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1907: Pirelli al Tour de France

Luglio 1907: è trascorso solo un mese dalla partenza della più straordinaria gara automobilistica di inzio secolo, la Pechino- Parigi, a cui Pirelli partecipa gommando la Itala del Principe Scipione Borghese, quando l’azienda stipula un’altra convenzione per una fornitura di pneumatici, questa volta per biciclette, prodotte dalla OTAV – Officine Türkheimer per Automobili e Velocipedi di Milano. L’accordo prevede l’utilizzo di pneumatici  Pirelli per la quinta edizione della gara ciclistica d’Oltralpe più famosa: il Tour de France o “Grande Boucle”, meglio conosciuto in Italia come Giro di Francia. È  la «Gazzetta dello Sport» che ne annuncia le tappe: sono in totale 14 a coprire oltre 4.488 km di territorio francese: un giro che da Parigi passa dalle città più importanti di Francia toccando Roubaix, Lione, Nizza, Tolosa, Nantes per poi tornare alla Ville Lumière. Le biciclette per cui si richiedono le gomme sono quelle per Luigi Ganna, Eberardo Pavesi e Carlo Galetti, che negli anni a seguire saranno conosciuti come “I tre moschettieri”. Eberardo Pavesi è l’unico tra i tre corridori italiani a portare a termine il Tour de France: a Parigi conclude il giro arrivando sesto assoluto, primo degli isolati, cioè i ciclisti iscritti alla corsa come non appartenenti a gruppi sportivi. Al Tour de France di quell’anno partecipano 93 corridori e solo 33 arrivano a Parigi.  La partecipazione al Tour de France 1907 contribuisce, dopo il trionfale Raid Pechino-Parigi, a promuovere l’espansione commerciale del Gruppo Pirelli sul mercato francese e – in risposta al Tour d’Oltralpe – nel 1909 si corre il primo Giro d’Italia, allestito dalla «Gazzetta dello Sport».

Qualche anno più tardi, nel 1950, Gianni Brera commenterà così sulle pagine della Rivista Pirelli l’importanza  delle competizioni su due ruote: “I campioni è dimostrato sono gli ambasciatori più efficaci di un Paese e delle sue merci. E i nostri dominano quasi incontrastati le manifestazioni ciclistiche internazionali”. E infatti, anche se nel 1907 i nostri ciclisti iridati non domineranno il tour, i nomi degli italiani Gino Bartali e Fausto Coppi trionferanno ripetutamente al Tour de France tra la fine degli anni Trenta fino a metà degli anni Cinquanta. La passione per il ciclismo infervora gli animi degli appassionati soprattutto nel secondo dopoguerra, quando i campioni iniziano a essere considerati veri e propri eroi, diventando anche esempi di riscatto in un momento di rinascita generale del Paese. In questo clima di euforia si affermano ancora di più i pneumatici Pirelli conquistando il mondo delle corse, e il logo della «P lunga»  diventa l’insegna di uomini, squadre e imprese che hanno fatto la storia e la leggenda del ciclismo.

Luglio 1907: è trascorso solo un mese dalla partenza della più straordinaria gara automobilistica di inzio secolo, la Pechino- Parigi, a cui Pirelli partecipa gommando la Itala del Principe Scipione Borghese, quando l’azienda stipula un’altra convenzione per una fornitura di pneumatici, questa volta per biciclette, prodotte dalla OTAV – Officine Türkheimer per Automobili e Velocipedi di Milano. L’accordo prevede l’utilizzo di pneumatici  Pirelli per la quinta edizione della gara ciclistica d’Oltralpe più famosa: il Tour de France o “Grande Boucle”, meglio conosciuto in Italia come Giro di Francia. È  la «Gazzetta dello Sport» che ne annuncia le tappe: sono in totale 14 a coprire oltre 4.488 km di territorio francese: un giro che da Parigi passa dalle città più importanti di Francia toccando Roubaix, Lione, Nizza, Tolosa, Nantes per poi tornare alla Ville Lumière. Le biciclette per cui si richiedono le gomme sono quelle per Luigi Ganna, Eberardo Pavesi e Carlo Galetti, che negli anni a seguire saranno conosciuti come “I tre moschettieri”. Eberardo Pavesi è l’unico tra i tre corridori italiani a portare a termine il Tour de France: a Parigi conclude il giro arrivando sesto assoluto, primo degli isolati, cioè i ciclisti iscritti alla corsa come non appartenenti a gruppi sportivi. Al Tour de France di quell’anno partecipano 93 corridori e solo 33 arrivano a Parigi.  La partecipazione al Tour de France 1907 contribuisce, dopo il trionfale Raid Pechino-Parigi, a promuovere l’espansione commerciale del Gruppo Pirelli sul mercato francese e – in risposta al Tour d’Oltralpe – nel 1909 si corre il primo Giro d’Italia, allestito dalla «Gazzetta dello Sport».

Qualche anno più tardi, nel 1950, Gianni Brera commenterà così sulle pagine della Rivista Pirelli l’importanza  delle competizioni su due ruote: “I campioni è dimostrato sono gli ambasciatori più efficaci di un Paese e delle sue merci. E i nostri dominano quasi incontrastati le manifestazioni ciclistiche internazionali”. E infatti, anche se nel 1907 i nostri ciclisti iridati non domineranno il tour, i nomi degli italiani Gino Bartali e Fausto Coppi trionferanno ripetutamente al Tour de France tra la fine degli anni Trenta fino a metà degli anni Cinquanta. La passione per il ciclismo infervora gli animi degli appassionati soprattutto nel secondo dopoguerra, quando i campioni iniziano a essere considerati veri e propri eroi, diventando anche esempi di riscatto in un momento di rinascita generale del Paese. In questo clima di euforia si affermano ancora di più i pneumatici Pirelli conquistando il mondo delle corse, e il logo della «P lunga»  diventa l’insegna di uomini, squadre e imprese che hanno fatto la storia e la leggenda del ciclismo.

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Pirelli e l’Argentina: l’impresa globale in mostra

“Saperi che non si dimenticano: il patrimonio delle imprese e degli imprenditori italiani in Argentina”, questo il titolo della mostra che ha inaugurato il 24 giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires. Curata da Francesca Fauri e Donatella Strangio, il percorso espositivo racconta  la storia dell’emigrazione italiana in Argentina, in particolare attraverso l’esperienza di alcuni marchi dell’eccellenza industriale italiana sbarcati nel paese sudamercano nella seconda metà dell’Ottocento. Tra questi anche Pirelli, fondata a Milano nel 1872 con una vocazione precocemente internazionale, che già dal 1898 muove i primi passi in Argentina, con la nomina di un agente di commercio in loco, Alvaro Company. Nel 1910, dopo la partecipazione all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires, Pirelli apre una vera e propria filiale commerciale con sede nella capitale, in calle Esmeralda 940. Nel 1917 la succursale di Buenos Aires è trasformata in una società produttiva, la Pirelli SA Platense, con sede a Calle Santa Fè. La presidenza è affidata a Giuseppe Pediali, ingegnere italiano trasferitosi a Buenos Aires nei primi anni del Novecento. Nel 1919 viene aperto uno stabilimento per la produzione di cavi elettrici nella periferia di Buenos Aires, in Calle Donato Alvarez  e nel 1921, con l’acquisizione di una fabbrica già funzionante nella calle Costa Rica, la produzione si allarga ai prodotti vari in gomma, poi realizzati a partire dal 1930 nello stabilimento “La Rosa”, che col tempo viene notevolmente ampliato, nel quartiere “portegno” di Mataderos. Nel 1948 prende il via anche la produzione di pneumatici, da parte di una nuova società, la Industrias Pirelli SAIC e poi, dal 1950, della COPLAN – Compañia Platense de Neumaticos, nata in accordo con la US Rubber Company, che trasferisce la produzione nello stabilimento di Merlo. Società e impianto vengono in seguito acquisiti interamente dalla Pirelli e sono tutt’ora funzionanti. Nel 2021 Pirelli ha celebrato i 111 anni di presenza in Argentina con l’inaugurazione del riparto di produzione di pneumatici moto e importanti investimenti nello stabilimento di Merlo.

In mostra sono esposte le riproduzioni di fotografie del nostro Archivio Storico che ritraggono le sedi e gli stabilimenti Pirelli in Argentina tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, e alcune copertine dell’house organ per il personale argentino Paginas Pirelli, consultabile anche sul nostro sito.

