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L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche e le scelte necessarie per innovazione e lavoro

“L’Italia è rimasta in piedi anche e soprattutto grazie alle fabbriche”. Il giudizio, netto, essenziale, è di Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia e presidente di Tim, una vita da civil servant e poi una responsabilità quanto mai impegnativa al vertice di una delle maggiori imprese italiane. In una conversazione con Paolo Bricco pubblicata su Il Sole24Ore (26 maggio) Rossi analizza la lunga transizione del Paese nel corso della stagione che va dalla fine del Novecento agli anni Duemila. Ricorda le difficoltà del risanamento dei conti pubblici per entrare nell’euro e la strada accidentata delle privatizzazioni (“Quelle di Eni, Enel e dell’allora Finmeccanica hanno funzionato, ma non quella di Telecom con il ‘nocciolino duro’ costituito da Gianni Agnelli che poi sarebbe caduto con l’Opa organizzata da Emilio Gnutti e supportata da Roberto Colaninno, con un enorme debito bancario da scaricare sulla società”). Riconosce il merito degli imprenditori che hanno reagito alla Grande Crisi finanziaria internazionale del 2008/ 2009 investendo, innovando e puntando sulla conquista dei mercati internazionali (“Sono stati abili e veloci e, senza che ne avessero alcuna responsabilità, hanno affrontato quella crisi, hanno rischiato la vita delle loro aziende”). E, dopo aver liquidato “la retorica del ‘piccolo è bello’ cui non ho mai aderito”, guarda all’attualità e sostiene: “L’assenza della grande impresa è certo un problema strutturale, perché quell’impresa non è soltanto un’incubatrice di innovazione, ma è anche una sintetizzatrice di complessità sistemiche”. Qui, in Italia, oggi “è di grande interesse interpretativo e sostanziale il fenomeno della media impresa internazionalizzata”. Leva di sviluppo economico, anche grazie alla forza di un export che vale oltre 650 miliardi. Ma anche di innovazione e di coesione sociale. “L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche”, appunto. Un prezioso capitale sociale.

Un capitale da rafforzare, naturalmente. Con scelte lungimiranti di politica industriale, in chiave europea. E con leve fiscali che, com’è già successo con le norme di “Industria 4.0”, stimolino gli investimenti privati. Tutto il contrario del discusso “bonus 110%” per le ristrutturazioni edilizie. Ma nel segno, automatico, oggettivo, del premio per chi, investendo, innova e contribuisce alla crescita del Pil e all’aumento delle esportazioni. Un filo comune che lega produttività e competitività, lavoro e benessere diffuso.

L’Italia e gli altri grandi paesi Ue sono essenzialmente manifatturieri, trasformatori. E la loro industria, oggi, rischia di essere messa in crisi, sul versante della competitività internazionale, per la carenza di materie prime strategiche, ma anche per una forte dipendenza dalle tecnologie di Usa e Cina sugli sviluppi dell’Artificial Intelligence. Ecco perché è indispensabile sollecitare alla Ue e ai governi nazionali scelte politiche per affrontare il problema. Un tema cardine, di cui si dovrebbe discutere approfonditamente durante questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e dunque per la composizione della nuova Commissione di Bruxelles (ma il dibattito, purtroppo, è eccessivamente dominato da questioni di politiche interne nazionali). E su cui il ogni caso, all’indomani del voto, l’Europa dovrà farsi carico.

Sul piano delle scelte. E delle risorse.

C’è una relazione forte, infatti, tra la politica economica e la politica della difesa e della sicurezza europea, nel nuovo contesto geopolitico. E ci sono impegni da prendere sul piano degli investimenti, per l’energia, la difesa, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico e per continuare ad affrontare la twin transition ambientale e digitale, senza ritrovarsi a essere marginali di fronte ai massicci investimenti strategici di Usa e Cina. Da 600 a 1.000 miliardi all’anno per i prossimi dieci anni, secondo calcoli sempre più chiari negli uffici di Bruxelles. Risorse enormi. Da recuperare rafforzando il bilancio comune Ue. E da prendere sui mercati finanziari internazionali, con gli eurobond.
La politica industriale va vista in questo contesto. Come peraltro ripetono da tempo, concordi, le organizzazioni delle imprese di Italia, Francia e Germania e come si è ripetuto anche durante il recente B7.

“L’Europa finora è distratta, ponendo vincoli sempre più stringenti, come il Green Deal, senza tenere conto che il settore manifatturiero genera lavoro e ricchezza”, rileva Nicola Saldutti sul Corriere della Sera (11 maggio), aggiungendo che “serve tempo per riconfigurare un sistema industriale” e dunque per dare alle imprese la cornice politica e gli strumenti per fare fronte alla competitività internazionale.

L’industria Ue deve ripartire da scienza e innovazione” titola Il Sole24Ore (25 maggio) a proposito delle discussioni sul futuro dell’Europa che hanno animato il recente Festival dell’Economia di Trento. Ancora Saldutti: “Per il nostro Paese, la seconda manifattura europea (primato che va conservato, ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia anche per il debito pubblico, per la sue sostenibilità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere”.

Che le misure di “Industria 5.0” per continuare a innovare il sistema produttivo siano ferme, prive di finanziamenti e di scelte concrete, è un serio segnale d’allarme da non sottovalutare. “Il sistema manifatturiero è chiamato a essere flessibile, resiliente e digitale. E la sostenibilità non è più solo attenzione all’ambiente, ma conta anche la componente umana” (Il Sole24Ore, 17 maggio).

Per continuare a ragionare di fabbriche come leva di sviluppo ma anche di sostenibilità sociale, ecco che torna in primo piano la funzione delle nostre imprese medie e medio-grandi, delle cosiddette “multinazionali tascabili”, di quelle eccellenze dell’innovazione e dell’export di cui parla Rossi. E dunque delle filiere produttive, lungo cui aggregare anche le piccole imprese.

Per supportare questo sistema, proprio di fronte alla sfida tecnologica in corso, applicazioni dell’Intelligenza Artificiale compresa, è necessaria pure una diffusione collaborativa della conoscenza, che passa, appunto, per le relazioni di filiera, con competenze tecnologiche in via di continuo aggiornamento. La leva fiscale è fondamentale, per rafforzare il processo.

Serve, insomma, una collaborazione tra tutti i soggetti in campo: “La pubblica amministrazione efficiente, un sistema imprenditoriale aperto e collaborativo e una ricerca di livello internazionale per innescare un circolo virtuoso attrattivo, coinvolgendo imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati”, sostiene Ferruccio Resta, ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Fondazione Kessler (Il Sole24Ore, 25 maggio).

È questa, l’idea vera del made in Italy da fare crescere. Innovazione, produttività, competitività globale, sostenibilità ambientale ma soprattutto sociale ed economica. L’industria italiana, che ha già da tempo respiro europeo (meccanica, meccatronica, robotica, automotive e aerospazio, chimica, farmaceutica, gomma, cantieristica navale oltre che i mondi tradizionali dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agro-industria) si muove proprio in questa direzione. Tocca alla politica fare bene la sua parte nell’interesse del sistema Paese.

(Foto Getty Images)

“L’Italia è rimasta in piedi anche e soprattutto grazie alle fabbriche”. Il giudizio, netto, essenziale, è di Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia e presidente di Tim, una vita da civil servant e poi una responsabilità quanto mai impegnativa al vertice di una delle maggiori imprese italiane. In una conversazione con Paolo Bricco pubblicata su Il Sole24Ore (26 maggio) Rossi analizza la lunga transizione del Paese nel corso della stagione che va dalla fine del Novecento agli anni Duemila. Ricorda le difficoltà del risanamento dei conti pubblici per entrare nell’euro e la strada accidentata delle privatizzazioni (“Quelle di Eni, Enel e dell’allora Finmeccanica hanno funzionato, ma non quella di Telecom con il ‘nocciolino duro’ costituito da Gianni Agnelli che poi sarebbe caduto con l’Opa organizzata da Emilio Gnutti e supportata da Roberto Colaninno, con un enorme debito bancario da scaricare sulla società”). Riconosce il merito degli imprenditori che hanno reagito alla Grande Crisi finanziaria internazionale del 2008/ 2009 investendo, innovando e puntando sulla conquista dei mercati internazionali (“Sono stati abili e veloci e, senza che ne avessero alcuna responsabilità, hanno affrontato quella crisi, hanno rischiato la vita delle loro aziende”). E, dopo aver liquidato “la retorica del ‘piccolo è bello’ cui non ho mai aderito”, guarda all’attualità e sostiene: “L’assenza della grande impresa è certo un problema strutturale, perché quell’impresa non è soltanto un’incubatrice di innovazione, ma è anche una sintetizzatrice di complessità sistemiche”. Qui, in Italia, oggi “è di grande interesse interpretativo e sostanziale il fenomeno della media impresa internazionalizzata”. Leva di sviluppo economico, anche grazie alla forza di un export che vale oltre 650 miliardi. Ma anche di innovazione e di coesione sociale. “L’Italia rimasta in piedi grazie alle fabbriche”, appunto. Un prezioso capitale sociale.

Un capitale da rafforzare, naturalmente. Con scelte lungimiranti di politica industriale, in chiave europea. E con leve fiscali che, com’è già successo con le norme di “Industria 4.0”, stimolino gli investimenti privati. Tutto il contrario del discusso “bonus 110%” per le ristrutturazioni edilizie. Ma nel segno, automatico, oggettivo, del premio per chi, investendo, innova e contribuisce alla crescita del Pil e all’aumento delle esportazioni. Un filo comune che lega produttività e competitività, lavoro e benessere diffuso.

L’Italia e gli altri grandi paesi Ue sono essenzialmente manifatturieri, trasformatori. E la loro industria, oggi, rischia di essere messa in crisi, sul versante della competitività internazionale, per la carenza di materie prime strategiche, ma anche per una forte dipendenza dalle tecnologie di Usa e Cina sugli sviluppi dell’Artificial Intelligence. Ecco perché è indispensabile sollecitare alla Ue e ai governi nazionali scelte politiche per affrontare il problema. Un tema cardine, di cui si dovrebbe discutere approfonditamente durante questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo e dunque per la composizione della nuova Commissione di Bruxelles (ma il dibattito, purtroppo, è eccessivamente dominato da questioni di politiche interne nazionali). E su cui il ogni caso, all’indomani del voto, l’Europa dovrà farsi carico.

Sul piano delle scelte. E delle risorse.

