caso se si pensa che, come precisa l’autore, la letteratura è concorde nel ritenere il modello di business “un concetto potenzialmente di grande utilità, ma  (che) continua a dibattersi tra interpretazioni non sempre univoche e proposte applicative complesse o poco convincenti”. Da qui proprio l’intento di Donna di far chiarezza con l’analisi del concetto sia sul piano teorico che pratico. L’articolo quindi inizia con l’approfondimento degli “ingredienti” del modello di business per passare poi agli effetti della sua corretta applicazione: la creazione di valore per l’azienda e il cliente, il suo significato di strumento di vantaggio competitivo, il suo ruolo come patrimonio strategico dell’impresa. Scrive l’autore nelle conclusioni: “Come accade alle persone, anche le imprese sono spesso vittime di tabù o convinzioni semplicistiche (…). Così, è frequente che un’impresa tenda a sopravvalutare i propri punti di forza e a sottostimare le proprie debolezze”. Secondo l’autore la reale interpretazione del modello di business può aiutare in entrambi i casi.

L’articolo di Donna è scritto con un linguaggio comprensibile e attento e può davvero contribuire a fare chiarezza in un settore della gestione aziendale e del management esplorato ma spesso non correttamente compreso.

Modello di business, patrimonio strategico e creazione di valore

Giorgio Donna

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 2, 2018

Le parole irresponsabili che intaccano la fiducia nell’Italia e fanno crescere il costo del denaro per famiglie e imprese

Parole. Sono “pietre”, pesanti, capaci di colpire e fare danni. Esprimono sentimenti e “fanno vivere” quando sono pertinenti, sincere (ce l’ha insegnato Paul Eluard, uno dei maggiori poeti del Novecento). Raccontano il mondo e contribuiscono a determinarne la storia. Vanno dette con rispetto e senso di responsabilità. Mario Draghi è una persona di solidi studi e buone letture (è stato tra gli allievi prediletti di Federico Caffè, economista di straordinaria competenza e alto senso morale, all’università di Roma) e vanta un’esperienza rara come uomo delle principali istituzioni economiche internazionali. Negli anni, non ha mai parlato a vanvera, per demagogia o per vanto. E così le sue parole, pronunciate venerdì scorso a Francoforte, durante un incontro della Bce, di cui è autorevole e stimato presidente, vanno ascoltate e prese molto sul serio.

Ha detto Draghi, parlando del governo italiano e delle dichiarazioni di esponenti di primo piano: “Negli ultimi mesi le parole sono cambiate molte volte e quello che ora aspettiamo sono i fatti, principalmente la legge di bilancio e la discussione parlamentare”. Poi aggiunge: “Purtroppo abbiamo visto che le parole hanno fatto alcuni danni, i tassi sono saliti, per le famiglie e le imprese”. Analogo il monito che arriva da Mario Centeno, ministro delle finanze di Lisbona (paese europeo un tempo in difficoltà, tutt’altro che un seguace dell’ortodossia dell’austerità cara ai tedeschi) e dal 2017 presidente dell’Eurogruppo: “Troppa incertezza fa male, le regole Ue si rispettano” (“Corriere della Sera”, 14 settembre).

Ecco il punto. Tante chiacchiere di esponenti del governo su flat tax (con due o tre livelli, dunque tutt’altro che “flat”), pensioni, reddito di cittadinanza, condono fiscale (anche se lo si chiama “pace fiscale” la sostanza non cambia: una misura “una tantum” che non incide strutturalmente sui saldi di bilancio, a parte ogni altra considerazione sulla sua equità, ai danni di chi le tasse le ha sempre pagate), sforamento del 3% e di altri impegni secondo i parametri di Maastricht, tante polemiche contro la Ue e l’euro (sino alla minaccia di non versare i contributi italiani al bilancio dell’Unione europea), tante dichiarazioni su ipotesi di nazionalizzazione, cancellazione di concessioni, penalizzazioni per gli investitori internazionali, critiche contro le Autorità indipendenti, minacce contro la libertà d’informazione (che dei mercati è strumento essenziale) hanno reso poco credibile l’Italia. “Il grande bluff di una manovra propagandistica”, ha polemizzato “Il Foglio”.

Chi ha investito in Italia, comprando titoli del debito pubblico o programmando attività imprenditoriali, ha bisogno invece di un solido e stabile quadro di riferimento. Altrimenti, mette da canto questo Paese: a fine giugno nei portafogli degli investitori internazionali c’erano 58 miliardi di titoli pubblici italiani in meno rispetto ai due mesi precedenti. “Fuga dai Btp, in calo le richieste dall’estero”, titolavano appunto i giornali del fine settimana.