“Saperi che non si dimenticano: il patrimonio delle imprese e degli imprenditori italiani in Argentina”, questo il titolo della mostra che ha inaugurato il 24 giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires. Curata da Francesca Fauri e Donatella Strangio, il percorso espositivo racconta  la storia dell’emigrazione italiana in Argentina, in particolare attraverso l’esperienza di alcuni marchi dell’eccellenza industriale italiana sbarcati nel paese sudamercano nella seconda metà dell’Ottocento. Tra questi anche Pirelli, fondata a Milano nel 1872 con una vocazione precocemente internazionale, che già dal 1898 muove i primi passi in Argentina, con la nomina di un agente di commercio in loco, Alvaro Company. Nel 1910, dopo la partecipazione all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires, Pirelli apre una vera e propria filiale commerciale con sede nella capitale, in calle Esmeralda 940. Nel 1917 la succursale di Buenos Aires è trasformata in una società produttiva, la Pirelli SA Platense, con sede a Calle Santa Fè. La presidenza è affidata a Giuseppe Pediali, ingegnere italiano trasferitosi a Buenos Aires nei primi anni del Novecento. Nel 1919 viene aperto uno stabilimento per la produzione di cavi elettrici nella periferia di Buenos Aires, in Calle Donato Alvarez  e nel 1921, con l’acquisizione di una fabbrica già funzionante nella calle Costa Rica, la produzione si allarga ai prodotti vari in gomma, poi realizzati a partire dal 1930 nello stabilimento “La Rosa”, che col tempo viene notevolmente ampliato, nel quartiere “portegno” di Mataderos. Nel 1948 prende il via anche la produzione di pneumatici, da parte di una nuova società, la Industrias Pirelli SAIC e poi, dal 1950, della COPLAN – Compañia Platense de Neumaticos, nata in accordo con la US Rubber Company, che trasferisce la produzione nello stabilimento di Merlo. Società e impianto vengono in seguito acquisiti interamente dalla Pirelli e sono tutt’ora funzionanti. Nel 2021 Pirelli ha celebrato i 111 anni di presenza in Argentina con l’inaugurazione del riparto di produzione di pneumatici moto e importanti investimenti nello stabilimento di Merlo.

In mostra sono esposte le riproduzioni di fotografie del nostro Archivio Storico che ritraggono le sedi e gli stabilimenti Pirelli in Argentina tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento, e alcune copertine dell’house organ per il personale argentino Paginas Pirelli, consultabile anche sul nostro sito.

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Ambiente e mercato per andare oltre il presente

Un intervento del Direttore generale di Banca d’Italia fornisce gli elementi utili per capire meglio cosa sta accadendo e cosa fare

 

Guardare allo sviluppo anche quando tutto farebbe pensare al contrario. E guardarci con avvedutezza, ma con determinazione. E’ il compito di ogni buon imprenditore. Ed è, a ben vedere, il succo di ogni buona cultura d’impresa che abbia nella crescita equilibrata uno dei suoi obiettivi. Servono, certo, rigore e serietà. Come quelli indicati da Luigi Federico Signorini, Direttore generale della Banca d’Italia, nel suo intervento “Scelte per lo sviluppo sostenibile, tra emergenza e transizione” letto a Venezia l’11 giugno 2022 davanti alla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.

Chiamato a ragionare sulla situazione di questi “ultimi centro giorni” e sulle scelte da compiere, Signorini riesce a proporre un’analisi utile a tutti su come fare per reagire alle difficoltà. Perché, dice, “reagire è possibile, purché si sia lungimiranti nel discernere i fini e saggi nello scegliere i mezzi”. E’ da questo principio che il Direttore Generale di Banca d’Italia parte per delineare prima “l’economia nell’emergenza” che stiamo vivendo e, poi, per approfondire il tema degli approvvigionamenti energetici e, quindi, per analizzare non solo quello che il Paese sta facendo ma, soprattutto, quanto occorre fare per guardare oltre all’oggi. Signorini, così, mette a fuoco quattro obiettivi: “Affrancarsi dall’eccessiva dipendenza degli approvvigionamenti energetici; mitigare le conseguenze economiche dei rincari sulle famiglie e sulle imprese, specie le più vulnerabili; scongiurare l’inflazione; il tutto mantenendo la barra diritta, per quanto possibile, sulla transizione climatica”. E per ognuno di essi effettua una attenta – e soprattutto chiara e comprensibile – analisi.

Importante è quindi la conclusione con la quale si arriva a ragionare non solo di transizione ecologica e di scelte ambientali ed energetiche, ma di società civile e di mercato. Dice quindi Signorini: “Il mercato è un mezzo, non un fine. Non ha una ‘visione della natura’; non dovrebbe essere ipostatitizzato né tanto meno ‘idolatrato’. Il mercato siamo noi, consumatori, imprenditori; i suoi valori sono i nostri. Ha leggi da cui mal si prescinde se davvero si vuole il bene comune; ma al tempo stesso rappresenta un sistema, il meno imperfetto che si sia finora inventato, per allocare le risorse sulla base delle preferenze degli individui, nonché delle regole e degli incentivi stabiliti dallo Stato40. Risponde energicamente al sistema dei prezzi. Va sfruttato”. E poi ancora: “Politiche sagge e lungimiranti per affrontare la nuova sfida del secolo dovrebbero vedere nel mercato un alleato potente da reclutare, non un avversario da sconfiggere”.

Quanto esposto da Luigi Federico Signorini è un’altra occasione – da non perdere -, per rimpinguare il proprio bagaglio di conoscenze sulla situazione attuale, farlo più ricco e migliore, più utile per capire di meglio quanto accade.

 

 

Scelte per lo sviluppo sostenibile, tra emergenza e transizione

Luigi Federico Signorini

Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, Venezia, 11 giugno 2022

Un intervento del Direttore generale di Banca d’Italia fornisce gli elementi utili per capire meglio cosa sta accadendo e cosa fare

 

Guardare allo sviluppo anche quando tutto farebbe pensare al contrario. E guardarci con avvedutezza, ma con determinazione. E’ il compito di ogni buon imprenditore. Ed è, a ben vedere, il succo di ogni buona cultura d’impresa che abbia nella crescita equilibrata uno dei suoi obiettivi. Servono, certo, rigore e serietà. Come quelli indicati da Luigi Federico Signorini, Direttore generale della Banca d’Italia, nel suo intervento “Scelte per lo sviluppo sostenibile, tra emergenza e transizione” letto a Venezia l’11 giugno 2022 davanti alla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.

Chiamato a ragionare sulla situazione di questi “ultimi centro giorni” e sulle scelte da compiere, Signorini riesce a proporre un’analisi utile a tutti su come fare per reagire alle difficoltà. Perché, dice, “reagire è possibile, purché si sia lungimiranti nel discernere i fini e saggi nello scegliere i mezzi”. E’ da questo principio che il Direttore Generale di Banca d’Italia parte per delineare prima “l’economia nell’emergenza” che stiamo vivendo e, poi, per approfondire il tema degli approvvigionamenti energetici e, quindi, per analizzare non solo quello che il Paese sta facendo ma, soprattutto, quanto occorre fare per guardare oltre all’oggi. Signorini, così, mette a fuoco quattro obiettivi: “Affrancarsi dall’eccessiva dipendenza degli approvvigionamenti energetici; mitigare le conseguenze economiche dei rincari sulle famiglie e sulle imprese, specie le più vulnerabili; scongiurare l’inflazione; il tutto mantenendo la barra diritta, per quanto possibile, sulla transizione climatica”. E per ognuno di essi effettua una attenta – e soprattutto chiara e comprensibile – analisi.

Importante è quindi la conclusione con la quale si arriva a ragionare non solo di transizione ecologica e di scelte ambientali ed energetiche, ma di società civile e di mercato. Dice quindi Signorini: “Il mercato è un mezzo, non un fine. Non ha una ‘visione della natura’; non dovrebbe essere ipostatitizzato né tanto meno ‘idolatrato’. Il mercato siamo noi, consumatori, imprenditori; i suoi valori sono i nostri. Ha leggi da cui mal si prescinde se davvero si vuole il bene comune; ma al tempo stesso rappresenta un sistema, il meno imperfetto che si sia finora inventato, per allocare le risorse sulla base delle preferenze degli individui, nonché delle regole e degli incentivi stabiliti dallo Stato40. Risponde energicamente al sistema dei prezzi. Va sfruttato”. E poi ancora: “Politiche sagge e lungimiranti per affrontare la nuova sfida del secolo dovrebbero vedere nel mercato un alleato potente da reclutare, non un avversario da sconfiggere”.

Quanto esposto da Luigi Federico Signorini è un’altra occasione – da non perdere -, per rimpinguare il proprio bagaglio di conoscenze sulla situazione attuale, farlo più ricco e migliore, più utile per capire di meglio quanto accade.