C’è una relazione forte, infatti, tra la politica economica e la politica della difesa e della sicurezza europea, nel nuovo contesto geopolitico. E ci sono impegni da prendere sul piano degli investimenti, per l’energia, la difesa, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico e per continuare ad affrontare la twin transition ambientale e digitale, senza ritrovarsi a essere marginali di fronte ai massicci investimenti strategici di Usa e Cina. Da 600 a 1.000 miliardi all’anno per i prossimi dieci anni, secondo calcoli sempre più chiari negli uffici di Bruxelles. Risorse enormi. Da recuperare rafforzando il bilancio comune Ue. E da prendere sui mercati finanziari internazionali, con gli eurobond.
La politica industriale va vista in questo contesto. Come peraltro ripetono da tempo, concordi, le organizzazioni delle imprese di Italia, Francia e Germania e come si è ripetuto anche durante il recente B7.

“L’Europa finora è distratta, ponendo vincoli sempre più stringenti, come il Green Deal, senza tenere conto che il settore manifatturiero genera lavoro e ricchezza”, rileva Nicola Saldutti sul Corriere della Sera (11 maggio), aggiungendo che “serve tempo per riconfigurare un sistema industriale” e dunque per dare alle imprese la cornice politica e gli strumenti per fare fronte alla competitività internazionale.

L’industria Ue deve ripartire da scienza e innovazione” titola Il Sole24Ore (25 maggio) a proposito delle discussioni sul futuro dell’Europa che hanno animato il recente Festival dell’Economia di Trento. Ancora Saldutti: “Per il nostro Paese, la seconda manifattura europea (primato che va conservato, ma non è automatico) sono proprio le fabbriche la principale garanzia anche per il debito pubblico, per la sue sostenibilità. Forse è venuto il tempo di prendere decisioni. Non prenderle, equivale a perdere”.

Che le misure di “Industria 5.0” per continuare a innovare il sistema produttivo siano ferme, prive di finanziamenti e di scelte concrete, è un serio segnale d’allarme da non sottovalutare. “Il sistema manifatturiero è chiamato a essere flessibile, resiliente e digitale. E la sostenibilità non è più solo attenzione all’ambiente, ma conta anche la componente umana” (Il Sole24Ore, 17 maggio).

Per continuare a ragionare di fabbriche come leva di sviluppo ma anche di sostenibilità sociale, ecco che torna in primo piano la funzione delle nostre imprese medie e medio-grandi, delle cosiddette “multinazionali tascabili”, di quelle eccellenze dell’innovazione e dell’export di cui parla Rossi. E dunque delle filiere produttive, lungo cui aggregare anche le piccole imprese.

Per supportare questo sistema, proprio di fronte alla sfida tecnologica in corso, applicazioni dell’Intelligenza Artificiale compresa, è necessaria pure una diffusione collaborativa della conoscenza, che passa, appunto, per le relazioni di filiera, con competenze tecnologiche in via di continuo aggiornamento. La leva fiscale è fondamentale, per rafforzare il processo.

Serve, insomma, una collaborazione tra tutti i soggetti in campo: “La pubblica amministrazione efficiente, un sistema imprenditoriale aperto e collaborativo e una ricerca di livello internazionale per innescare un circolo virtuoso attrattivo, coinvolgendo imprese, università e centri di ricerca pubblici e privati”, sostiene Ferruccio Resta, ex rettore del Politecnico di Milano e presidente della Fondazione Kessler (Il Sole24Ore, 25 maggio).

È questa, l’idea vera del made in Italy da fare crescere. Innovazione, produttività, competitività globale, sostenibilità ambientale ma soprattutto sociale ed economica. L’industria italiana, che ha già da tempo respiro europeo (meccanica, meccatronica, robotica, automotive e aerospazio, chimica, farmaceutica, gomma, cantieristica navale oltre che i mondi tradizionali dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agro-industria) si muove proprio in questa direzione. Tocca alla politica fare bene la sua parte nell’interesse del sistema Paese.

(Foto Getty Images)

Misurare è fare cultura

In un libro originale appena pubblicato, il racconto della misura come atto creativo e di crescita

 

Misurare per conoscere meglio. Per crescere, anzi potersi sviluppare. Per apprendere con maggior precisione del mondo che ci circonda. E misura come disciplina che pone le basi per la fantasia. Misurare non solo come atto d’ingegneria oppure di statistica, ma come atto profondo di cultura (anche del produrre). E’ attorno a questi concetti che è stato scritto – a cura di Riccardo Varvelli – “Katà Métron. Il libro della misura” esperimento letterario e tecnico, libro da leggere tutto e strumento per pensare.

Voluto da un imprenditore visionario come Enrico Loccioni (che oltre alla azienda che porta il suo nome ha creato anche una casa editrice e che ha una particolare e importante visione d’impresa), “Katà Métron” nasce dall’esperienza d’impresa e dalla curiosità dell’essere umano e, fin dalle prime pagine, si presenta come un “prodotto” editoriale particolare. Non è un saggio storico – viene spiegato – non è un testo scientifico, non è un libro per bambini (anche se ha una copertina rigida giallo sole ed è illustrato), non è un volume di design. Ma è “tutte queste cose insieme”. Particolare fin dal titolo – katà métron in greco antico significa “secondo giusta misura” – il libro ha un’idea alla sua base, quella di raccontare il misurare e la misura come parti “della storia e dello sviluppo dell’uomo”. Misurare, dunque, per comprendere, migliorare, superare limiti e innovare. Azioni che, a ben vedere, stanno alla base di ogni impresa che voglia davvero dirsi tale.

Attorno alla misura e al misurare si esercitano non solo Varvelli ma anche ingegneri, designer, data scientist, filosofi, formatori. Ognuno intento a offrire il suo punto di vista, una declinazione della misura che arriva nella vita di tutti i giorni. A tutto ciò (con la supervisione di Corraini Edizioni), si sono aggiunte le illustrazioni di Harriet Russel. Pensato come libro didattico per un master sulla misura,  il libro è poi diventato un oggetto connesso, che unisce la didattica al gioco, l’arte all’ingegneria, il design alla filosofia, la materia alla rete.

Attraverso una serie di codici chi legge può anche entrare nel mondo digitale del libro, che diventa una raccolta in continua formazione di contenuti sulla misura.

Libro solo in apparenza semplice, “Katà Métron” deve essere letto con attenzione e curiosità, sapendo di avere sotto gli occhi un prodotto frutto di una comunità di persone, di un’impresa della conoscenza che lo stesso Loccioni non esita a delineare, che dà il segno a tutto e che a ben vedere è una perfetta definizione dell’impresa a tutto tondo: “Una comunità di lavoro che si raccoglie intorno al progetto, piuttosto che lungo la linea di produzione; un’organizzazione in cui non ci sono capi, gerarchie, divisioni, ma team di lavoro multidisciplinari per trovare la soluzione più giusta; una realtà in cui il valore più grande sono le persone, collaboratori e non dipendenti, azionisti del lavoro che investono i loro anni di studio in un lavoro che contribuiscono a evolvere”.

Katà Métron. Il libro della misura
Riccardo Varvelli (a cura di)
Desiderio Editore, 2023

In un libro originale appena pubblicato, il racconto della misura come atto creativo e di crescita

 

Misurare per conoscere meglio. Per crescere, anzi potersi sviluppare. Per apprendere con maggior precisione del mondo che ci circonda. E misura come disciplina che pone le basi per la fantasia. Misurare non solo come atto d’ingegneria oppure di statistica, ma come atto profondo di cultura (anche del produrre). E’ attorno a questi concetti che è stato scritto – a cura di Riccardo Varvelli – “Katà Métron. Il libro della misura” esperimento letterario e tecnico, libro da leggere tutto e strumento per pensare.

Voluto da un imprenditore visionario come Enrico Loccioni (che oltre alla azienda che porta il suo nome ha creato anche una casa editrice e che ha una particolare e importante visione d’impresa), “Katà Métron” nasce dall’esperienza d’impresa e dalla curiosità dell’essere umano e, fin dalle prime pagine, si presenta come un “prodotto” editoriale particolare. Non è un saggio storico – viene spiegato – non è un testo scientifico, non è un libro per bambini (anche se ha una copertina rigida giallo sole ed è illustrato), non è un volume di design. Ma è “tutte queste cose insieme”. Particolare fin dal titolo – katà métron in greco antico significa “secondo giusta misura” – il libro ha un’idea alla sua base, quella di raccontare il misurare e la misura come parti “della storia e dello sviluppo dell’uomo”. Misurare, dunque, per comprendere, migliorare, superare limiti e innovare. Azioni che, a ben vedere, stanno alla base di ogni impresa che voglia davvero dirsi tale.

Attorno alla misura e al misurare si esercitano non solo Varvelli ma anche ingegneri, designer, data scientist, filosofi, formatori. Ognuno intento a offrire il suo punto di vista, una declinazione della misura che arriva nella vita di tutti i giorni. A tutto ciò (con la supervisione di Corraini Edizioni), si sono aggiunte le illustrazioni di Harriet Russel. Pensato come libro didattico per un master sulla misura,  il libro è poi diventato un oggetto connesso, che unisce la didattica al gioco, l’arte all’ingegneria, il design alla filosofia, la materia alla rete.

Attraverso una serie di codici chi legge può anche entrare nel mondo digitale del libro, che diventa una raccolta in continua formazione di contenuti sulla misura.

Libro solo in apparenza semplice, “Katà Métron” deve essere letto con attenzione e curiosità, sapendo di avere sotto gli occhi un prodotto frutto di una comunità di persone, di un’impresa della conoscenza che lo stesso Loccioni non esita a delineare, che dà il segno a tutto e che a ben vedere è una perfetta definizione dell’impresa a tutto tondo: “Una comunità di lavoro che si raccoglie intorno al progetto, piuttosto che lungo la linea di produzione; un’organizzazione in cui non ci sono capi, gerarchie, divisioni, ma team di lavoro multidisciplinari per trovare la soluzione più giusta; una realtà in cui il valore più grande sono le persone, collaboratori e non dipendenti, azionisti del lavoro che investono i loro anni di studio in un lavoro che contribuiscono a evolvere”.

