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Nuove affascinanti imprese

In un libro raccolte 26 storie di startup che possono insegnare molto a tutti

Iniziare un’avventura è forse la parte più bella dell’avventura. Avere l’idea di esplorare qualcosa di nuovo, confrontarsi con altri, immaginare i passi successivi, pianificarli, preparare l’attrezzatura (fisica o mentale che sia), concentrarsi sull’obiettivo, sognarlo. Vale anche per il mondo della produzione e dell’economia: perché, a ben vedere, ogni impresa è un’avventura (di donne, uomini e cose) e come tale deve essere attentamente pianificata e condotta. Partenza e cammino, dunque. E conoscenza. Per questo occorre informarsi, studiare, apprendere. Ed è per questo che serve leggere “Storie di startup dalla A alla Z. Case study, esempi pratici e insight raccontati direttamente dai protagonisti dell’ecosistema startup” raccolta di ventisei storie di aziende agli inizi (startup) raccolte da Vincenzo E.M. Giardino e pubblicate da poco.
L’intento del libro è semplice: raccogliere, attraverso la voce di autorevoli stakeholders del sistema delle startup cioè delle imprese emergenti, di quelle neonate con una grande avvenire (almeno nelle intenzioni), i racconti delle visioni che portano a creare una impresa innovativa e non convenzionale, fuori dagli schemi.
Storie varie, quelle del libro di Giardino, tutte accompagnate da una prima pagina disegnata che riassume i punti di forza dell’impresa, i sogni di chi la racconta. Storie davvero messi in file in ordine alfabetico (dalla A alla Z) partendo da un concetto chiave. Scorrono quindi capitoli dedicati – ad esempio -, all’ambizione, al business plan, all’ecosistema, all’orientamento al mercato, alla “missione aziendale”, all’open innovation, al trasferimento tecnologico e a tanto altro ancora. Ogni capitolo è consultabile in ordine libero ed è dedicato alla più ampia platea di persone che posso avere a che fare con le nuove imprese.
Da leggere con attenzione, quindi, il libro di Vincenzo Giardino (e magari da rileggere dopo aver visto altre nuove aziende iniziare la loro avventura); da leggere nonostante, in alcuni passaggi anche introduttivi, la chiarezza del linguaggio ceda forse troppo il posto a tecnicismi che diventano ostici tornanti lungo il percorso di lettura.

Storie di startup dalla A alla Z. Case study, esempi pratici e insight raccontati direttamente dai protagonisti dell’ecosistema startup
Vincenzo E.M. Giardino
Egea, 2021

In un libro raccolte 26 storie di startup che possono insegnare molto a tutti

Iniziare un’avventura è forse la parte più bella dell’avventura. Avere l’idea di esplorare qualcosa di nuovo, confrontarsi con altri, immaginare i passi successivi, pianificarli, preparare l’attrezzatura (fisica o mentale che sia), concentrarsi sull’obiettivo, sognarlo. Vale anche per il mondo della produzione e dell’economia: perché, a ben vedere, ogni impresa è un’avventura (di donne, uomini e cose) e come tale deve essere attentamente pianificata e condotta. Partenza e cammino, dunque. E conoscenza. Per questo occorre informarsi, studiare, apprendere. Ed è per questo che serve leggere “Storie di startup dalla A alla Z. Case study, esempi pratici e insight raccontati direttamente dai protagonisti dell’ecosistema startup” raccolta di ventisei storie di aziende agli inizi (startup) raccolte da Vincenzo E.M. Giardino e pubblicate da poco.
L’intento del libro è semplice: raccogliere, attraverso la voce di autorevoli stakeholders del sistema delle startup cioè delle imprese emergenti, di quelle neonate con una grande avvenire (almeno nelle intenzioni), i racconti delle visioni che portano a creare una impresa innovativa e non convenzionale, fuori dagli schemi.
Storie varie, quelle del libro di Giardino, tutte accompagnate da una prima pagina disegnata che riassume i punti di forza dell’impresa, i sogni di chi la racconta. Storie davvero messi in file in ordine alfabetico (dalla A alla Z) partendo da un concetto chiave. Scorrono quindi capitoli dedicati – ad esempio -, all’ambizione, al business plan, all’ecosistema, all’orientamento al mercato, alla “missione aziendale”, all’open innovation, al trasferimento tecnologico e a tanto altro ancora. Ogni capitolo è consultabile in ordine libero ed è dedicato alla più ampia platea di persone che posso avere a che fare con le nuove imprese.
Da leggere con attenzione, quindi, il libro di Vincenzo Giardino (e magari da rileggere dopo aver visto altre nuove aziende iniziare la loro avventura); da leggere nonostante, in alcuni passaggi anche introduttivi, la chiarezza del linguaggio ceda forse troppo il posto a tecnicismi che diventano ostici tornanti lungo il percorso di lettura.