 

 

Scelte per lo sviluppo sostenibile, tra emergenza e transizione

Luigi Federico Signorini

Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, Venezia, 11 giugno 2022

23 approcci diversi al lavoro

Un libro pubblicato da poco mette in fila e spiega le soft skill

Crescere nel lavoro partendo dalle proprie capacità personali. Che, tuttavia, occorre conoscere bene. E saper sfruttare correttamente. Sapendo che ogni persona ha a disposizione dei comportamenti (soft skill) che possono consentirgli di raggiungere risultati insperati. E’ attorno a questi concetti che ha lavorato Gian Carlo Cocco – con un’esperienza pluridecennale nelle imprese -, insieme ad un gruppo di collaboratori per definire i tratti e gli usi del capitale che ogni persona detiene. “23 soft skill strategiche. Per valorizzare il capitale professionale” è il risultato di questo lavoro.
Il libro – circa 200 pagine -, inizia proprio con la messa a fuoco dei concetti di base e quindi dell’idea di capitale umano, definito anche capitale professionale, composto dalle conoscenze acquisite, ma, soprattutto, dalle capacità che si riescono ad esprimere. Detto con maggiore precisione, Cocco ragiona sulle soft skill intese come risorse mentali e comportamenti pratici che vengono applicati in diverse attività (negoziazione, decisioni, di gestione dei conflitti, ecc.) e che sono in grado di consentire di arrivare ai risultati voluti. Le soft skill sono verificabili in modo sperimentale osservandone la messa in atto in modo simulato tramite attività in presenza e online che riproducono contesti reali.
Il libro, quindi individua, come dice lo stesso titolo, 23 soft skill: per ognuna viene presentata una definizione, una descrizione di come metterla in pratica, come riconoscerla negli altri e come svilupparla. Si va quindi dalla capacità di analisi a quella di organizzazione, dalla capacità di comunicazione e orientamento a quelle di negoziazione e gestione dello stress, per passare poi a quella di gestione dei collaboratori per arrivare a quelle di decisionale, visione prospettica, flessibilità, disponibilità all’innovazione e molto altro ancora.
Il libro si propone come uno strumento importante per chi è nel mondo del lavoro, per acquisire consapevolezza e per valorizzare non solo il patrimonio personale, ma anche quello dei colleghi, dei collaboratori e delle persone che operano in modo sinergico tra loro. Uno strumento anche per i giovani, per aiutarli a individuare e valorizzare un patrimonio ancora in buona parte inespresso e per evitare che il loro ingresso nel mondo del lavoro rappresenti un “percorso ad ostacoli”.
Oltre a tutto questo, le 23 soft skill sono altrettante espressioni di una cultura d’impresa multiforme, in cambiamento, attenta e diffusa la cui conoscenza non può che far del bene a chi, imprenditore o manager, si trova a dover gestire un’organizzazione della produzione.

23 soft skill strategiche. Per valorizzare il capitale professionale
Gian Carlo Cocco
Francio Angeli, 2022

Un libro pubblicato da poco mette in fila e spiega le soft skill

Crescere nel lavoro partendo dalle proprie capacità personali. Che, tuttavia, occorre conoscere bene. E saper sfruttare correttamente. Sapendo che ogni persona ha a disposizione dei comportamenti (soft skill) che possono consentirgli di raggiungere risultati insperati. E’ attorno a questi concetti che ha lavorato Gian Carlo Cocco – con un’esperienza pluridecennale nelle imprese -, insieme ad un gruppo di collaboratori per definire i tratti e gli usi del capitale che ogni persona detiene. “23 soft skill strategiche. Per valorizzare il capitale professionale” è il risultato di questo lavoro.
Il libro – circa 200 pagine -, inizia proprio con la messa a fuoco dei concetti di base e quindi dell’idea di capitale umano, definito anche capitale professionale, composto dalle conoscenze acquisite, ma, soprattutto, dalle capacità che si riescono ad esprimere. Detto con maggiore precisione, Cocco ragiona sulle soft skill intese come risorse mentali e comportamenti pratici che vengono applicati in diverse attività (negoziazione, decisioni, di gestione dei conflitti, ecc.) e che sono in grado di consentire di arrivare ai risultati voluti. Le soft skill sono verificabili in modo sperimentale osservandone la messa in atto in modo simulato tramite attività in presenza e online che riproducono contesti reali.
Il libro, quindi individua, come dice lo stesso titolo, 23 soft skill: per ognuna viene presentata una definizione, una descrizione di come metterla in pratica, come riconoscerla negli altri e come svilupparla. Si va quindi dalla capacità di analisi a quella di organizzazione, dalla capacità di comunicazione e orientamento a quelle di negoziazione e gestione dello stress, per passare poi a quella di gestione dei collaboratori per arrivare a quelle di decisionale, visione prospettica, flessibilità, disponibilità all’innovazione e molto altro ancora.
Il libro si propone come uno strumento importante per chi è nel mondo del lavoro, per acquisire consapevolezza e per valorizzare non solo il patrimonio personale, ma anche quello dei colleghi, dei collaboratori e delle persone che operano in modo sinergico tra loro. Uno strumento anche per i giovani, per aiutarli a individuare e valorizzare un patrimonio ancora in buona parte inespresso e per evitare che il loro ingresso nel mondo del lavoro rappresenti un “percorso ad ostacoli”.
Oltre a tutto questo, le 23 soft skill sono altrettante espressioni di una cultura d’impresa multiforme, in cambiamento, attenta e diffusa la cui conoscenza non può che far del bene a chi, imprenditore o manager, si trova a dover gestire un’organizzazione della produzione.

23 soft skill strategiche. Per valorizzare il capitale professionale
Gian Carlo Cocco
Francio Angeli, 2022

Nella stagione della crisi raccontare storie per una più giusta “tessitura del mondo”

Si vive di parole. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Creano. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Cambiano, sicuramente, chi le scrive. Siamo fatti delle nostre parole, appunto. Bisogna, proprio nel buio dei momenti di crisi peggiore e nello smarrimento delle emozioni e dei sentimenti, come succede ancora una volta in questi tempi inquieti e dolenti, provare a rileggerle, per capire da dove si viene e, consapevoli, riprovare a viaggiare verso il termine della notte. E a raccontare questo viaggio. Già, ecco le ali…

Il viaggio lega luoghi e persone, intesse relazioni. Il racconto le fa vivere e le affida alla memoria e dunque al futuro. C’è una comune radice semantica tra tessitura, “tessuto” e “testo”. Ed è Papa Francesco a cogliere bene il segno di questo insieme di valori quando parla di “tessitura del mondo” nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, nel gennaio del 2020, scrivendo che “il mondo stesso è un tessuto e le storie che gli uomini raccontano sono i fili di questo tessuto, messo sempre a dura prova”.

Quel messaggio, nel corso del tempo, ha suscitato reazioni, commenti, interventi di approfondimento da parte di donne e uomini di cultura. “L’Osservatore Romano” li ha raccolti, pubblicati e adesso riuniti in un denso e prezioso volume, curato da Andrea Monda, direttore del quotidiano della Santa Sede, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e da Salani e intitolato, appunto, “La tessitura del mondo”, un “Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza”. Ne scrivono, tra gli altri, Roberto Andò, Eraldo Affinati, Piero Boitani, Mario Botta, Giancarlo De Cataldo, Francesco De Gregori, Nicola Lagioia, David Mamet, Colum McCann, Daniel Mendelsohn, Edna O’Brien, Renzo Piano, Annie Proux, Marilynne Robinson, Donna Tartt, Mariapia Veladiano, Sandro e Alessandro Zaccuri, donne e uomini segnati da culture ed esperienze intellettuali e religiose diverse ma tutti in sintonia sulla necessità di insistere sul confronto, sul dialogo, su una dialettica delle idee e delle emozioni in grado di “ritessere” una trama più solida delle relazioni umane. Tessuto e testo, appunto. Racconto.

Viviamo una stagione carica di rischi e incertezze, di degrado delle parole nel vocìo che affolla confusamente i social media, di prevalenza dell’oltranzismo demagogico in un discorso pubblico sempre più impoverito e segnato dall’ossessione del “politicamente corretto” e della cancel culture, di dominio crescente delle fake news e dell’opinionismo fazioso e insultante in una vera e propria “Babele infinita del web” (Maurizio Ferraris, “La Stampa”, 23 maggio).

Viene in mente, opportunamente, il monito di Thomas Stearns Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Oggi, potremmo aggiungere: dov’è mai l’informazione, nel rumore di fondo provocato da un flusso ininterrotto di news senza gerarchia d’importanza né contesti di inquadramento né guide di lettura e interpretazione? Marmellata mediatica, dicono i critici. Senza alcuna dolcezza né alcuna sapidità di comprensione.

Il mondo, nella sua fascinosa e inquietante complessità, è schiacciato tra un like e un apodittico gioco di insulti o applausi, tra un tweet e un’approssimativa story su Instagram. Tramontano giudizi critici e ragioni di comprensione e intervento. Ne risentono drammaticamente la convivenza civile e la qualità del capitale sociale di una comunità, la fiducia su cui si fondano i processi di formazione e gli scambi di mercato e, in fin dei conti, la sostanza stessa della democrazia liberale.

Serve recuperare “il rigore etico della parola contro i girotondi delle chiacchiere” (come suggerisce Massimo Recalcati citando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la Repubblica”, 31 gennaio). Pensare la letteratura ricca di racconti diversi come “un ponte” che mette in contatti mondi e sensibilità, valori e interessi differenti. Valorizzare la capacità di essere “scrittori di cose” ben diversi dagli “scrittori di parole” (come amava dire Luigi Pirandello, in polemica con le inclinazioni retoriche di Gabriele D’Annunzio). E insistere sulla qualità della scrittura, dell’uso denso e pertinente delle parole stesse (fin dai primi passi della scuola dell’obbligo).

Bisogna tornare, anche lungo questa strada, a quella “tessitura del mondo” suggerita da Papa Francesco per ridare spazio ai valori spirituali e a una ricostruzione economica e sociale più “giusta” e “sostenibile”.