Katà Métron. Il libro della misura
Riccardo Varvelli (a cura di)
Desiderio Editore, 2023

L’impresa che fa cultura

Analizzata in una tesi teoria e pratica del sostegno da parte delle aziende dell’attività artistiche e culturali

L’impresa che fa cultura. Non solo cultura del produrre, ma cultura come visione della vita, attenzione al bello, all’arte, alla storia. Declinazione importante della responsabilità sociale d’impresa, l’attività di molte aziende per il sostegno al settore artistico e culturale continua ad essere un aspetto notevole del sistema produttivo in Italia e all’estero. Aspetto che, nonostante i molti esempi, va ancora studiato e approfondito. A tutto questo serve il lavoro di ricerca – sfociato in una tesi discussa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia – di Eleonora Bavastro nell’ambito del ciclo di studi in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali.

L’intento del lavoro è quello di soddisfare l’esigenza – come viene sottolineato nelle prime pagine – “di voler mettere in luce la relazione tra le grandi aziende e il sostegno di quest’ultime al mondo dell’arte e i benefici che possono trarre entrambe le parti da questo rapporto”. L’indagine di Bavastro è stata condotta sulla base di un metodo semplice: prima la messa a fuoco del tema nelle sue diverse declinazioni e, poi, la verifica della teoria attraverso un caso studio.

L’analisi dettagliata dell’evoluzione delle relazioni tra imprese e cultura, cerca così di mettere in luce non solo i vantaggi che possono ottenere le produzioni artistiche attraverso i sostegni finanziari di banche e grandi aziende – facilitando l’accesso alla cultura alle diverse fasce del pubblico e garantendo una manutenzione accurata della produzione artistico-culturale -,

ma anche i vantaggi che la parte finanziatrice può ottenere da tale situazione, con l’incremento della sua reputazione agli occhi degli stakeholders e con la promozione di una buona responsabilità sociale d’impresa (misurata tra l’altro per mezzo dei parametri ESG). Successivamente, un focus particolare viene posto su UniCredit, prendendo questa impresa come esempio per analizzare la relazione tra banche e cultura, studiando le mosse che la banca ha fatto negli ultimi anni per sostenere il mondo artistico culturale, sottoponendo un’indagine ai fini dello studio ai principali stakeholders per comprendere come siano state percepite le mosse dell’azienda nell’ambito artistico culturale.

La ricerca di Eleonora Bavastro ha il grande pregio di riuscire a condensare in un numero limitato di pagine un tema complesso e di declinarlo poi anche dal punto di vista pratico.

Il contributo delle aziende al settore artistico e culturale. Il caso UniCredit
Eleonora Bavastro
Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali, 2023

Analizzata in una tesi teoria e pratica del sostegno da parte delle aziende dell’attività artistiche e culturali

L’impresa che fa cultura. Non solo cultura del produrre, ma cultura come visione della vita, attenzione al bello, all’arte, alla storia. Declinazione importante della responsabilità sociale d’impresa, l’attività di molte aziende per il sostegno al settore artistico e culturale continua ad essere un aspetto notevole del sistema produttivo in Italia e all’estero. Aspetto che, nonostante i molti esempi, va ancora studiato e approfondito. A tutto questo serve il lavoro di ricerca – sfociato in una tesi discussa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia – di Eleonora Bavastro nell’ambito del ciclo di studi in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali.

L’intento del lavoro è quello di soddisfare l’esigenza – come viene sottolineato nelle prime pagine – “di voler mettere in luce la relazione tra le grandi aziende e il sostegno di quest’ultime al mondo dell’arte e i benefici che possono trarre entrambe le parti da questo rapporto”. L’indagine di Bavastro è stata condotta sulla base di un metodo semplice: prima la messa a fuoco del tema nelle sue diverse declinazioni e, poi, la verifica della teoria attraverso un caso studio.

L’analisi dettagliata dell’evoluzione delle relazioni tra imprese e cultura, cerca così di mettere in luce non solo i vantaggi che possono ottenere le produzioni artistiche attraverso i sostegni finanziari di banche e grandi aziende – facilitando l’accesso alla cultura alle diverse fasce del pubblico e garantendo una manutenzione accurata della produzione artistico-culturale -,

ma anche i vantaggi che la parte finanziatrice può ottenere da tale situazione, con l’incremento della sua reputazione agli occhi degli stakeholders e con la promozione di una buona responsabilità sociale d’impresa (misurata tra l’altro per mezzo dei parametri ESG). Successivamente, un focus particolare viene posto su UniCredit, prendendo questa impresa come esempio per analizzare la relazione tra banche e cultura, studiando le mosse che la banca ha fatto negli ultimi anni per sostenere il mondo artistico culturale, sottoponendo un’indagine ai fini dello studio ai principali stakeholders per comprendere come siano state percepite le mosse dell’azienda nell’ambito artistico culturale.

La ricerca di Eleonora Bavastro ha il grande pregio di riuscire a condensare in un numero limitato di pagine un tema complesso e di declinarlo poi anche dal punto di vista pratico.

Il contributo delle aziende al settore artistico e culturale. Il caso UniCredit
Eleonora Bavastro
Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione delle Arti e delle Attività Culturali, 2023

Quei 2 miliardi di crediti da superbonus in mani mafiose e il bisogno d’una giustizia efficace

Nelle mani delle cosche mafiose ci sono 2 miliardi di falsi crediti d’imposta per i superbonus del 110%. Truffe ai danni dello Stato, con la complicità di professionisti apparentemente “insospettabili”. E risorse a vantaggio delle famiglie criminali della ‘ndrangheta, della camorra e della Stidda siciliana (un tempo antagonista di Cosa Nostra). La stima è stata fatta nei giorni scorsi dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia (IlSole24Ore, 18 maggio) ed è ritenuta approssimata per difetto. Con quei miliardi, le organizzazioni mafiose finanzierebbero traffici di droga e altre attività illecite.

Le operazioni sul superbonus sono soltanto l’ultima notizia emersa sull’economia criminale. Un’economia fiorente, prosperata anche in un clima di apparente disattenzione per i reati di mafia. “Temo la mafia quando non spara”, perché vuol dire che può organizzare con calma e silenziose complicità i suoi affari, devastando politica, economia e pubblica amministrazione, aveva insegnato Leonardo Sciascia, l’intellettuale forse più sensibile all’allarme per l’inquinamento eversivo dei boss. E infatti cronache recenti svelano il proliferare di attività mafiose nel cuore delle principali città italiane, con il dominio su bar e ristoranti famosi, comodi paraventi per riciclare denaro sporco e controllare il territorio. E ombre di mafia si sospettano anche dietro grandi appalti pubblici, a Genova e in Sicilia, in Puglia e in Lombardia.

Nulla di nuovo, a pensarci bene. Gli occhi dei capimafia hanno sempre guardato ai business più remunerativi. E le operazioni criminali sono oramai talmente diffuse su tutto il territorio nazionale da confermare quanto sia desueto il termine “infiltrazioni” e invece oramai d’attualità una vera e propria presenza strutturata dei boss.
Fa dunque bene IlSole24Ore a pubblicare in prima pagina, con grande evidenza, le notizie su quei 2 miliardi di falsi crediti d’imposta e segnalare così, con l’autorevolezza della principale testata economica nazionale, l’allarme profondo delle imprese per una deriva criminale che crea profondi danni alla competitività delle aziende sane, ai mercati e al corretto funzionamento della macchina pubblica.
La legalità sta a cuore alle imprese e la mafia è nemica radicale dello sviluppo, è stato a lungo un tema caro ai vertici di Confindustria, di Assolombarda e di altre organizzazioni industriali territoriali e di settore. Viene distorta la concorrenza, peggiora la qualità dei prodotti e dei servizi, è compromessa la sicurezza sui posti di lavoro. E grazie anche a livelli diffusi di evasione fiscale e contrattuale, le imprese regolari sono messe in serie difficoltà, con danni per l’ambiente (con lo smaltimento illegale dei rifiuti), la salute, la qualità della vita e della convivenza civile. Edilizia, appalti, sanità, servizi commerciali e finanziari sono i primi settori a risentire dell’inquinamento mafioso. Nel tempo, tutta la macchina economica ne viene radicalmente compromessa.
Nascono da queste considerazioni, che proprio la truffa mafiosa del superbonus riporta d’attualità, le crescenti sensibilità aziendali sui temi della qualità della giustizia (se ne è sentita l’eco alla talvolta rotonda organizzata a metà maggio, a Milano, dallo studio legale Bonelli Erede e dall’Aidaf, l’associazione della aziende familiari, sul tema “Imprese e Giustizia: sfide per le imprese e attrattività per gli investitori”).

Serve maggiore impegno contro la criminalità economica, quindi, a cominciare dal contrasto antimafia. E più responsabile attenzione per una riforma della giustizia che consenta alla macchina giudiziaria di essere efficiente, efficace, tempestiva, anche spendendo bene le risorse messe a disposizione dal Pnrr.
“Una giustizia efficiente incentiva l’innovazione, favorisce gli investimenti e l’attrattività del doing business, migliora la qualità del credito e ne riduce il costo, rinnova la filosofia dei cittadini nel funzionamento dello Stato democratico”, sostiene uno studio dell’Assonime dell’aprile ‘24, citando i dati che mostrano un miglioramento della situazione ma anche il perdurare di gravi inefficienze, carenze, ritardi.

Le imprese insistono sulla necessità di “certezza del diritto”. Dunque sui tempi delle risoluzioni delle controversie civili (cresce il favore per gli strumenti alternativi, come l’arbitrato e la mediazione, grazie pure al buon funzionamento della Camera Arbitrale della Camera di Commercio di Milano) e sul completamento tempestivo delle indagini penali. Sull’equilibrio e l’efficacia delle sanzioni attraverso sentenze chiare e ben fondate. Ma anche – ecco un punto cardine – sulla chiarezza delle leggi (con un richiamo critico a una legislazione spesso di discutibile qualità), sulle convergenze tra norme nazionali e legislazione europea e internazionale e sulla stabilità delle norme stesse nel corso del tempo (le continue modifiche delle disposizioni fiscali e tributarie, per fare un esempio, mettono seriamente in difficoltà le imprese e impediscono loro una pianificazione fiscale certa e di lungo periodo).

Nelle pieghe di una legislazione confusa e contraddittoria e nella farraginosità delle norme e della loro applicazione, chi vive comodamente è proprio un clan mafioso. Che sfrutta ogni opportunità per distorcere le regole e aggirare le sanzioni. accrescendo così anche ricchezza e potere. Il campanello d’allarme sui crediti da superbonus nelle mani di mafia e le preoccupazioni su appalti e subappalti meritano, appunto, ascolto e attenzione. E chiare scelte antimafia, giudiziarie e politiche. In nome della giustizia, naturalmente. Ma anche della qualità dello sviluppo economico sostenibile, della vita civile e – perché no? – della speranza di una migliore politica.