Il risultato di tante chiacchiere senza senso di responsabilità è stato grave: spread aumentato, titoli del debito pubblico guardati con preoccupazione e accantonati nelle scelte d’investimento,  tassi in crescita per cercare di compensare l’incremento del “rischio Italia” (un punto in più, sui tassi decennali, da maggio a oggi). E Borsa in caduta. Per le famiglie, mutui più cari, per le imprese costo del denaro in aumento. Per le casse pubbliche (dunque per le tasche di tutti noi), maggior costo del debito, minori soldi per riforme e servizi migliori. Tutto si paga, insomma, e non a parole.

Facile, sempre a chiacchiere, prendersela con “il signor Spread”, come se lo spread fosse un maligno protagonista della “finanza cattiva” e non invece un semplice termometro della credibilità dell’Italia. Facile, fare polemiche contro “i complotti dei mercati”. La realtà è quella seccamente raccontata da Draghi: se chi governa un’Italia fragile e carica di debito pubblico, in un’economia molto legata alle relazioni internazionali, non riscuote fiducia, tutto il Paese ne soffre. E quei legami internazionali – va aggiunto – sono una componente essenziale della nostra ricchezza e del nostro benessere, data la forza dell’export delle nostre imprese. Vanno approfonditi, non incrinati da nazionalismo buono solo per l’approssimativa propaganda.

In un’Europa che, al di là dei miti fondativi, ha bisogno di riflettere profondamente sulla sua crisi e su un funzionamento di regole e istituzioni che incontra crescenti critiche in larghi settori dell’opinione pubblica, la responsabilità di chi siede al vertice di governi e istituzioni dev’essere quella di saper costruire un discorso pubblico serio, competente, forte d’un credibile progetto di riforma e non alimentato da demagogie e animosità polemiche. L’Europa ha bisogno di critiche e riforme, non di picconatori, per il bene d’una “casa comune” che ha garantito settant’anni di pace, libertà, benessere cresciuto. L’Italia, di quest’Europa, è stata fondatrice e poi, nel tempo, partner di primo piano. Un ruolo che va riconfermato e difeso, proprio in una stagione in cui l’Europa e l’integrazione devono fare passi importanti di cambiamento e miglioramento, costruendo “un’immagine di Arcipelago: uno spazio composto da realtà ben distinte, da tempi distinti e tuttavia in navigazione gli uni verso gli altri, senza alcuna velleità egemonica o omologante. Realtà capaci di distinguere ambiti diversi di responsabilità e di competenza, cioè di sovranità”, per dirla con le efficaci parole di Massimo Cacciari (L’Espresso”,16 settembre) .

Non chiacchiere e polemiche, dunque. Ma atti di buon governo, a cominciare appunto dalla legge di bilancio. Fatti e scelte che ci facciano apprezzare da chi investe su di noi. Ben sapendo che di quegli investimenti internazionali abbiamo un grande bisogno, per fare impresa, creare lavoro, migliorare la qualità delle infrastrutture e della vita di tutti.

Parole. Sono “pietre”, pesanti, capaci di colpire e fare danni. Esprimono sentimenti e “fanno vivere” quando sono pertinenti, sincere (ce l’ha insegnato Paul Eluard, uno dei maggiori poeti del Novecento). Raccontano il mondo e contribuiscono a determinarne la storia. Vanno dette con rispetto e senso di responsabilità. Mario Draghi è una persona di solidi studi e buone letture (è stato tra gli allievi prediletti di Federico Caffè, economista di straordinaria competenza e alto senso morale, all’università di Roma) e vanta un’esperienza rara come uomo delle principali istituzioni economiche internazionali. Negli anni, non ha mai parlato a vanvera, per demagogia o per vanto. E così le sue parole, pronunciate venerdì scorso a Francoforte, durante un incontro della Bce, di cui è autorevole e stimato presidente, vanno ascoltate e prese molto sul serio.

Ha detto Draghi, parlando del governo italiano e delle dichiarazioni di esponenti di primo piano: “Negli ultimi mesi le parole sono cambiate molte volte e quello che ora aspettiamo sono i fatti, principalmente la legge di bilancio e la discussione parlamentare”. Poi aggiunge: “Purtroppo abbiamo visto che le parole hanno fatto alcuni danni, i tassi sono saliti, per le famiglie e le imprese”. Analogo il monito che arriva da Mario Centeno, ministro delle finanze di Lisbona (paese europeo un tempo in difficoltà, tutt’altro che un seguace dell’ortodossia dell’austerità cara ai tedeschi) e dal 2017 presidente dell’Eurogruppo: “Troppa incertezza fa male, le regole Ue si rispettano” (“Corriere della Sera”, 14 settembre).