Scrive il Papa, nel messaggio sulle Comunicazioni sociali da cui siamo partiti: “L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità, ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita”. L’uomo, insomma, “è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dall’inizio, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male”.

La Sacra Scrittura, ricorda il Papa, è una “storia di storie”, con un Dio “che è creatore e nello stesso tempo narratore”, ma anche figura centrale di un “racconto” attraverso cui Lo conosciamo. Per raccontare bisogna “ri-cordare” e cioè “portare nel cuore”. E la letteratura ne è funzione fondamentale, come dimostrano le opere citate dal Papa, come “Le Confessioni” di sant’Agostino ma anche “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Un lavoro intenso, per entrare dentro le pieghe dell’animo umano, in tutti i suoi aspetti, anche i più controversi. Cercando, nel racconto, una “redenzione”.

Infatti, “non si tratta di inseguire le logiche dello storytelling né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende”.

Le parole di Papa Francesco hanno suscitato un lungo dibattito, sulle pagine dell’Osservatore Romano. E dato una indicazione preziosa: costruire una narrazione umana profonda e popolare, andare contro quella che Andò chiama “la dittatura dell’ovvio”, assumersi “la responsabilità morale del comunicare facendo il controcanto delle reti sociali” (Alessandro Zaccuri), fare sì “che il male non accada senza testimoni” e che “la letteratura si faccia illuminazione e abbracci il mondo interno” (Edna O’Brien), “accostarsi al mistero attraverso il mito” (David Mamet), “avere compassione e comprensione dei personaggi” (Annie Proux), cercare “una nuova e più consapevole connessione con se stessi, per sconfiggere la nevrosi dell’uomo contemporaneo” (Daniele Mencarelli) e “costruire, aggiungendo poesia” (Renzo Piano). Vivere, insomma, vite “intessute e ricamate di parole” (Marcelo Figueroa) e sapere bene che “una storia è buona quando è vera” (Daniel Mendelsohn).

La sintesi sta in un giudizio di Donna Tartt: “Le storie che raccontiamo e ri-raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni”. Ancora una volta, si riconferma il legame tra memoria e futuro, ricostruzione delle radici e scrittura delle nuove mappe secondo cui rintracciare prospettive e valori di un avvenire migliore.

Tante voci diverse meritano una chiosa conclusiva, come ha fatto appunto Papa Francesco nella postfazione: la relazione indissolubile tra “dire” e “ascoltare”, il peso fondamentale del “silenzio” contro il chiasso mediatico quotidiano e, soprattutto la “compassione”, nel suo aspetto interiore ma anche nella “dimensione pubblica, sociale” per cui “il racconto si rivela come una forza della memoria, custode quindi del passato e, proprio per questo, un lievito di trasformazione per il futuro”. L’avvenire della memoria, appunto.

(Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Si vive di parole. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Creano. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Cambiano, sicuramente, chi le scrive. Siamo fatti delle nostre parole, appunto. Bisogna, proprio nel buio dei momenti di crisi peggiore e nello smarrimento delle emozioni e dei sentimenti, come succede ancora una volta in questi tempi inquieti e dolenti, provare a rileggerle, per capire da dove si viene e, consapevoli, riprovare a viaggiare verso il termine della notte. E a raccontare questo viaggio. Già, ecco le ali…

Il viaggio lega luoghi e persone, intesse relazioni. Il racconto le fa vivere e le affida alla memoria e dunque al futuro. C’è una comune radice semantica tra tessitura, “tessuto” e “testo”. Ed è Papa Francesco a cogliere bene il segno di questo insieme di valori quando parla di “tessitura del mondo” nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, nel gennaio del 2020, scrivendo che “il mondo stesso è un tessuto e le storie che gli uomini raccontano sono i fili di questo tessuto, messo sempre a dura prova”.

Quel messaggio, nel corso del tempo, ha suscitato reazioni, commenti, interventi di approfondimento da parte di donne e uomini di cultura. “L’Osservatore Romano” li ha raccolti, pubblicati e adesso riuniti in un denso e prezioso volume, curato da Andrea Monda, direttore del quotidiano della Santa Sede, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e da Salani e intitolato, appunto, “La tessitura del mondo”, un “Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza”. Ne scrivono, tra gli altri, Roberto Andò, Eraldo Affinati, Piero Boitani, Mario Botta, Giancarlo De Cataldo, Francesco De Gregori, Nicola Lagioia, David Mamet, Colum McCann, Daniel Mendelsohn, Edna O’Brien, Renzo Piano, Annie Proux, Marilynne Robinson, Donna Tartt, Mariapia Veladiano, Sandro e Alessandro Zaccuri, donne e uomini segnati da culture ed esperienze intellettuali e religiose diverse ma tutti in sintonia sulla necessità di insistere sul confronto, sul dialogo, su una dialettica delle idee e delle emozioni in grado di “ritessere” una trama più solida delle relazioni umane. Tessuto e testo, appunto. Racconto.

Viviamo una stagione carica di rischi e incertezze, di degrado delle parole nel vocìo che affolla confusamente i social media, di prevalenza dell’oltranzismo demagogico in un discorso pubblico sempre più impoverito e segnato dall’ossessione del “politicamente corretto” e della cancel culture, di dominio crescente delle fake news e dell’opinionismo fazioso e insultante in una vera e propria “Babele infinita del web” (Maurizio Ferraris, “La Stampa”, 23 maggio).

Viene in mente, opportunamente, il monito di Thomas Stearns Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Oggi, potremmo aggiungere: dov’è mai l’informazione, nel rumore di fondo provocato da un flusso ininterrotto di news senza gerarchia d’importanza né contesti di inquadramento né guide di lettura e interpretazione? Marmellata mediatica, dicono i critici. Senza alcuna dolcezza né alcuna sapidità di comprensione.

Il mondo, nella sua fascinosa e inquietante complessità, è schiacciato tra un like e un apodittico gioco di insulti o applausi, tra un tweet e un’approssimativa story su Instagram. Tramontano giudizi critici e ragioni di comprensione e intervento. Ne risentono drammaticamente la convivenza civile e la qualità del capitale sociale di una comunità, la fiducia su cui si fondano i processi di formazione e gli scambi di mercato e, in fin dei conti, la sostanza stessa della democrazia liberale.

Serve recuperare “il rigore etico della parola contro i girotondi delle chiacchiere” (come suggerisce Massimo Recalcati citando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la Repubblica”, 31 gennaio). Pensare la letteratura ricca di racconti diversi come “un ponte” che mette in contatti mondi e sensibilità, valori e interessi differenti. Valorizzare la capacità di essere “scrittori di cose” ben diversi dagli “scrittori di parole” (come amava dire Luigi Pirandello, in polemica con le inclinazioni retoriche di Gabriele D’Annunzio). E insistere sulla qualità della scrittura, dell’uso denso e pertinente delle parole stesse (fin dai primi passi della scuola dell’obbligo).

Bisogna tornare, anche lungo questa strada, a quella “tessitura del mondo” suggerita da Papa Francesco per ridare spazio ai valori spirituali e a una ricostruzione economica e sociale più “giusta” e “sostenibile”.

Scrive il Papa, nel messaggio sulle Comunicazioni sociali da cui siamo partiti: “L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità, ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita”. L’uomo, insomma, “è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dall’inizio, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male”.

La Sacra Scrittura, ricorda il Papa, è una “storia di storie”, con un Dio “che è creatore e nello stesso tempo narratore”, ma anche figura centrale di un “racconto” attraverso cui Lo conosciamo. Per raccontare bisogna “ri-cordare” e cioè “portare nel cuore”. E la letteratura ne è funzione fondamentale, come dimostrano le opere citate dal Papa, come “Le Confessioni” di sant’Agostino ma anche “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Un lavoro intenso, per entrare dentro le pieghe dell’animo umano, in tutti i suoi aspetti, anche i più controversi. Cercando, nel racconto, una “redenzione”.

Infatti, “non si tratta di inseguire le logiche dello storytelling né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende”.

Le parole di Papa Francesco hanno suscitato un lungo dibattito, sulle pagine dell’Osservatore Romano. E dato una indicazione preziosa: costruire una narrazione umana profonda e popolare, andare contro quella che Andò chiama “la dittatura dell’ovvio”, assumersi “la responsabilità morale del comunicare facendo il controcanto delle reti sociali” (Alessandro Zaccuri), fare sì “che il male non accada senza testimoni” e che “la letteratura si faccia illuminazione e abbracci il mondo interno” (Edna O’Brien), “accostarsi al mistero attraverso il mito” (David Mamet), “avere compassione e comprensione dei personaggi” (Annie Proux), cercare “una nuova e più consapevole connessione con se stessi, per sconfiggere la nevrosi dell’uomo contemporaneo” (Daniele Mencarelli) e “costruire, aggiungendo poesia” (Renzo Piano). Vivere, insomma, vite “intessute e ricamate di parole” (Marcelo Figueroa) e sapere bene che “una storia è buona quando è vera” (Daniel Mendelsohn).