(foto Getty Images)

Nelle mani delle cosche mafiose ci sono 2 miliardi di falsi crediti d’imposta per i superbonus del 110%. Truffe ai danni dello Stato, con la complicità di professionisti apparentemente “insospettabili”. E risorse a vantaggio delle famiglie criminali della ‘ndrangheta, della camorra e della Stidda siciliana (un tempo antagonista di Cosa Nostra). La stima è stata fatta nei giorni scorsi dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia (IlSole24Ore, 18 maggio) ed è ritenuta approssimata per difetto. Con quei miliardi, le organizzazioni mafiose finanzierebbero traffici di droga e altre attività illecite.

Le operazioni sul superbonus sono soltanto l’ultima notizia emersa sull’economia criminale. Un’economia fiorente, prosperata anche in un clima di apparente disattenzione per i reati di mafia. “Temo la mafia quando non spara”, perché vuol dire che può organizzare con calma e silenziose complicità i suoi affari, devastando politica, economia e pubblica amministrazione, aveva insegnato Leonardo Sciascia, l’intellettuale forse più sensibile all’allarme per l’inquinamento eversivo dei boss. E infatti cronache recenti svelano il proliferare di attività mafiose nel cuore delle principali città italiane, con il dominio su bar e ristoranti famosi, comodi paraventi per riciclare denaro sporco e controllare il territorio. E ombre di mafia si sospettano anche dietro grandi appalti pubblici, a Genova e in Sicilia, in Puglia e in Lombardia.

Nulla di nuovo, a pensarci bene. Gli occhi dei capimafia hanno sempre guardato ai business più remunerativi. E le operazioni criminali sono oramai talmente diffuse su tutto il territorio nazionale da confermare quanto sia desueto il termine “infiltrazioni” e invece oramai d’attualità una vera e propria presenza strutturata dei boss.
Fa dunque bene IlSole24Ore a pubblicare in prima pagina, con grande evidenza, le notizie su quei 2 miliardi di falsi crediti d’imposta e segnalare così, con l’autorevolezza della principale testata economica nazionale, l’allarme profondo delle imprese per una deriva criminale che crea profondi danni alla competitività delle aziende sane, ai mercati e al corretto funzionamento della macchina pubblica.
La legalità sta a cuore alle imprese e la mafia è nemica radicale dello sviluppo, è stato a lungo un tema caro ai vertici di Confindustria, di Assolombarda e di altre organizzazioni industriali territoriali e di settore. Viene distorta la concorrenza, peggiora la qualità dei prodotti e dei servizi, è compromessa la sicurezza sui posti di lavoro. E grazie anche a livelli diffusi di evasione fiscale e contrattuale, le imprese regolari sono messe in serie difficoltà, con danni per l’ambiente (con lo smaltimento illegale dei rifiuti), la salute, la qualità della vita e della convivenza civile. Edilizia, appalti, sanità, servizi commerciali e finanziari sono i primi settori a risentire dell’inquinamento mafioso. Nel tempo, tutta la macchina economica ne viene radicalmente compromessa.
Nascono da queste considerazioni, che proprio la truffa mafiosa del superbonus riporta d’attualità, le crescenti sensibilità aziendali sui temi della qualità della giustizia (se ne è sentita l’eco alla talvolta rotonda organizzata a metà maggio, a Milano, dallo studio legale Bonelli Erede e dall’Aidaf, l’associazione della aziende familiari, sul tema “Imprese e Giustizia: sfide per le imprese e attrattività per gli investitori”).

Serve maggiore impegno contro la criminalità economica, quindi, a cominciare dal contrasto antimafia. E più responsabile attenzione per una riforma della giustizia che consenta alla macchina giudiziaria di essere efficiente, efficace, tempestiva, anche spendendo bene le risorse messe a disposizione dal Pnrr.
“Una giustizia efficiente incentiva l’innovazione, favorisce gli investimenti e l’attrattività del doing business, migliora la qualità del credito e ne riduce il costo, rinnova la filosofia dei cittadini nel funzionamento dello Stato democratico”, sostiene uno studio dell’Assonime dell’aprile ‘24, citando i dati che mostrano un miglioramento della situazione ma anche il perdurare di gravi inefficienze, carenze, ritardi.

Le imprese insistono sulla necessità di “certezza del diritto”. Dunque sui tempi delle risoluzioni delle controversie civili (cresce il favore per gli strumenti alternativi, come l’arbitrato e la mediazione, grazie pure al buon funzionamento della Camera Arbitrale della Camera di Commercio di Milano) e sul completamento tempestivo delle indagini penali. Sull’equilibrio e l’efficacia delle sanzioni attraverso sentenze chiare e ben fondate. Ma anche – ecco un punto cardine – sulla chiarezza delle leggi (con un richiamo critico a una legislazione spesso di discutibile qualità), sulle convergenze tra norme nazionali e legislazione europea e internazionale e sulla stabilità delle norme stesse nel corso del tempo (le continue modifiche delle disposizioni fiscali e tributarie, per fare un esempio, mettono seriamente in difficoltà le imprese e impediscono loro una pianificazione fiscale certa e di lungo periodo).

Nelle pieghe di una legislazione confusa e contraddittoria e nella farraginosità delle norme e della loro applicazione, chi vive comodamente è proprio un clan mafioso. Che sfrutta ogni opportunità per distorcere le regole e aggirare le sanzioni. accrescendo così anche ricchezza e potere. Il campanello d’allarme sui crediti da superbonus nelle mani di mafia e le preoccupazioni su appalti e subappalti meritano, appunto, ascolto e attenzione. E chiare scelte antimafia, giudiziarie e politiche. In nome della giustizia, naturalmente. Ma anche della qualità dello sviluppo economico sostenibile, della vita civile e – perché no? – della speranza di una migliore politica.

(foto Getty Images)

“L’officina dello sport”:
una serata al Teatro Franco Parenti dedicata al nuovo libro
edito da Marsilio Arte

Raccontare lo sport come competizione, conoscenza, competenza, comunità, indagandone il «dietro le quinte». È questo l’obiettivo del volume “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, pubblicato da Marsilio Arte e curato dalla Fondazione Pirelli. Il libro sarà presentato mercoledì 26 giugno alle ore 19 al Teatro Franco Parenti alla presenza di Marco Tronchetti Provera, Vicepresidente Esecutivo di Pirelli e insieme a numerosi ospiti del mondo della cultura e dello sport. Per l’occasione, il foyer del Teatro e i Bagni Misteriosi saranno allestiti con installazioni realizzate a partire dalle immagini dell’Archivio Storico Pirelli, e con riproduzioni in scala delle tavole inedite realizzate dall’artista Lorenzo Mattotti per illustrare il volume.

Il progetto editoriale, disponibile in versione italiana e versione inglese separata, documenta i cantieri, le “officine”, i laboratori, le fabbriche dei prodotti sportivi; il backstage delle competizioni; le voci, i suoni, gli inni; la messa in scena e il racconto dello sport. E ancora: lo sport nell’impresa al centro delle iniziative di welfare aziendale, tra passato e presente. Il libro è ripartito in una sezione introduttiva con contributi istituzionali di Marco Tronchetti Provera, Giovanni Malagò, Evelina Christillin e Stefano Domenicali; una sezione narrativa con un racconto dello scrittore Joe Lansdale e altri contributi sul legame tra Pirelli e lo sport di Antonio Calabrò, Ambrogio Beccaria, Mario Isola; una sezione saggistica con approfondimenti sui molteplici aspetti del mondo sportivo: Emanuela Audisio, Eva Cantarella, Giuseppe Di Piazza, Giuseppe Lupo, Darwin Pastorin, sono alcuni degli scrittori coinvolti. Schede tematiche sugli ambiti sportivi che hanno visto protagonista Pirelli nel corso della sua storia completano gli apparati del libro.

Al progetto è associata anche una piattaforma web dedicata, presto disponibile online, sulla quale gli utenti potranno approfondire tutti i contenuti del volume, con una timeline dedicata alla passione di Pirelli per lo sport, da rivivere in oltre 150 anni di storia aziendale.

Ingresso libero fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria qui

Raccontare lo sport come competizione, conoscenza, competenza, comunità, indagandone il «dietro le quinte». È questo l’obiettivo del volume “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, pubblicato da Marsilio Arte e curato dalla Fondazione Pirelli. Il libro sarà presentato mercoledì 26 giugno alle ore 19 al Teatro Franco Parenti alla presenza di Marco Tronchetti Provera, Vicepresidente Esecutivo di Pirelli e insieme a numerosi ospiti del mondo della cultura e dello sport. Per l’occasione, il foyer del Teatro e i Bagni Misteriosi saranno allestiti con installazioni realizzate a partire dalle immagini dell’Archivio Storico Pirelli, e con riproduzioni in scala delle tavole inedite realizzate dall’artista Lorenzo Mattotti per illustrare il volume.

Il progetto editoriale, disponibile in versione italiana e versione inglese separata, documenta i cantieri, le “officine”, i laboratori, le fabbriche dei prodotti sportivi; il backstage delle competizioni; le voci, i suoni, gli inni; la messa in scena e il racconto dello sport. E ancora: lo sport nell’impresa al centro delle iniziative di welfare aziendale, tra passato e presente. Il libro è ripartito in una sezione introduttiva con contributi istituzionali di Marco Tronchetti Provera, Giovanni Malagò, Evelina Christillin e Stefano Domenicali; una sezione narrativa con un racconto dello scrittore Joe Lansdale e altri contributi sul legame tra Pirelli e lo sport di Antonio Calabrò, Ambrogio Beccaria, Mario Isola; una sezione saggistica con approfondimenti sui molteplici aspetti del mondo sportivo: Emanuela Audisio, Eva Cantarella, Giuseppe Di Piazza, Giuseppe Lupo, Darwin Pastorin, sono alcuni degli scrittori coinvolti. Schede tematiche sugli ambiti sportivi che hanno visto protagonista Pirelli nel corso della sua storia completano gli apparati del libro.

Al progetto è associata anche una piattaforma web dedicata, presto disponibile online, sulla quale gli utenti potranno approfondire tutti i contenuti del volume, con una timeline dedicata alla passione di Pirelli per lo sport, da rivivere in oltre 150 anni di storia aziendale.