Ecco il punto. Tante chiacchiere di esponenti del governo su flat tax (con due o tre livelli, dunque tutt’altro che “flat”), pensioni, reddito di cittadinanza, condono fiscale (anche se lo si chiama “pace fiscale” la sostanza non cambia: una misura “una tantum” che non incide strutturalmente sui saldi di bilancio, a parte ogni altra considerazione sulla sua equità, ai danni di chi le tasse le ha sempre pagate), sforamento del 3% e di altri impegni secondo i parametri di Maastricht, tante polemiche contro la Ue e l’euro (sino alla minaccia di non versare i contributi italiani al bilancio dell’Unione europea), tante dichiarazioni su ipotesi di nazionalizzazione, cancellazione di concessioni, penalizzazioni per gli investitori internazionali, critiche contro le Autorità indipendenti, minacce contro la libertà d’informazione (che dei mercati è strumento essenziale) hanno reso poco credibile l’Italia. “Il grande bluff di una manovra propagandistica”, ha polemizzato “Il Foglio”.

Chi ha investito in Italia, comprando titoli del debito pubblico o programmando attività imprenditoriali, ha bisogno invece di un solido e stabile quadro di riferimento. Altrimenti, mette da canto questo Paese: a fine giugno nei portafogli degli investitori internazionali c’erano 58 miliardi di titoli pubblici italiani in meno rispetto ai due mesi precedenti. “Fuga dai Btp, in calo le richieste dall’estero”, titolavano appunto i giornali del fine settimana.

Il risultato di tante chiacchiere senza senso di responsabilità è stato grave: spread aumentato, titoli del debito pubblico guardati con preoccupazione e accantonati nelle scelte d’investimento,  tassi in crescita per cercare di compensare l’incremento del “rischio Italia” (un punto in più, sui tassi decennali, da maggio a oggi). E Borsa in caduta. Per le famiglie, mutui più cari, per le imprese costo del denaro in aumento. Per le casse pubbliche (dunque per le tasche di tutti noi), maggior costo del debito, minori soldi per riforme e servizi migliori. Tutto si paga, insomma, e non a parole.

Facile, sempre a chiacchiere, prendersela con “il signor Spread”, come se lo spread fosse un maligno protagonista della “finanza cattiva” e non invece un semplice termometro della credibilità dell’Italia. Facile, fare polemiche contro “i complotti dei mercati”. La realtà è quella seccamente raccontata da Draghi: se chi governa un’Italia fragile e carica di debito pubblico, in un’economia molto legata alle relazioni internazionali, non riscuote fiducia, tutto il Paese ne soffre. E quei legami internazionali – va aggiunto – sono una componente essenziale della nostra ricchezza e del nostro benessere, data la forza dell’export delle nostre imprese. Vanno approfonditi, non incrinati da nazionalismo buono solo per l’approssimativa propaganda.

In un’Europa che, al di là dei miti fondativi, ha bisogno di riflettere profondamente sulla sua crisi e su un funzionamento di regole e istituzioni che incontra crescenti critiche in larghi settori dell’opinione pubblica, la responsabilità di chi siede al vertice di governi e istituzioni dev’essere quella di saper costruire un discorso pubblico serio, competente, forte d’un credibile progetto di riforma e non alimentato da demagogie e animosità polemiche. L’Europa ha bisogno di critiche e riforme, non di picconatori, per il bene d’una “casa comune” che ha garantito settant’anni di pace, libertà, benessere cresciuto. L’Italia, di quest’Europa, è stata fondatrice e poi, nel tempo, partner di primo piano. Un ruolo che va riconfermato e difeso, proprio in una stagione in cui l’Europa e l’integrazione devono fare passi importanti di cambiamento e miglioramento, costruendo “un’immagine di Arcipelago: uno spazio composto da realtà ben distinte, da tempi distinti e tuttavia in navigazione gli uni verso gli altri, senza alcuna velleità egemonica o omologante. Realtà capaci di distinguere ambiti diversi di responsabilità e di competenza, cioè di sovranità”, per dirla con le efficaci parole di Massimo Cacciari (L’Espresso”,16 settembre) .

Non chiacchiere e polemiche, dunque. Ma atti di buon governo, a cominciare appunto dalla legge di bilancio. Fatti e scelte che ci facciano apprezzare da chi investe su di noi. Ben sapendo che di quegli investimenti internazionali abbiamo un grande bisogno, per fare impresa, creare lavoro, migliorare la qualità delle infrastrutture e della vita di tutti.

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