La sintesi sta in un giudizio di Donna Tartt: “Le storie che raccontiamo e ri-raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni”. Ancora una volta, si riconferma il legame tra memoria e futuro, ricostruzione delle radici e scrittura delle nuove mappe secondo cui rintracciare prospettive e valori di un avvenire migliore.

Tante voci diverse meritano una chiosa conclusiva, come ha fatto appunto Papa Francesco nella postfazione: la relazione indissolubile tra “dire” e “ascoltare”, il peso fondamentale del “silenzio” contro il chiasso mediatico quotidiano e, soprattutto la “compassione”, nel suo aspetto interiore ma anche nella “dimensione pubblica, sociale” per cui “il racconto si rivela come una forza della memoria, custode quindi del passato e, proprio per questo, un lievito di trasformazione per il futuro”. L’avvenire della memoria, appunto.

(Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Imprese con un’impronta particolare

Sette racconti di sette donne che sono riuscite ad essere fondamentali per le aziende in cui lavorano

Non imprese “al femminile”, ma imprese a tutto tondo. Imprese e basta, quindi. Come dovrebbe sempre essere, almeno ogni volta in cui un’azienda diventa impresa, cioè qualcosa di vivo che nasce, cresce, si evolve. Imprese, comunque, nelle quali l’apporto delle donne è importante e qualificante. Ma non è “un’aggiunta” oppure una concessione al prevalere maschile. E’, invece, elemento fondamentale per l’impresa stessa, che è importante e più forte per la presenza di modi diversi di intendere l’organizzazione della produzione, modalità che si integrano e diventano una sola.

Il tema – quello dei ruoli maschile e femminile in azienda -, è di quelli delicati. E con attenzione e delicatezza lo affronta Adriano Moraglio – una vita passata da giornalista a raccontare l’economia al Sole 24 Ore  -, nel suo “L’impronta delle donne. Sette racconti: quando in azienda il contributo femminile diventa fondamentale”, che, come dice il titolo, è composto da sette racconti di donne che si sono ritrovate ad avere ruoli importanti nell’ambito di aziende di successo. Con una particolarità (determinante). Non si tratta infatti di donne “capitane d’industria” oppure “ereditiere di grandi patrimoni”. No, si tratta di persone che per convenzioni sociali o circostanze particolari non sono riuscite inizialmente a dare corso ai propri sogni giovanili, ma che proprio per la loro speciale capacità di adattarsi alle situazioni hanno imboccato strade impreviste verso la propria realizzazione nel mondo del lavoro. Donne, quindi, che sono riuscite da un lato a fare carriera e, dall’altro, a non perdere la vocazione alla maternità, così come la loro particolare visione della vita e del lavoro. Soprattutto donne che sono arrivate ad essere quello che sono partendo da un rapporto paritario con gli uomini, che hanno lasciato loro spazio senza concederlo ma sulla base di una reciproca stima.

Scorrono così nelle circa 150 pagine del libro, i racconti delle manager di imprese nel comparto delle penne, dell’alimentare, degli accessori per la casa, della robotica. Storie diverse eppure con tratti comuni come la rinuncia ad alcuni sogni e la scoperta di altri, il cammino dalla giovinezza all’età adulta, il senso del dovere, la fatica di conciliare aspetti diversi della vita, e le sconfitte delle vita, così come le vittorie, le delusioni, le gioie, i dolori. Viene così delineata una cultura d’impresa vista da una visione particolare eppure assolutamente completa. Su tutto, poi, emerge quanto ben sintetizzato dal Marianna Carlini nell’Introduzione: la consapevolezza del valore della diversità. Quella diversità che “non è solo una questione che riguarda il dibattito uomo-donna” e che “se trascende il genere diventa un valore universale”.

L’impronta delle donne. Sette racconti: quando in azienda il contributo femminile diventa fondamentale

Adriano Moraglio

Rubbettino, 2022

Sette racconti di sette donne che sono riuscite ad essere fondamentali per le aziende in cui lavorano

Non imprese “al femminile”, ma imprese a tutto tondo. Imprese e basta, quindi. Come dovrebbe sempre essere, almeno ogni volta in cui un’azienda diventa impresa, cioè qualcosa di vivo che nasce, cresce, si evolve. Imprese, comunque, nelle quali l’apporto delle donne è importante e qualificante. Ma non è “un’aggiunta” oppure una concessione al prevalere maschile. E’, invece, elemento fondamentale per l’impresa stessa, che è importante e più forte per la presenza di modi diversi di intendere l’organizzazione della produzione, modalità che si integrano e diventano una sola.

Il tema – quello dei ruoli maschile e femminile in azienda -, è di quelli delicati. E con attenzione e delicatezza lo affronta Adriano Moraglio – una vita passata da giornalista a raccontare l’economia al Sole 24 Ore  -, nel suo “L’impronta delle donne. Sette racconti: quando in azienda il contributo femminile diventa fondamentale”, che, come dice il titolo, è composto da sette racconti di donne che si sono ritrovate ad avere ruoli importanti nell’ambito di aziende di successo. Con una particolarità (determinante). Non si tratta infatti di donne “capitane d’industria” oppure “ereditiere di grandi patrimoni”. No, si tratta di persone che per convenzioni sociali o circostanze particolari non sono riuscite inizialmente a dare corso ai propri sogni giovanili, ma che proprio per la loro speciale capacità di adattarsi alle situazioni hanno imboccato strade impreviste verso la propria realizzazione nel mondo del lavoro. Donne, quindi, che sono riuscite da un lato a fare carriera e, dall’altro, a non perdere la vocazione alla maternità, così come la loro particolare visione della vita e del lavoro. Soprattutto donne che sono arrivate ad essere quello che sono partendo da un rapporto paritario con gli uomini, che hanno lasciato loro spazio senza concederlo ma sulla base di una reciproca stima.

Scorrono così nelle circa 150 pagine del libro, i racconti delle manager di imprese nel comparto delle penne, dell’alimentare, degli accessori per la casa, della robotica. Storie diverse eppure con tratti comuni come la rinuncia ad alcuni sogni e la scoperta di altri, il cammino dalla giovinezza all’età adulta, il senso del dovere, la fatica di conciliare aspetti diversi della vita, e le sconfitte delle vita, così come le vittorie, le delusioni, le gioie, i dolori. Viene così delineata una cultura d’impresa vista da una visione particolare eppure assolutamente completa. Su tutto, poi, emerge quanto ben sintetizzato dal Marianna Carlini nell’Introduzione: la consapevolezza del valore della diversità. Quella diversità che “non è solo una questione che riguarda il dibattito uomo-donna” e che “se trascende il genere diventa un valore universale”.

L’impronta delle donne. Sette racconti: quando in azienda il contributo femminile diventa fondamentale

Adriano Moraglio

Rubbettino, 2022

Lavoro da conciliare a tutto tondo

Una ricerca appena pubblicata ragiona sulle diverse possibilità d’uso dello smart-working

Conciliare vita e lavoro, famiglia e ricerca di un reddito. Ore passate in ufficio e in fabbrica, una volta, che, adesso, si diversificano, cambiano aspetto e contenuto, si smaterializzano, mutano di sede. Tutto per effetto del generale cambiamento dei tempi, ma anche di quanto accade. Ad iniziare dalla pandemia di Covid-19 che ha radicalmente cambiato l’organizzazione del lavoro per molte realtà produttive. Rimane un dato di fondo: la conciliazione famiglia-lavoro si sviluppa comunque all’interno di biografie personali e professionali che cambiano nel tempo, soprattutto in relazione alle diverse fasi della vita.
Conciliare vita e lavoro, tuttavia, rimane l’obiettivo di tutti. Ed è su questa base che si è sviluppata la ricerca “Conciliazione famiglia e lavoro tra smart-working e diversity management. Una riflessione su pratiche e nuove semantiche” di Claudia Santoni e Isabella Crespi pubblicata in queste settimane.
L’assunto dal quale Santoni e Crespi sono partite è semplice: le strategie e le pratiche di conciliazione sono efficaci solo in quanto in grado di adattarsi alle transizioni del ciclo di vita familiare e ai processi evolutivi dell’organizzazione del lavoro, soprattutto in termini tecnologici.

L’indagine, quindi, prende in considerazione lo smart-working visto come uno strumento innovativo, che garantisce un sistema di flessibilità temporale e spaziale – facilitato anche dalla recente normativa – che punta sulla libertà del lavoratore di auto-organizzarsi entro obiettivi concordati.
Fin qui tutto bene. Le due ricercatrici, tuttavia, osservano che alcune dimensioni di disuguaglianza e difficoltà di accesso a questi strumenti evidenziano la necessità di una revisione ed estensione del loro significato e delle modalità applicative. In altri termini, anche nell’uso dello smart-working permangono differenze di cui è necessario tenere conto. Il tema della differenziazione e della flessibilità degli strumenti operativi a partire dalle risorse e dalle specificità dei lavoratori – viene quindi spiegato -, si riflette nell’approccio di diversity management. L’analisi della conciliazione famiglia-lavoro e dello smart-working, rispetto all’approccio di diversity management, diventa, spiegano quindi Santoni e Crespi, una possibile nuova pratica per mostrare come luoghi di lavoro più attenti al tema del welfare mirato ai bisogni e alle differenze tra le persone possano garantire una maggiore efficacia politiche di riconciliazione.
Più in generale, la ricerca pone in evidenza un tema: la cultura e l’organizzazione d’impresa che accolgono nuovi strumenti di lavoro, devono anche tenere conto delle diverse possibilità d’uso degli stessi.