Ingresso libero fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria qui

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La fotografia industriale,
un racconto visivo del lavoro

“Non è giusto voler osservare queste architetture, esuberanti di una loro caratteristica tipicità, troppo da vicino, cercando di comprendere il tutto partendo dal particolare”. Così scrive l’architetto Giuliano Guiducci in un articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli nel 1961, dall’evocativo titolo “Fabbriche come monumenti”, in cui si indagano la peculiarità e la complessità degli insediamenti produttivi. Dalle parole di Guiducci emerge la difficoltà del compito della fotografia industriale, che proprio “partendo dal particolare” deve restituire l’eterogeneo insieme di persone, macchine, spazi architettonici e cultura del  “saper fare” che caratterizza questi luoghi. Una sfida non indifferente per i maestri dell’obiettivo.
La fotografia industriale in Italia si sviluppa a partire dalla fine dell’Ottocento, accompagnando l’evoluzione del settore manifatturiero nazionale e delineandosi sia come genere fotografico, con una ricorrenza di temi e soggetti, sia come meta-genere che ne raggruppa dentro di sé altri, come l’architettura, il ritratto, il reportage e lo still life. Non è dunque l’iconografia a connotare principalmente questa espressione artistica, ma il suo essere rapporto e mediazione tra la sensibilità e lo stile del fotografo e le esigenze comunicative di un’azienda, impegnata nel veicolare all’esterno i suoi valori ideologici, sociali e culturali, creando una propria riconoscibile identità.

Pirelli apre sin da subito gli impianti di lavorazione agli artisti, per documentare i processi di produzione che portano la gomma a trasformarsi in pneumatici, rivestimenti per cavi, cinghie di trasmissione, palloni da gioco, mantelline e molto altro. Il reportage realizzato nel 1922 all’interno dei reparti di Bicocca, per celebrare i 50 anni del Gruppo, cattura le diverse “anime” della fabbrica: uno sguardo particolare è rivolto ai macchinari necessari ai diversi cicli produttivi – mescolatori, calandre e laminatoi – ma anche agli spazi, come il magazzino delle materie prime e l’area di vulcanizzazione. Una forte attenzione è poi rivolta naturalmente all’universo dei lavoratori, con scatti che nobilitano le loro mani all’opera. Le storie di fabbrica passano anche attraverso immagini d’autore che mostrano l’evoluzione della fotografia industriale, seguendo i mutamenti sociali ed estetici del tempo. Dall’impostazione statica delle fotografie di inizio Novecento, con gli operai in posa davanti all’obiettivo – come Le maestranze Pirelli all’uscita dallo stabilimento di Milano di Luca Comerio del 1905, un tributo alla forza manifatturiera raggiunta dall’azienda – alle immagini “espressioniste” di John Deakin datate 1961. All’inizio degli anni Sessanta l’artista inglese, amico e collaboratore di Francis Bacon e celebre per le sue crude scene di strada e i servizi di moda per “Vogue”, si muove tra Milano, Roma e soprattutto Genova, dove soddisfa la propria personale curiosità per il mondo industriale fotografando le fonderie e le acciaierie del gruppo siderurgico Italsider. Gli scatti realizzati nelle sale lavorazione di Bicocca mostrano tutto il significato “umano” della fabbrica. Indagine psicologica, ritratti penetranti e l’eroico rapporto tra uomo e lavoro, tutto questo in un drammatico bianco e nero di grande maestria tecnica.

All’interno delle politiche di comunicazione di Pirelli, la fotografia gioca un ruolo di assoluta rilevanza anche nell’ambito degli house organ: l’apparato iconografico, oltre ad attestare la modernità e lo sviluppo tecnologico raggiunti dall’azienda, si fa racconto del presente, restituendo il ritratto dell’Italia del Dopoguerra che rinasce proprio a partire dall’industria, volano del benessere economico dell’epoca del boom. Sono numerosi i reportage d’autore realizzati all’interno della fabbrica sulle pagine della Rivista Pirelli: la cartiera di Tolmezzo, entrata a far parte del Gruppo nel 1953 e indirizzata alla produzione di cellulosa per raion, è al centro degli scatti di Fulvio Roiter, che indaga con estrema eleganza formale gli spazi di uno dei più importanti complessi industriali italiani per la produzione di carta, dal deposito legname agli impianti di depurazione, fino alle officine adibite alla raccolta delle bobine. Ugo Mulas firma parte delle fotografie che accompagnano la lunga inchiesta sul lavoro femminile in Italia che occupa tre numeri del periodico nel 1963, mostrando le operaie “in azione” presso il calzaturificio Superga di Triggiano, lo stabilimento confezioni di Arona e quello di Arco Felice, adibito alla produzione di cavi sottomarini per il trasporto di energia. È proprio l’impianto campano della “P lunga” il protagonista del fotoservizio del 1964  di Horst H. Baumann, che documenta le fasi di costruzione del cavo “Sacoi” – destinato a trasportare nella Penisola l’energia prodotta dalla centrale termoelettrica del Sulcis – mediante fotografie dal forte impatto visivo, come quelle che mostrano l’avvolgimento del cavo, spira dopo spira, in una grande vasca di accumulo per il conferimento delle doti elettriche tramite trattamento sottovuoto. L’impresa grandiosa contribuisce l’anno successivo all’assegnazione allo stabilimento del premio ANIAI – Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani per la migliore realizzazione di ingegneria elettronica realizzata in Italia. Alla fine degli anni Sessanta Arno Hammacher visita gli interni dell’Azienda Solari di Udine, consociata di Pirelli all’apice dalla fama per le forniture internazionali di orologi a lettura diretta e teleindicatori. Molle e ruote, palette e rulli: l’attenzione è tutta sulle componenti necessarie per muovere le ore e i minuti nell’iconico “Cifra 3”. È sempre il fotografo olandese a firmare, una decina di anni prima, le controcopertine della Rivista con ravvicinati primi piani in bianco e nero delle linee di produzione della fabbrica di Milano Bicocca, dai materiali – trecce metalliche, balle di gomma cruda pronte per la plastificazione, rocchetti di filo di rame – ai macchinari, come le cordatrici in movimento, fino ai prodotti, tra cui cavi per le telecomunicazioni e pneumatici appena estratti dallo stampo di vulcanizzazione.

La tradizione dei “fotografi in fabbrica” continua ancora con artisti di fama internazionale chiamati a collaborare con l’azienda. Carlo Furgeri Gilbert ha realizzato reportage presso gli stabilimenti del Gruppo in Italia e nel mondo, da Bollate a Settimo Torinese, da Breuberg a Izmit fino a Slatina. Il Polo Industriale Pirelli alle porte di Torino è stato documentato anche da Peter Lindbergh nel 2016, nell’ambito del progetto che ha portato l’anno successivo alla creazione del Calendario, e dall’obiettivo di Alessandro Scotti, che chiude con i suoi scatti l’Annual Report del 2021. Immagini suggestive e potenti che, tra documentazione ed espressione, catturano la poesia nei luoghi simbolo del lavoro e mostrano l’umiltà e la libertà dello sguardo dei fotografi, che osservano “i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito”.

“Non è giusto voler osservare queste architetture, esuberanti di una loro caratteristica tipicità, troppo da vicino, cercando di comprendere il tutto partendo dal particolare”. Così scrive l’architetto Giuliano Guiducci in un articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli nel 1961, dall’evocativo titolo “Fabbriche come monumenti”, in cui si indagano la peculiarità e la complessità degli insediamenti produttivi. Dalle parole di Guiducci emerge la difficoltà del compito della fotografia industriale, che proprio “partendo dal particolare” deve restituire l’eterogeneo insieme di persone, macchine, spazi architettonici e cultura del  “saper fare” che caratterizza questi luoghi. Una sfida non indifferente per i maestri dell’obiettivo.
La fotografia industriale in Italia si sviluppa a partire dalla fine dell’Ottocento, accompagnando l’evoluzione del settore manifatturiero nazionale e delineandosi sia come genere fotografico, con una ricorrenza di temi e soggetti, sia come meta-genere che ne raggruppa dentro di sé altri, come l’architettura, il ritratto, il reportage e lo still life. Non è dunque l’iconografia a connotare principalmente questa espressione artistica, ma il suo essere rapporto e mediazione tra la sensibilità e lo stile del fotografo e le esigenze comunicative di un’azienda, impegnata nel veicolare all’esterno i suoi valori ideologici, sociali e culturali, creando una propria riconoscibile identità.

Pirelli apre sin da subito gli impianti di lavorazione agli artisti, per documentare i processi di produzione che portano la gomma a trasformarsi in pneumatici, rivestimenti per cavi, cinghie di trasmissione, palloni da gioco, mantelline e molto altro. Il reportage realizzato nel 1922 all’interno dei reparti di Bicocca, per celebrare i 50 anni del Gruppo, cattura le diverse “anime” della fabbrica: uno sguardo particolare è rivolto ai macchinari necessari ai diversi cicli produttivi – mescolatori, calandre e laminatoi – ma anche agli spazi, come il magazzino delle materie prime e l’area di vulcanizzazione. Una forte attenzione è poi rivolta naturalmente all’universo dei lavoratori, con scatti che nobilitano le loro mani all’opera. Le storie di fabbrica passano anche attraverso immagini d’autore che mostrano l’evoluzione della fotografia industriale, seguendo i mutamenti sociali ed estetici del tempo. Dall’impostazione statica delle fotografie di inizio Novecento, con gli operai in posa davanti all’obiettivo – come Le maestranze Pirelli all’uscita dallo stabilimento di Milano di Luca Comerio del 1905, un tributo alla forza manifatturiera raggiunta dall’azienda – alle immagini “espressioniste” di John Deakin datate 1961. All’inizio degli anni Sessanta l’artista inglese, amico e collaboratore di Francis Bacon e celebre per le sue crude scene di strada e i servizi di moda per “Vogue”, si muove tra Milano, Roma e soprattutto Genova, dove soddisfa la propria personale curiosità per il mondo industriale fotografando le fonderie e le acciaierie del gruppo siderurgico Italsider. Gli scatti realizzati nelle sale lavorazione di Bicocca mostrano tutto il significato “umano” della fabbrica. Indagine psicologica, ritratti penetranti e l’eroico rapporto tra uomo e lavoro, tutto questo in un drammatico bianco e nero di grande maestria tecnica.

All’interno delle politiche di comunicazione di Pirelli, la fotografia gioca un ruolo di assoluta rilevanza anche nell’ambito degli house organ: l’apparato iconografico, oltre ad attestare la modernità e lo sviluppo tecnologico raggiunti dall’azienda, si fa racconto del presente, restituendo il ritratto dell’Italia del Dopoguerra che rinasce proprio a partire dall’industria, volano del benessere economico dell’epoca del boom. Sono numerosi i reportage d’autore realizzati all’interno della fabbrica sulle pagine della Rivista Pirelli: la cartiera di Tolmezzo, entrata a far parte del Gruppo nel 1953 e indirizzata alla produzione di cellulosa per raion, è al centro degli scatti di Fulvio Roiter, che indaga con estrema eleganza formale gli spazi di uno dei più importanti complessi industriali italiani per la produzione di carta, dal deposito legname agli impianti di depurazione, fino alle officine adibite alla raccolta delle bobine. Ugo Mulas firma parte delle fotografie che accompagnano la lunga inchiesta sul lavoro femminile in Italia che occupa tre numeri del periodico nel 1963, mostrando le operaie “in azione” presso il calzaturificio Superga di Triggiano, lo stabilimento confezioni di Arona e quello di Arco Felice, adibito alla produzione di cavi sottomarini per il trasporto di energia. È proprio l’impianto campano della “P lunga” il protagonista del fotoservizio del 1964  di Horst H. Baumann, che documenta le fasi di costruzione del cavo “Sacoi” – destinato a trasportare nella Penisola l’energia prodotta dalla centrale termoelettrica del Sulcis – mediante fotografie dal forte impatto visivo, come quelle che mostrano l’avvolgimento del cavo, spira dopo spira, in una grande vasca di accumulo per il conferimento delle doti elettriche tramite trattamento sottovuoto. L’impresa grandiosa contribuisce l’anno successivo all’assegnazione allo stabilimento del premio ANIAI – Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani per la migliore realizzazione di ingegneria elettronica realizzata in Italia. Alla fine degli anni Sessanta Arno Hammacher visita gli interni dell’Azienda Solari di Udine, consociata di Pirelli all’apice dalla fama per le forniture internazionali di orologi a lettura diretta e teleindicatori. Molle e ruote, palette e rulli: l’attenzione è tutta sulle componenti necessarie per muovere le ore e i minuti nell’iconico “Cifra 3”. È sempre il fotografo olandese a firmare, una decina di anni prima, le controcopertine della Rivista con ravvicinati primi piani in bianco e nero delle linee di produzione della fabbrica di Milano Bicocca, dai materiali – trecce metalliche, balle di gomma cruda pronte per la plastificazione, rocchetti di filo di rame – ai macchinari, come le cordatrici in movimento, fino ai prodotti, tra cui cavi per le telecomunicazioni e pneumatici appena estratti dallo stampo di vulcanizzazione.

La tradizione dei “fotografi in fabbrica” continua ancora con artisti di fama internazionale chiamati a collaborare con l’azienda. Carlo Furgeri Gilbert ha realizzato reportage presso gli stabilimenti del Gruppo in Italia e nel mondo, da Bollate a Settimo Torinese, da Breuberg a Izmit fino a Slatina. Il Polo Industriale Pirelli alle porte di Torino è stato documentato anche da Peter Lindbergh nel 2016, nell’ambito del progetto che ha portato l’anno successivo alla creazione del Calendario, e dall’obiettivo di Alessandro Scotti, che chiude con i suoi scatti l’Annual Report del 2021. Immagini suggestive e potenti che, tra documentazione ed espressione, catturano la poesia nei luoghi simbolo del lavoro e mostrano l’umiltà e la libertà dello sguardo dei fotografi, che osservano “i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito”.

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Conoscere l’IA per usarla per bene e non per farsi usare

Un libro scritto da un economista e da un filosofo fornisce le informazioni corrette per iniziare a comprendere questa tecnologia

Comprendere l’Intelligenza Artificiale (IA) per usarla meglio e per non cadere nell’errore di farsi sovrastare da questa nuova tecnologia. Compito di tutti, soprattutto di chi – come i manager oppure gli imprenditori, ma anche chi è nelle istituzioni – ha la responsabilità non solo del proprio destino ma di quello di molti. Comprendere, e cioè “studiare” leggendo magari “Digital Sapiens. Decidere con l’intelligenza artificiale”, libro appena pubblicato scritto a quattro mani da Nicola Lattanzi (economista) e Andrea Vestrucci (filosofo) che ha il grande obiettivo di fare chiarezza in un campo della conoscenza ancora molto contrastato e, soprattutto, confuso.

I due autori cercano di destreggiarsi tra l’idea della IA come “propaggine del nostro cervello” e della IA come strumento di controllo e di governo delle azioni umane. Nicola Lattanzi e Andrea Vestrucci rispondono a questo interrogativo, illustrando i benefici e i pericoli insiti nell’interazione tra l’uomo (Homo Sapiens) e Intelligenza Artificiale. E lo fanno partendo dall’analisi delle condotte e dei comportamenti umani per arrivare al confronto tra “decisioni artificiali” e “decisioni umane” per passare poi ad approfondire tratti e caratteristiche dell’IA vista non solo come problema ma anche come soluzione al problema sempre che sia correttamente intesa e usata. Ed è proprio questo il nodo che Lattanzi e Vestrucci cercano di sciogliere: decidere con l’IA è possibile, a condizione di conoscerne il funzionamento e di sfruttarne le potenzialità.

Nelle ultime pagine del libro i due autori sottolineano: “I Sapiens possono programmare l’Intelligenza Artificiale per eseguire compiti con precisione e velocità inimmaginabili, ma le qualità che definiscono la nostra essenza – la creatività, l’empatia, la spiritualità – restano ancora da approfondire nel dominio digitale”. E poi ancora: “La sfida da vincere è quella di garantire che la spinta e il desiderio di innovazione siano accompagnati da una rinnovata valorizzazione delle straordinarie abilità cognitive dei Sapiens.  In questo modo noi Sapiens dell’era digitale potremmo aspirare non solo a una società tecnicamente avanzata, ma anche più umana, ossia più consapevole di cosa significhi essere umano”. Tutto da leggere il libro di Nicola Lattanzi e Andrea Vestrucci

Digital Sapiens. Decidere con l’intelligenza artificiale

Nicola Lattanzi, Andrea Vestrucci

Castelvecchi, 2024

Un libro scritto da un economista e da un filosofo fornisce le informazioni corrette per iniziare a comprendere questa tecnologia

Comprendere l’Intelligenza Artificiale (IA) per usarla meglio e per non cadere nell’errore di farsi sovrastare da questa nuova tecnologia. Compito di tutti, soprattutto di chi – come i manager oppure gli imprenditori, ma anche chi è nelle istituzioni – ha la responsabilità non solo del proprio destino ma di quello di molti. Comprendere, e cioè “studiare” leggendo magari “Digital Sapiens. Decidere con l’intelligenza artificiale”, libro appena pubblicato scritto a quattro mani da Nicola Lattanzi (economista) e Andrea Vestrucci (filosofo) che ha il grande obiettivo di fare chiarezza in un campo della conoscenza ancora molto contrastato e, soprattutto, confuso.

I due autori cercano di destreggiarsi tra l’idea della IA come “propaggine del nostro cervello” e della IA come strumento di controllo e di governo delle azioni umane. Nicola Lattanzi e Andrea Vestrucci rispondono a questo interrogativo, illustrando i benefici e i pericoli insiti nell’interazione tra l’uomo (Homo Sapiens) e Intelligenza Artificiale. E lo fanno partendo dall’analisi delle condotte e dei comportamenti umani per arrivare al confronto tra “decisioni artificiali” e “decisioni umane” per passare poi ad approfondire tratti e caratteristiche dell’IA vista non solo come problema ma anche come soluzione al problema sempre che sia correttamente intesa e usata. Ed è proprio questo il nodo che Lattanzi e Vestrucci cercano di sciogliere: decidere con l’IA è possibile, a condizione di conoscerne il funzionamento e di sfruttarne le potenzialità.

Nelle ultime pagine del libro i due autori sottolineano: “I Sapiens possono programmare l’Intelligenza Artificiale per eseguire compiti con precisione e velocità inimmaginabili, ma le qualità che definiscono la nostra essenza – la creatività, l’empatia, la spiritualità – restano ancora da approfondire nel dominio digitale”. E poi ancora: “La sfida da vincere è quella di garantire che la spinta e il desiderio di innovazione siano accompagnati da una rinnovata valorizzazione delle straordinarie abilità cognitive dei Sapiens.  In questo modo noi Sapiens dell’era digitale potremmo aspirare non solo a una società tecnicamente avanzata, ma anche più umana, ossia più consapevole di cosa significhi essere umano”. Tutto da leggere il libro di Nicola Lattanzi e Andrea Vestrucci

Digital Sapiens. Decidere con l’intelligenza artificiale

Nicola Lattanzi, Andrea Vestrucci

Castelvecchi, 2024

Finanza sostenibile?

Una tesi di dottorato discussa alla Sapienza cerca di fare chiarezza in un’area ancora complessa tra imprese, sostenibilità e finanza

Impresa attenta alla sostenibilità e finanza ugualmente attenta alla sostenibilità. Binomio importante, che completa una cultura della produzione a tutto tondo. Ed è sulla finanza sostenibile che concentra l’attenzione Tiziana Nupieri con la sua tesi di dottorato discussa all’Università Sapienza recentemente che cerca di approfondire

“le basi istitutive della finanza sostenibile in Italia in termini valoriali e cognitivi guardando agli attori che intervengono nella costruzione di specifici significati attribuiti al concetto”.

Indagine quindi “sul campo” quella di Nupieri che dichiaratamente ha un obiettivo: sostenere che “la finanza sostenibile, contrariamente da quanto espresso nel dibattito pubblico e politico, rappresenta uno strumento utile a riprodurre (…) alcuni principi che stanno alla base del paradigma neoliberista, nonché a sostenere l’attivazione di corsi d’azione in linea con un progressivo processo di finanziarizzazione della sostenibilità”.

Il lavoro, prima inquadra teoria e pratica della finanza sostenibile in generale e in Italia in particolare, poi ne approfondisce i principali attori coinvolgendoli anche in una serie di interviste.