Conciliazione famiglia e lavoro tra smart-working e diversity management. Una riflessione su pratiche e nuove semantiche
Claudia Santoni, Isabella Crespi
Autonomie locali e servizi sociali, 1/2022

Una ricerca appena pubblicata ragiona sulle diverse possibilità d’uso dello smart-working

Conciliare vita e lavoro, famiglia e ricerca di un reddito. Ore passate in ufficio e in fabbrica, una volta, che, adesso, si diversificano, cambiano aspetto e contenuto, si smaterializzano, mutano di sede. Tutto per effetto del generale cambiamento dei tempi, ma anche di quanto accade. Ad iniziare dalla pandemia di Covid-19 che ha radicalmente cambiato l’organizzazione del lavoro per molte realtà produttive. Rimane un dato di fondo: la conciliazione famiglia-lavoro si sviluppa comunque all’interno di biografie personali e professionali che cambiano nel tempo, soprattutto in relazione alle diverse fasi della vita.
Conciliare vita e lavoro, tuttavia, rimane l’obiettivo di tutti. Ed è su questa base che si è sviluppata la ricerca “Conciliazione famiglia e lavoro tra smart-working e diversity management. Una riflessione su pratiche e nuove semantiche” di Claudia Santoni e Isabella Crespi pubblicata in queste settimane.
L’assunto dal quale Santoni e Crespi sono partite è semplice: le strategie e le pratiche di conciliazione sono efficaci solo in quanto in grado di adattarsi alle transizioni del ciclo di vita familiare e ai processi evolutivi dell’organizzazione del lavoro, soprattutto in termini tecnologici.

L’indagine, quindi, prende in considerazione lo smart-working visto come uno strumento innovativo, che garantisce un sistema di flessibilità temporale e spaziale – facilitato anche dalla recente normativa – che punta sulla libertà del lavoratore di auto-organizzarsi entro obiettivi concordati.
Fin qui tutto bene. Le due ricercatrici, tuttavia, osservano che alcune dimensioni di disuguaglianza e difficoltà di accesso a questi strumenti evidenziano la necessità di una revisione ed estensione del loro significato e delle modalità applicative. In altri termini, anche nell’uso dello smart-working permangono differenze di cui è necessario tenere conto. Il tema della differenziazione e della flessibilità degli strumenti operativi a partire dalle risorse e dalle specificità dei lavoratori – viene quindi spiegato -, si riflette nell’approccio di diversity management. L’analisi della conciliazione famiglia-lavoro e dello smart-working, rispetto all’approccio di diversity management, diventa, spiegano quindi Santoni e Crespi, una possibile nuova pratica per mostrare come luoghi di lavoro più attenti al tema del welfare mirato ai bisogni e alle differenze tra le persone possano garantire una maggiore efficacia politiche di riconciliazione.
Più in generale, la ricerca pone in evidenza un tema: la cultura e l’organizzazione d’impresa che accolgono nuovi strumenti di lavoro, devono anche tenere conto delle diverse possibilità d’uso degli stessi.

Conciliazione famiglia e lavoro tra smart-working e diversity management. Una riflessione su pratiche e nuove semantiche
Claudia Santoni, Isabella Crespi
Autonomie locali e servizi sociali, 1/2022

La “notte chiara” della scienza e l’innovazione delle imprese per fare fronte all’uragano economico in arrivo

“Com’è la notte?”.
“Chiara”.

Sono le ultime battute di “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena dovuto accettare di sottostare agli ordini dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta, umiliando la forza dell’evidenza scientifica di fronte alle credenze dei teologi. Subisce, per paura, la durezza del potere. Ma non si rassegna. E continua a studiare le stelle e le leggi della fisica, dell’astronomia. Perché c’è pur sempre una forza, nella scienza. Una straordinaria bellezza, nella ricerca, nella scoperta, nella conoscenza. E una verità, da verificare, discutere, mettere comunque alla prova.

Una ripartenza, da far vivere.
Un cielo, da continuare a guardare.
“Com’è la notte?”
“Chiara”.
Nonostante tutto.

“Vita di Galileo” debutta al Piccolo Teatro di Milano il 22 aprile del 1963. La regia è di Giorgio Strelher. E il ruolo del protagonista è affidato a Tino Buazzelli, in una delle interpretazioni più intense ed efficaci che la storia teatrale ricordi. Ancora oggi, è a quell’edizione strelheriana che si fa riferimento, anche durante le iniziative, appunto al Piccolo, per ricordare il centenario della nascita di Strelher. Perché proprio in quei dialoghi, in quelle scene, in quell’intensa drammaturgia lacerante eppur carica di speranze si condensa il senso profondo dell’esperienza umana di fronte alle questioni, scientifiche e morali, che segnano la storia del progresso, dello sviluppo, della costruzione di una civiltà più equilibrata.

E’ chiara, la notte, pure in questi nostri tempi difficili, di crisi sanitarie e fragilità tecnologiche, straordinarie opportunità di sviluppo economico e insopportabili disparità sociali, grandi progressi scientifici e crescenti squilibri ambientali. Di guerra strazianti, come in Ucraina. E di aggressioni ai diritti di milioni di persone ad avere un migliore futuro.

Tempi di incertezze, mentre ci si trova a fare i conti con i rischi di recessione, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei tassi e dunque del costo del denaro dopo anni di quiete, le fratture nel sistema degli scambi internazionali. Ed è sempre più necessario dare retta ai timori di Jamie Dimon, CEO di J.P. Morgan, una delle maggiori banche internazionali, quando mette l’accento su “l’uragano economico che sta arrivando”.

Tempi rischiosi, dunque. In cui potremmo cadere nella tentazione poetica (“Codesto solo questo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo/ ciò che non vogliamo”, Eugenio Montale). Ma anche affidarci alle possibilità offerte dalle conquiste scientifiche, per la salute, la qualità della vita, il miglioramento delle condizioni di lavoro. Camminare nella crisi. Evitando le ombre di un “pensiero magico” che diffida della conoscenza e delle competenze scientifiche. E accogliendo le opportunità offerte dagli studi per affrontare le sfide della gestione della complessità (come documenta la ricerca di Giorgio Parisi, cui è stato assegnato quest’anno il Premio Nobel per la fisica). Proprio quella complessità che Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individua come costante della condizione umana e come motore stesso delle spinte all’innovazione, secondo percorsi e pensieri non lineari. Sapendo comunque che, nonostante tutto, nonostante ogni intreccio e a dispetto di ogni divergenza e contraddizione, nel nostro viaggio al termine della notte si può intravvedere un’alba. Come appunto Galileo insegna.

Ci sono luoghi particolari, in cui queste complesse e pur contrastate condizioni culturali e sociali si incrociano e si evolvono. Le strutture produttive. Gli stabilimenti industriali. Le fabbriche. Ecco, le fabbriche, parola antica ritornata di recente al centro del discorso pubblico, nell’epoca di un ritrovato “orgoglio industriale” italiano ed europeo.

Erano state, nell’Ottocento, i simboli della modernità, delle nuove dimensioni della produzione e del consumi, delle dirompenti trasformazioni economiche e sociali. Nel lungo e controverso Novecento, sono state protagoniste di primo piano del panorama della politica e dell’economia, nel secolo dell’auto e della mobilità di massa, della chimica e delle telecomunicazioni, dei consumi e delle trasformazioni degli stili di vita, tra conflitti e benessere diffuso. E anche adesso, mentre le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la digital economy e l’Intelligenza Artificiale, spingono verso il primato dei “servizi” e delle attività del cosiddetto “terziario”, le fabbriche anzi, meglio, le neo-fabbriche restano centrali nel panorama economico. Perché proprio lì si condensano le evoluzioni di scienza e tecnologia, lavoro e vita, ricerca e produzione, esigenze economiche e valori sociali, innovazione e tutela dell’ambiente. Competitività e sostenibilità, ambientale e sociale.

Sembravano scomparse, le fabbriche, nel panorama d’inizio del nuovo millennio, confinate in territori pur ampi ma marginali rispetto al cuore del “progresso”. Sono ritornate attuali, con nuovi assetti e nuovi valori.

Fabbriche. E cioè civiltà delle macchine e “umanesimo industriale” chi si declina in “umanesimo digitale”, seguendo le innovazioni scientifiche e tecnologiche. Luoghi speciali in cui si sperimentano e costruiscono originali sintesi produttive e culturali. E in cui cresce la consapevolezza della relazione tra industria e cultura. Del rapporto imprescindibile tra fare fabbrica e fare cultura.

Impresa e cultura, infatti, non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, a Roma, agli Stati Generali del Patrimonio Industriale, organizzati dall’Aipai, l’associazione accademica di studi storici, e da Museimpresa).