L’indagine di Nupieri arriva a dimostrare quanto sia complesso lo spazio d’azione tra gli obiettivi della sostenibilità in economia e quelli della finanza. Nonostante le diverse ambiguità definitorie (o forse anche grazie a queste) – spiega Nupieri –  il concetto di finanza sostenibile può “essere ricondotto un progetto di finanziarizzazione della sostenibilità”; oltre a questo la ricerca evidenzia come la finanziarizzazione della sostenibilità sia sorretta da attori capaci – combinando risorse relazionali e specifiche risorse cognitive – di dare significato alla “finanza sostenibile mediante meccanismi discorsivi di causalità in cui la sostenibilità gioca un ruolo ancillare nell’allargamento delle logiche e meccanismi finanziari”. In altri termini, tra finanza votata al profitto e sostenibilità dedita a traguardi diversi, esiste un’area di contatto non facile da comprendere, spesso con molte ombre ma anche con alcune opportunità che vanno però coltivate e sviluppate.

La ricerca di Tiziana Nupieri non è facile da affrontare, ma fornisce strumenti utili per la conoscenza di un tema di grande attualità e complessità.

 

 

Finanza più Sostenibilità uguale Finanza Sostenibile? Attori, processi e rappresentazioni nel caso italiano

Tiziana Nupieri

Tesi di dottorato  in Scienze Sociali Applicate, Università Sapienza, 2024

Una tesi di dottorato discussa alla Sapienza cerca di fare chiarezza in un’area ancora complessa tra imprese, sostenibilità e finanza

Impresa attenta alla sostenibilità e finanza ugualmente attenta alla sostenibilità. Binomio importante, che completa una cultura della produzione a tutto tondo. Ed è sulla finanza sostenibile che concentra l’attenzione Tiziana Nupieri con la sua tesi di dottorato discussa all’Università Sapienza recentemente che cerca di approfondire

“le basi istitutive della finanza sostenibile in Italia in termini valoriali e cognitivi guardando agli attori che intervengono nella costruzione di specifici significati attribuiti al concetto”.

Indagine quindi “sul campo” quella di Nupieri che dichiaratamente ha un obiettivo: sostenere che “la finanza sostenibile, contrariamente da quanto espresso nel dibattito pubblico e politico, rappresenta uno strumento utile a riprodurre (…) alcuni principi che stanno alla base del paradigma neoliberista, nonché a sostenere l’attivazione di corsi d’azione in linea con un progressivo processo di finanziarizzazione della sostenibilità”.

Il lavoro, prima inquadra teoria e pratica della finanza sostenibile in generale e in Italia in particolare, poi ne approfondisce i principali attori coinvolgendoli anche in una serie di interviste.

L’indagine di Nupieri arriva a dimostrare quanto sia complesso lo spazio d’azione tra gli obiettivi della sostenibilità in economia e quelli della finanza. Nonostante le diverse ambiguità definitorie (o forse anche grazie a queste) – spiega Nupieri –  il concetto di finanza sostenibile può “essere ricondotto un progetto di finanziarizzazione della sostenibilità”; oltre a questo la ricerca evidenzia come la finanziarizzazione della sostenibilità sia sorretta da attori capaci – combinando risorse relazionali e specifiche risorse cognitive – di dare significato alla “finanza sostenibile mediante meccanismi discorsivi di causalità in cui la sostenibilità gioca un ruolo ancillare nell’allargamento delle logiche e meccanismi finanziari”. In altri termini, tra finanza votata al profitto e sostenibilità dedita a traguardi diversi, esiste un’area di contatto non facile da comprendere, spesso con molte ombre ma anche con alcune opportunità che vanno però coltivate e sviluppate.

La ricerca di Tiziana Nupieri non è facile da affrontare, ma fornisce strumenti utili per la conoscenza di un tema di grande attualità e complessità.

 

 

Finanza più Sostenibilità uguale Finanza Sostenibile? Attori, processi e rappresentazioni nel caso italiano

Tiziana Nupieri

Tesi di dottorato  in Scienze Sociali Applicate, Università Sapienza, 2024

Scrivere un nuovo e migliore racconto di Milano, legando valori e interessi di cittadini e city users

Le città più vitali e dinamiche crescono e migliorano la qualità della vita e del lavoro dei loro abitanti anche grazie all’abitudine diffusa a raccontarsi, analizzarsi, mettersi in discussione. A parlare di sé, insomma, evitando di cadere nelle trappole della retorica e dell’autocelebrazione, ma anche dei silenzi e delle cupezze segrete da consorterie provinciali. Milano ne può essere un buon esempio. Con una sapida inclinazione alla critica e all’autocritica (leggere, per esempio, tra le pubblicazioni più recenti, le taglienti e ruvide pagine de “L’invenzione di Milano” di Lucia Tozzi, Cronopio, per analizzare con severità “culto della comunicazione e politiche urbane”). Ma anche con un sofisticato utilizzo della memoria, come dimostra lo “Stradario sentimentale di Milano” di Andrea Kerbaker, Bur Rizzoli, una lunga serie di “storie della città che cambia”, percorrendo via Bagutta e via Mac Mahon, Ripa di Porta Ticinese e via Porpora, piazzetta Cuccia e altri 28 luoghi chiave tra il centro storico e le periferie. O come sa raccontare bene Alberto Saibene in “Milano fine Novecento – Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più” e in “Storie di un’altra Italia”, entrambi per le Edizioni Casagrande.

La bibliografia su Milano, d’altronde, è quasi sconfinata (può fare il paio con quella degli autori siciliani e sulla Sicilia; Elio Vittorini fa da trait d’union). Segno, appunto, d’una cura per l’analisi e la dialettica, in un “discorso pubblico” che non può che fare bene al futuro della città.

Di certo, Milano è abbastanza irriducibile agli stereotipi. E, per essere raccontata compiutamente, ha bisogno di parole e immagini meno superficiali di quelle che affollano abitualmente i media, anche social, inclini agli effetti facili e alle emozioni più grossolane.

Una riprova? Le cronache sono ancora una volta affollate, in questi giorni, dai temi della violenza diffusa. L’ aggressione a un poliziotto, gravemente ferito da un immigrato irregolare, alla Stazione Centrale. E lo scontro d’un altro immigrato clandestino, con alcuni poliziotti a Lambrate. L’allarme per i reati “di strada” e cioè rapine, borseggi, furti, spaccio di droga, con arresti cresciuti del 30% negli ultimi mesi rispetto all’anno precedente (la denuncia è di Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, la Repubblica 11 maggio). E la sensazione sempre più diffusa di una condizione di insicurezza. Con le polemiche politiche collegate.

Milano Gotham city”, è la sbrigativa sintesi che ha grande presa sui social media.

Una sintesi fondata? Sui dati relativi alla criminalità, no. Prefettura e Questura, guardando alla serie storica dei reati, ne documentano la diminuzione. E Il Foglio nota: “L’aneddotica suggerisce che a Milano c’è un’emergenza legata alla sicurezza, i numeri no. Rispetto a dieci anni fa, i delitti a Milano sono diminuiti di 21mila unità, a fronte di un aumento del 5 per cento dei cittadini residenti”.

Anche allargando lo sguardo e andando indietro con i ricordi, siamo molto lontani da quella stagione “di piombo” in cui, a parte il terrorismo, Milano era teatro di scontri sanguinosi tra le bande criminali di Francis Turatello “faccia d’angelo”, René Vallanzasca e Angelo Epaminonda detto “il tebano” (per capire meglio, vale la pena leggere “Canti di guerra” e cioè “conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta” di Stefano Nazzi, Mondadori). O anche dai tempi in cui la città era preda delle violenze dei mafiosi siciliani e delle scorribande dei loro banchieri, come Michele Sindona, in Borsa e nel mondo degli affari.

Dati e consapevolezza storica a parte, comunque, l’insicurezza percepita resta. E pone problemi alla politica e alla pubblica amministrazione. L’ordine pubblico non è competenza del sindaco, ma dello Stato e del governo nazionale. La gestione dell’immigrazione, spesso alla base di quei fenomeni da “criminalità di strada” di cui abbiamo appena detto, coinvolge ministeri, Regione e Comune. E ha ragione Franco Gabrielli, ex capo della Polizia ed ex prefetto di Roma, adesso “delegato per la sicurezza” del sindaco di Milano Beppe Sala, quando sollecita “interventi strutturali” sulla sicurezza (la Repubblica, 10 maggio) e spiega che “l’emergenza sicurezza non è un problema milanese, ma una questione molto delicata che riguarda tutte le grandi città del mondo occidentale. In Italia non ne vediamo ancora effetti così acuti come in altre realtà europee e non. Ma non dobbiamo commettere l’errore di sottostimare quanto accade nelle nostre metropoli”. Anche il sindaco Sala insiste: polemizza sul governo che “fa solo slogan” ma pone questioni anche allo schieramento politico che lo sostiene: “Sulla sicurezza la sinistra non balbetti più” (Corriere della Sera, 11 maggio).

Raccontare meglio Milano, dunque. Con spregiudicata sincerità per i suoi problemi. E con lo sguardo attento ai suoi punti di forza e alle sue risorse. Alle esigenze di sicurezza. E a quelle di sviluppo civile e di inclusione e integrazione (sono le questioni affrontate proprio in questi giorni dalla “Civil Week”, con larga partecipazione di giovani, sul tema “La Costituzione siamo noi”). Ai temi economici, del lavoro e delle imprese. E ai problemi posti dall’espansione della “economia della conoscenza”, particolarmente acuti in una città che ha 200mila studenti universitari che arrivano in buona parte sia dalle altre regioni italiane sia, in misura crescente, da altri paesi internazionali (e qui Milano ha un punto di forza anche nel fatto che, unica città, ha ben tre rettrici donne, Marina Brambilla alla Statale, Donatella Sciuto al Politecnico e Giovanna Iannantuoni alla Bicocca).

Milano da leggere nella sua complessità, dunque. Come altre grandi metropoli internazionali. Ma con una caratteristica particolare. Perché Milano, come città, è piccola, con poco più di 1,4 milioni di residenti, comunque in crescita) ma come spazio metropolitano e come punto di riferimento di movimenti quotidiani con l’entroterra di riferimento, ne conta 4 milioni, senza considerare che i collegamenti ferroviari dell’Alta Velocità hanno reso diffusissimo il commuting Milano-Torino-Bologna (aspettando, in tempi brevi, anche il collegamento con Genova), definendo così una geografia di flussi e scambi di grandissima intensità. Con forti effetti su una Milano urbana che peraltro, nel corso degli ultimi anni, è diventata anche una forte attrazione turistica (turismo d’affari e convegni, turismo legato alla frequentazione delle sue strutture formative, turismo sanitario per la qualità dei suoi ospedali, turismo in senso stretto per tempo libero, cultura e shopping).