Fare impresa, impresa industriale soprattutto, infatti, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, la governance dell’azienda, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura umanistica, insomma cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori: “Impresa è cultura”.

Lo sguardo storico, in questo ragionamento, si può fermare su una definizione: quella di un’impresa “progressiva”, sottolineando l’aggettivo usato da Giovanni Battista Pirelli in un discorso del 1873, l’anno successivo alla fondazione dell’azienda (se ne ritrova l’eco nelle pagine di “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura, appena edito da Marsilio).

Un’impresa, cioè, forte di tecnologie d’avanguardia per tutti i prodotti della gomma ma anche di grande cura per “la mano dell’uomo”. Aperta all’innovazione nel senso più ampio del termine (prodotti e produzioni, materiali, organizzazione aziendale, impegni sociali). E forte della consapevolezza di essere, tra conflitti e concordanze, motore della costruzione di una storia comune segnata da migliori equilibri economici, culturali, sociali.

Sapienza antica. E contemporanea.

“Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere, e l’orecchio non è mai stanco d’udire” si legge nell’Ecclesiaste 1.8, libro fondamentale per fare i conti con il tempo della storia e il ritmo dei cambiamenti. E quell’“occhio che non si sazia mai di vedere” è una straordinaria definizione del desiderio di scoperta, della curiosità scientifica, della passione tecnologica, in sintesi dell’ansia innovativa che connota l’impresa, non tanto macchina di profitto (comunque indispensabile) quanto soprattutto soggetto di cambiamento. La sua cultura e la sua etica ne definiscono valori, condizioni, orizzonti e ne informano progetti e comportamenti.

Innovazione, dunque.

“Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter” era la frase preferita da Luigi Emanueli, l’ingegnere considerato padre dell’elettrotecnica moderna, animatore, lungo tutto l’arco della prima metà del Novecento, di molte delle innovazioni per i cavi e i pneumatici della Pirelli. Guardare all’interno delle macchine e dei prodotti, capirne fino in fondo le regole di funzionamento. Costruire, smontare e ricostruire. “Guardagh denter”, con l’attitudine dello scienziato e l’abilità del meccanico.

C’è, in quella frase, il senso profondo che anima a lungo l’intera industria italiana, nelle sue pagine migliori di crescita e costruzione della competitività. L’impegno a fare, e fare bene. L’intelligenza creativa. L’inquietudine del miglioramento. La definizione della propria eccellenza, grazie alla quale reggere una competizione tecnica e produttiva con altri paesi europei e internazionali più robusti per forza d’impresa, ricchezza finanziaria, disponibilità di materie prime, sostegni pubblici all’impresa e alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni tecnologiche. Il Recovery Fund della Ue, con la sua applicazione italiana del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) va in questa direzione. Così come potranno fare anche gli altri probabili Piani della Ue per l’energia e la sicurezza. Una strada in salita. Ma da percorrere. Magari affidandosi appunto al ricordo di Galileo. Alla “notte chiara” della scienza.

“Com’è la notte?”.
“Chiara”.

Sono le ultime battute di “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht. Lo scienziato ha appena dovuto accettare di sottostare agli ordini dei dottori della Chiesa, abiurando le sue scoperte sulla centralità del Sole e sul movimento della Terra come pianeta, umiliando la forza dell’evidenza scientifica di fronte alle credenze dei teologi. Subisce, per paura, la durezza del potere. Ma non si rassegna. E continua a studiare le stelle e le leggi della fisica, dell’astronomia. Perché c’è pur sempre una forza, nella scienza. Una straordinaria bellezza, nella ricerca, nella scoperta, nella conoscenza. E una verità, da verificare, discutere, mettere comunque alla prova.

Una ripartenza, da far vivere.
Un cielo, da continuare a guardare.
“Com’è la notte?”
“Chiara”.
Nonostante tutto.

“Vita di Galileo” debutta al Piccolo Teatro di Milano il 22 aprile del 1963. La regia è di Giorgio Strelher. E il ruolo del protagonista è affidato a Tino Buazzelli, in una delle interpretazioni più intense ed efficaci che la storia teatrale ricordi. Ancora oggi, è a quell’edizione strelheriana che si fa riferimento, anche durante le iniziative, appunto al Piccolo, per ricordare il centenario della nascita di Strelher. Perché proprio in quei dialoghi, in quelle scene, in quell’intensa drammaturgia lacerante eppur carica di speranze si condensa il senso profondo dell’esperienza umana di fronte alle questioni, scientifiche e morali, che segnano la storia del progresso, dello sviluppo, della costruzione di una civiltà più equilibrata.

E’ chiara, la notte, pure in questi nostri tempi difficili, di crisi sanitarie e fragilità tecnologiche, straordinarie opportunità di sviluppo economico e insopportabili disparità sociali, grandi progressi scientifici e crescenti squilibri ambientali. Di guerra strazianti, come in Ucraina. E di aggressioni ai diritti di milioni di persone ad avere un migliore futuro.

Tempi di incertezze, mentre ci si trova a fare i conti con i rischi di recessione, la crescita dell’inflazione, l’aumento dei tassi e dunque del costo del denaro dopo anni di quiete, le fratture nel sistema degli scambi internazionali. Ed è sempre più necessario dare retta ai timori di Jamie Dimon, CEO di J.P. Morgan, una delle maggiori banche internazionali, quando mette l’accento su “l’uragano economico che sta arrivando”.

Tempi rischiosi, dunque. In cui potremmo cadere nella tentazione poetica (“Codesto solo questo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo/ ciò che non vogliamo”, Eugenio Montale). Ma anche affidarci alle possibilità offerte dalle conquiste scientifiche, per la salute, la qualità della vita, il miglioramento delle condizioni di lavoro. Camminare nella crisi. Evitando le ombre di un “pensiero magico” che diffida della conoscenza e delle competenze scientifiche. E accogliendo le opportunità offerte dagli studi per affrontare le sfide della gestione della complessità (come documenta la ricerca di Giorgio Parisi, cui è stato assegnato quest’anno il Premio Nobel per la fisica). Proprio quella complessità che Italo Calvino, nelle sue “Lezioni americane”, individua come costante della condizione umana e come motore stesso delle spinte all’innovazione, secondo percorsi e pensieri non lineari. Sapendo comunque che, nonostante tutto, nonostante ogni intreccio e a dispetto di ogni divergenza e contraddizione, nel nostro viaggio al termine della notte si può intravvedere un’alba. Come appunto Galileo insegna.

Ci sono luoghi particolari, in cui queste complesse e pur contrastate condizioni culturali e sociali si incrociano e si evolvono. Le strutture produttive. Gli stabilimenti industriali. Le fabbriche. Ecco, le fabbriche, parola antica ritornata di recente al centro del discorso pubblico, nell’epoca di un ritrovato “orgoglio industriale” italiano ed europeo.

Erano state, nell’Ottocento, i simboli della modernità, delle nuove dimensioni della produzione e del consumi, delle dirompenti trasformazioni economiche e sociali. Nel lungo e controverso Novecento, sono state protagoniste di primo piano del panorama della politica e dell’economia, nel secolo dell’auto e della mobilità di massa, della chimica e delle telecomunicazioni, dei consumi e delle trasformazioni degli stili di vita, tra conflitti e benessere diffuso. E anche adesso, mentre le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la digital economy e l’Intelligenza Artificiale, spingono verso il primato dei “servizi” e delle attività del cosiddetto “terziario”, le fabbriche anzi, meglio, le neo-fabbriche restano centrali nel panorama economico. Perché proprio lì si condensano le evoluzioni di scienza e tecnologia, lavoro e vita, ricerca e produzione, esigenze economiche e valori sociali, innovazione e tutela dell’ambiente. Competitività e sostenibilità, ambientale e sociale.

Sembravano scomparse, le fabbriche, nel panorama d’inizio del nuovo millennio, confinate in territori pur ampi ma marginali rispetto al cuore del “progresso”. Sono ritornate attuali, con nuovi assetti e nuovi valori.

Fabbriche. E cioè civiltà delle macchine e “umanesimo industriale” chi si declina in “umanesimo digitale”, seguendo le innovazioni scientifiche e tecnologiche. Luoghi speciali in cui si sperimentano e costruiscono originali sintesi produttive e culturali. E in cui cresce la consapevolezza della relazione tra industria e cultura. Del rapporto imprescindibile tra fare fabbrica e fare cultura.

Impresa e cultura, infatti, non fanno riferimento a due universi differenti, ma sono parte dello stesso mondo (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, a Roma, agli Stati Generali del Patrimonio Industriale, organizzati dall’Aipai, l’associazione accademica di studi storici, e da Museimpresa).

Fare impresa, impresa industriale soprattutto, infatti, vuol dire investire e lavorare sui cambiamenti dei mercati, dei consumi, delle tecnologie produttive. Puntare sulla ricerca e sull’innovazione. Seguire le trasformazioni tecniche e sociali. E l’innovazione, parola chiave, carica appunto di forti valenze culturali e simboliche, riguarda tutto: le tecnologie, i materiali, i nuovi prodotti e i nuovi processi per produrli, le relazioni industriali tra le varie componenti del mondo dell’impresa e del lavoro, la governance dell’azienda, i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cos’è tutto questo se non cultura scientifica, cultura economica, cultura umanistica, insomma cultura d’impresa? Bisogna, in altri termini, passare dalla tradizionale visione di “impresa e cultura” a una visione più forte e carica di valori: “Impresa è cultura”.