Si pone qui una questione essenziale. La convivenza, tutt’altro che semplice, tra city users e cittadini, tra chi “usa” Milano e chi ci vive. Con punti di vista, esigenze, interessi differenti e spesso divergenti.

Chi arriva a Milano per lavoro ha naturalmente un ruolo e un peso quanto mai rilevanti, per l’attrattività e lo sviluppo della metropoli. E nella nuova geoeconomia, i flussi (di persone, capitali, imprese, idee) hanno un valore fondamentale. Ma anche un robusto costo sociale, premendo su luoghi pensati per numeri inferiori di abitanti e stravolgendone servizi, ritmi di vita, valori economici.

La sfida, per Milano, è definire, da parte delle pubbliche amministrazioni, ma anche della società civile e dei sistemi d’impresa, meccanismi efficaci di governance delle relazioni e delle integrazioni (flussi migratori compresi). Per usare bene Milano facendola crescere, senza però “consumare” Milano. Equilibro difficile, naturalmente. Ma da cercare con intelligenza, rigore, generosità.

Perché Milano, come ogni metropoli contemporanea, ha bisogno di mercato (dei suoi ritmi, dei suoi valori, delle sue culture competitive). Ma il suo sviluppo e i suoi equilibri non possono essere abbandonati alle sole logiche del mercato.

E’ necessario ricostruire lo spirito civico, dare senso e spazio all’essere cives. Tenere fede alla tradizione di crescere e integrare, produrre ricchezza e lavoro e includere, coniugare produttività e sostenibilità. “Riconquistare il ‘noi’”, per usare l’efficace sintesi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

Fare buona politica, insomma. E provare anche a scrivere un nuovo e migliore racconto di Milano.

(foto Getty Images)

Le città più vitali e dinamiche crescono e migliorano la qualità della vita e del lavoro dei loro abitanti anche grazie all’abitudine diffusa a raccontarsi, analizzarsi, mettersi in discussione. A parlare di sé, insomma, evitando di cadere nelle trappole della retorica e dell’autocelebrazione, ma anche dei silenzi e delle cupezze segrete da consorterie provinciali. Milano ne può essere un buon esempio. Con una sapida inclinazione alla critica e all’autocritica (leggere, per esempio, tra le pubblicazioni più recenti, le taglienti e ruvide pagine de “L’invenzione di Milano” di Lucia Tozzi, Cronopio, per analizzare con severità “culto della comunicazione e politiche urbane”). Ma anche con un sofisticato utilizzo della memoria, come dimostra lo “Stradario sentimentale di Milano” di Andrea Kerbaker, Bur Rizzoli, una lunga serie di “storie della città che cambia”, percorrendo via Bagutta e via Mac Mahon, Ripa di Porta Ticinese e via Porpora, piazzetta Cuccia e altri 28 luoghi chiave tra il centro storico e le periferie. O come sa raccontare bene Alberto Saibene in “Milano fine Novecento – Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più” e in “Storie di un’altra Italia”, entrambi per le Edizioni Casagrande.

La bibliografia su Milano, d’altronde, è quasi sconfinata (può fare il paio con quella degli autori siciliani e sulla Sicilia; Elio Vittorini fa da trait d’union). Segno, appunto, d’una cura per l’analisi e la dialettica, in un “discorso pubblico” che non può che fare bene al futuro della città.

Di certo, Milano è abbastanza irriducibile agli stereotipi. E, per essere raccontata compiutamente, ha bisogno di parole e immagini meno superficiali di quelle che affollano abitualmente i media, anche social, inclini agli effetti facili e alle emozioni più grossolane.

Una riprova? Le cronache sono ancora una volta affollate, in questi giorni, dai temi della violenza diffusa. L’ aggressione a un poliziotto, gravemente ferito da un immigrato irregolare, alla Stazione Centrale. E lo scontro d’un altro immigrato clandestino, con alcuni poliziotti a Lambrate. L’allarme per i reati “di strada” e cioè rapine, borseggi, furti, spaccio di droga, con arresti cresciuti del 30% negli ultimi mesi rispetto all’anno precedente (la denuncia è di Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, la Repubblica 11 maggio). E la sensazione sempre più diffusa di una condizione di insicurezza. Con le polemiche politiche collegate.

Milano Gotham city”, è la sbrigativa sintesi che ha grande presa sui social media.

Una sintesi fondata? Sui dati relativi alla criminalità, no. Prefettura e Questura, guardando alla serie storica dei reati, ne documentano la diminuzione. E Il Foglio nota: “L’aneddotica suggerisce che a Milano c’è un’emergenza legata alla sicurezza, i numeri no. Rispetto a dieci anni fa, i delitti a Milano sono diminuiti di 21mila unità, a fronte di un aumento del 5 per cento dei cittadini residenti”.

Anche allargando lo sguardo e andando indietro con i ricordi, siamo molto lontani da quella stagione “di piombo” in cui, a parte il terrorismo, Milano era teatro di scontri sanguinosi tra le bande criminali di Francis Turatello “faccia d’angelo”, René Vallanzasca e Angelo Epaminonda detto “il tebano” (per capire meglio, vale la pena leggere “Canti di guerra” e cioè “conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta” di Stefano Nazzi, Mondadori). O anche dai tempi in cui la città era preda delle violenze dei mafiosi siciliani e delle scorribande dei loro banchieri, come Michele Sindona, in Borsa e nel mondo degli affari.

Dati e consapevolezza storica a parte, comunque, l’insicurezza percepita resta. E pone problemi alla politica e alla pubblica amministrazione. L’ordine pubblico non è competenza del sindaco, ma dello Stato e del governo nazionale. La gestione dell’immigrazione, spesso alla base di quei fenomeni da “criminalità di strada” di cui abbiamo appena detto, coinvolge ministeri, Regione e Comune. E ha ragione Franco Gabrielli, ex capo della Polizia ed ex prefetto di Roma, adesso “delegato per la sicurezza” del sindaco di Milano Beppe Sala, quando sollecita “interventi strutturali” sulla sicurezza (la Repubblica, 10 maggio) e spiega che “l’emergenza sicurezza non è un problema milanese, ma una questione molto delicata che riguarda tutte le grandi città del mondo occidentale. In Italia non ne vediamo ancora effetti così acuti come in altre realtà europee e non. Ma non dobbiamo commettere l’errore di sottostimare quanto accade nelle nostre metropoli”. Anche il sindaco Sala insiste: polemizza sul governo che “fa solo slogan” ma pone questioni anche allo schieramento politico che lo sostiene: “Sulla sicurezza la sinistra non balbetti più” (Corriere della Sera, 11 maggio).

Raccontare meglio Milano, dunque. Con spregiudicata sincerità per i suoi problemi. E con lo sguardo attento ai suoi punti di forza e alle sue risorse. Alle esigenze di sicurezza. E a quelle di sviluppo civile e di inclusione e integrazione (sono le questioni affrontate proprio in questi giorni dalla “Civil Week”, con larga partecipazione di giovani, sul tema “La Costituzione siamo noi”). Ai temi economici, del lavoro e delle imprese. E ai problemi posti dall’espansione della “economia della conoscenza”, particolarmente acuti in una città che ha 200mila studenti universitari che arrivano in buona parte sia dalle altre regioni italiane sia, in misura crescente, da altri paesi internazionali (e qui Milano ha un punto di forza anche nel fatto che, unica città, ha ben tre rettrici donne, Marina Brambilla alla Statale, Donatella Sciuto al Politecnico e Giovanna Iannantuoni alla Bicocca).

Milano da leggere nella sua complessità, dunque. Come altre grandi metropoli internazionali. Ma con una caratteristica particolare. Perché Milano, come città, è piccola, con poco più di 1,4 milioni di residenti, comunque in crescita) ma come spazio metropolitano e come punto di riferimento di movimenti quotidiani con l’entroterra di riferimento, ne conta 4 milioni, senza considerare che i collegamenti ferroviari dell’Alta Velocità hanno reso diffusissimo il commuting Milano-Torino-Bologna (aspettando, in tempi brevi, anche il collegamento con Genova), definendo così una geografia di flussi e scambi di grandissima intensità. Con forti effetti su una Milano urbana che peraltro, nel corso degli ultimi anni, è diventata anche una forte attrazione turistica (turismo d’affari e convegni, turismo legato alla frequentazione delle sue strutture formative, turismo sanitario per la qualità dei suoi ospedali, turismo in senso stretto per tempo libero, cultura e shopping).

Si pone qui una questione essenziale. La convivenza, tutt’altro che semplice, tra city users e cittadini, tra chi “usa” Milano e chi ci vive. Con punti di vista, esigenze, interessi differenti e spesso divergenti.

Chi arriva a Milano per lavoro ha naturalmente un ruolo e un peso quanto mai rilevanti, per l’attrattività e lo sviluppo della metropoli. E nella nuova geoeconomia, i flussi (di persone, capitali, imprese, idee) hanno un valore fondamentale. Ma anche un robusto costo sociale, premendo su luoghi pensati per numeri inferiori di abitanti e stravolgendone servizi, ritmi di vita, valori economici.

La sfida, per Milano, è definire, da parte delle pubbliche amministrazioni, ma anche della società civile e dei sistemi d’impresa, meccanismi efficaci di governance delle relazioni e delle integrazioni (flussi migratori compresi). Per usare bene Milano facendola crescere, senza però “consumare” Milano. Equilibro difficile, naturalmente. Ma da cercare con intelligenza, rigore, generosità.

Perché Milano, come ogni metropoli contemporanea, ha bisogno di mercato (dei suoi ritmi, dei suoi valori, delle sue culture competitive). Ma il suo sviluppo e i suoi equilibri non possono essere abbandonati alle sole logiche del mercato.

E’ necessario ricostruire lo spirito civico, dare senso e spazio all’essere cives. Tenere fede alla tradizione di crescere e integrare, produrre ricchezza e lavoro e includere, coniugare produttività e sostenibilità. “Riconquistare il ‘noi’”, per usare l’efficace sintesi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

Fare buona politica, insomma. E provare anche a scrivere un nuovo e migliore racconto di Milano.

(foto Getty Images)

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