Lo sguardo storico, in questo ragionamento, si può fermare su una definizione: quella di un’impresa “progressiva”, sottolineando l’aggettivo usato da Giovanni Battista Pirelli in un discorso del 1873, l’anno successivo alla fondazione dell’azienda (se ne ritrova l’eco nelle pagine di “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura, appena edito da Marsilio).

Un’impresa, cioè, forte di tecnologie d’avanguardia per tutti i prodotti della gomma ma anche di grande cura per “la mano dell’uomo”. Aperta all’innovazione nel senso più ampio del termine (prodotti e produzioni, materiali, organizzazione aziendale, impegni sociali). E forte della consapevolezza di essere, tra conflitti e concordanze, motore della costruzione di una storia comune segnata da migliori equilibri economici, culturali, sociali.

Sapienza antica. E contemporanea.

“Ogni cosa è in travaglio, più di quel che l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere, e l’orecchio non è mai stanco d’udire” si legge nell’Ecclesiaste 1.8, libro fondamentale per fare i conti con il tempo della storia e il ritmo dei cambiamenti. E quell’“occhio che non si sazia mai di vedere” è una straordinaria definizione del desiderio di scoperta, della curiosità scientifica, della passione tecnologica, in sintesi dell’ansia innovativa che connota l’impresa, non tanto macchina di profitto (comunque indispensabile) quanto soprattutto soggetto di cambiamento. La sua cultura e la sua etica ne definiscono valori, condizioni, orizzonti e ne informano progetti e comportamenti.

Innovazione, dunque.

“Adess ghe capissarem on quaicoss: andemm a guardagh denter” era la frase preferita da Luigi Emanueli, l’ingegnere considerato padre dell’elettrotecnica moderna, animatore, lungo tutto l’arco della prima metà del Novecento, di molte delle innovazioni per i cavi e i pneumatici della Pirelli. Guardare all’interno delle macchine e dei prodotti, capirne fino in fondo le regole di funzionamento. Costruire, smontare e ricostruire. “Guardagh denter”, con l’attitudine dello scienziato e l’abilità del meccanico.

C’è, in quella frase, il senso profondo che anima a lungo l’intera industria italiana, nelle sue pagine migliori di crescita e costruzione della competitività. L’impegno a fare, e fare bene. L’intelligenza creativa. L’inquietudine del miglioramento. La definizione della propria eccellenza, grazie alla quale reggere una competizione tecnica e produttiva con altri paesi europei e internazionali più robusti per forza d’impresa, ricchezza finanziaria, disponibilità di materie prime, sostegni pubblici all’impresa e alla ricerca scientifica e alle sue applicazioni tecnologiche. Il Recovery Fund della Ue, con la sua applicazione italiana del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) va in questa direzione. Così come potranno fare anche gli altri probabili Piani della Ue per l’energia e la sicurezza. Una strada in salita. Ma da percorrere. Magari affidandosi appunto al ricordo di Galileo. Alla “notte chiara” della scienza.

Pirelli, 150 anni di storie

È tempo di essere offline, pensando già a settembre…

Questa settimana abbiamo salutato gli studenti collegati online da tutta Italia con un arrivederci a settembre. Si è concluso infatti il programma dell’anno scolastico 2021-2022 che ha visto Pirelli festeggiare i 150 anni dalla sua fondazione. È stato un anno ancora “tutto in digitale”, per mantenere forte il legame con le classi. Questa modalità ha permesso a oltre 3.500 studenti di partecipare ai percorsi di Fondazione Pirelli Educational per studiare e imparare gli aspetti fondamentali della cultura d’impresa di Pirelli: dalla produzione green di pneumatici, all’attenzione verso la qualità dei luoghi di lavoro, dalla mobilità sostenibile alle principali innovazioni apportate nel campo della tecnologia.

Tra i percorsi più richiesti, Nel segno di Pirelli, dedicato all’evoluzione della grafica pubblicitaria dell’azienda, ha spinto gli studenti a sperimentare la propria creatività realizzando manifesti e save the date per la comunicazione di una mostra sulla storia di Pirelli.

Grazie al percorso Pensare e progettare i luoghi di lavoro, altre classi sono invece entrate virtualmente nei luoghi di lavoro di Pirelli, da Milano alla fabbrica tra i ciliegi di Settimo Torinese, e hanno provato a immaginare e progettare quello che per loro in futuro potrebbe essere un luogo di lavoro ideale.

I ragazzi hanno sperimentato inoltre la creazione di podcast durante il percorso Sulla strada dell’innovazione, focalizzato sulle novità introdotte da Pirelli nell’ideazione e nella produzione dei pneumatici.

Dai più giovani studenti delle scuole primarie, è stato apprezzato il percorso Milano dal finestrino che ha permesso loro di compiere una viaggio d’istruzione per le vie del capoluogo lombardo grazie a una mappa e a tour virtuali guidati.

Anche quest’anno, circa 200 docenti hanno partecipato online al corso di formazione e aggiornamento Cinema & Storia dal titolo L’Italia tra declini e rinascite. Una storia economica, realizzato in collaborazione con Fondazione Isec.

Da aprile sono riprese le prime visite guidate in presenza di classi in gita scolastica e gruppi di studenti universitari da tutta Italia.

In maggio, una novità ha riguardato il supporto alla XX Gara Nazionale di Chimica, ospitata quest’anno dall’istituto Molinari di Milano. Questa collaborazione ha permesso ai docenti accompagnatori degli studenti partecipanti di visitare i laboratori di chimica all’interno dell’area di ricerca e sviluppo di Pirelli nel quartiere Bicocca di Milano.

Lo staff del dipartimento didattico di Fondazione Pirelli Educational è al momento al lavoro sui progetti per il nuovo anno scolastico, rimanete in contatto con noi attraverso la newsletter e i canali social della Fondazione per sapere quando sarà presentato il nuovo programma didattico 2022-2023. A presto!

Questa settimana abbiamo salutato gli studenti collegati online da tutta Italia con un arrivederci a settembre. Si è concluso infatti il programma dell’anno scolastico 2021-2022 che ha visto Pirelli festeggiare i 150 anni dalla sua fondazione. È stato un anno ancora “tutto in digitale”, per mantenere forte il legame con le classi. Questa modalità ha permesso a oltre 3.500 studenti di partecipare ai percorsi di Fondazione Pirelli Educational per studiare e imparare gli aspetti fondamentali della cultura d’impresa di Pirelli: dalla produzione green di pneumatici, all’attenzione verso la qualità dei luoghi di lavoro, dalla mobilità sostenibile alle principali innovazioni apportate nel campo della tecnologia.

Tra i percorsi più richiesti, Nel segno di Pirelli, dedicato all’evoluzione della grafica pubblicitaria dell’azienda, ha spinto gli studenti a sperimentare la propria creatività realizzando manifesti e save the date per la comunicazione di una mostra sulla storia di Pirelli.

Grazie al percorso Pensare e progettare i luoghi di lavoro, altre classi sono invece entrate virtualmente nei luoghi di lavoro di Pirelli, da Milano alla fabbrica tra i ciliegi di Settimo Torinese, e hanno provato a immaginare e progettare quello che per loro in futuro potrebbe essere un luogo di lavoro ideale.

I ragazzi hanno sperimentato inoltre la creazione di podcast durante il percorso Sulla strada dell’innovazione, focalizzato sulle novità introdotte da Pirelli nell’ideazione e nella produzione dei pneumatici.

Dai più giovani studenti delle scuole primarie, è stato apprezzato il percorso Milano dal finestrino che ha permesso loro di compiere una viaggio d’istruzione per le vie del capoluogo lombardo grazie a una mappa e a tour virtuali guidati.

Anche quest’anno, circa 200 docenti hanno partecipato online al corso di formazione e aggiornamento Cinema & Storia dal titolo L’Italia tra declini e rinascite. Una storia economica, realizzato in collaborazione con Fondazione Isec.

Da aprile sono riprese le prime visite guidate in presenza di classi in gita scolastica e gruppi di studenti universitari da tutta Italia.

In maggio, una novità ha riguardato il supporto alla XX Gara Nazionale di Chimica, ospitata quest’anno dall’istituto Molinari di Milano. Questa collaborazione ha permesso ai docenti accompagnatori degli studenti partecipanti di visitare i laboratori di chimica all’interno dell’area di ricerca e sviluppo di Pirelli nel quartiere Bicocca di Milano.

Lo staff del dipartimento didattico di Fondazione Pirelli Educational è al momento al lavoro sui progetti per il nuovo anno scolastico, rimanete in contatto con noi attraverso la newsletter e i canali social della Fondazione per sapere quando sarà presentato il nuovo programma didattico 2022-2023. A presto!

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