Storie di startup dalla A alla Z. Case study, esempi pratici e insight raccontati direttamente dai protagonisti dell’ecosistema startup
Vincenzo E.M. Giardino
Egea, 2021

Ecco i numeri per parlare di lavoro e assistenza, riformando “quota 100” e reddito di cittadinanza

Ragionare con i numeri, per discutere di riforme serie e di futuro socialmente sostenibile. Un primo numero è 400mila e cioè i posti di lavoro che le imprese temono di non potere coprire, in questa fine di anno di impetuosa ripresa (un Pil che crescerà del 6% circa) per assenza di mano d’opera specializzata, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, trainanti per lo sviluppo (i dati sono illustrati da una inchiesta di “Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 13 settembre).
Un secondo numero è una serie: 3,5 milioni di persone coinvolte come beneficiari del reddito di cittadinanza, 1,3 milioni dei quali “occupabili”, ma solo 152mila con un posto di lavoro trovato (non si sa però quanti quelli individuati grazie ai servizi offerti dai centri di lavoro) e appena 400 gli assunti da imprenditori che hanno deciso di godere degli incentivi di legge (troppi vincoli, troppe burocrazie). Nella forbice quanto mai ampia fra 1,3 milioni e 400 c’è tutto il clamoroso fallimento di una scelta che pretendeva di “abolire la povertà” trovando lavoro.
Ancora un numero, di grande importanza: quello del tasso di sostituzione di “quota 100”, il provvedimento sulle pensioni (per andarci con 62 anni d’età e 38 di contributi): lo 0,4 per ognuno dei tre anni di applicazione del provvedimento. In media, cioè, per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti di nuovi solo 40. Anche in questo caso, un fallimento, rispetto al progetto di sostituire un pensionato anziano con un giovane.

Alto, comunque, il costo per le casse pubbliche: 30 miliardi in tre anni per entrambi i provvedimenti, 11,6 per “quota 100” e quasi 20 per il reddito di cittadinanza.
I due provvedimenti erano le bandiere propagandistiche sventolate il primo dalla Lega guidata da Matteo Salvini e il secondo dal Movimento 5 Stelle, ai tempi del governo giallo-verde di Giuseppe Conte. Due scelte populiste, buone per attrarre consensi elettorali ma di scarsa efficacia e altissimo costo. Adesso, due scelte da abolire o, quanto meno, da riformare radicalmente, dati alla mano.
Le intenzioni del governo guidato da Mario Draghi vanno giustamente in direzione della riforma (come sollecitano anche recenti analisi ben documentate dell’Ocse). I 5Stelle difendono la loro scelta. A nome della Lega Salvini minaccia di “fare le barricate” per difendere e rinnovare per un altro biennio “quota 100”, in scadenza a fine anno, trovando una certa sponda nella Cgil di Maurizio Landini. Ma entrambe le formazioni politiche, proprio alla vigilia del voto amministrativo dei primi di ottobre, stanno facendo tattica di propaganda. E di fronte alle chiacchiere delle politiche identitarie, il governo ancora una volta mostra una chiara volontà riformatrice e andrà avanti.

Nessuno, naturalmente, ha dubbi sul fatto che servano provvedimenti per andare incontro alle reali condizioni di povertà di alcuni milioni di italiani (cosa che il reddito di cittadinanza fa poco, male, in modo distorto e con possibilità troppo ampie per tanti “furbi” di sfuggire alle prescrizioni di legge per l’assegnazione). E dunque saranno messe a punto misure assistenziali adeguate.
Altra cosa, invece, è affrontare i temi dell’avvio verso il lavoro, di chi l’ha perso e va aiutato a ricollocarsi, dei giovani e delle donne che non lo trovano per carenze di qualificazione, delle persone di mezza età tagliate fuori dal mercato per ristrutturazioni levate alla diffusione delle nuove tecnologie digitali.

Le strade da scegliere riguardano innanzitutto la formazione, qualificata e di lungo periodo. Una profonda trasformazione delle politiche e del funzionamento dei centri per l’impiego. Una maggiore e migliore funzionalità degli ammortizzatori sociali, su cui tocca al governo mettere bene a punto strategie e scelte concrete in stretto raccordo con le rappresentanze delle forze sociali.
La sfida sta proprio qui: legare formazione e lavoro per fare fronte alle profonde trasformazioni dell’economia, ridurre il cuneo fiscale per migliorare il reddito dei lavoratori e alleggerire il costo per le imprese, stimolare investimenti per creare nuova occupazione qualificata. Le indicazioni del Pnrr, con i fondi che vengono dalla Ue, vanno proprio in questa direzione. E, in prospettiva, nell’era dell’economia della conoscenza, vale la pena ricordare che “ogni euro investito nella scuola è investito anche nel resto del Paese”, come ama ribadire Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex ministro dell’Istruzione, adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Quanto alle pensioni, bisogna prendere responsabilmente atto degli effetti disastrosi di “quota 100”: ha ridotto profondamente il numero dei lavoratori attivi, privando le imprese e la pubblica amministrazione di competenze di qualità, senza stimolare adeguatamente nuova occupazione e ha costretto, per esempio, il governatore del Veneto Zaia a richiamare in servizio, per fronteggiare la pandemia da Covid19, un gran numero di medici appena andati in pensione.
Addio “quota 100”, dunque. Il governo sta studiando “soluzioni equilibrate” per evitare di passare dalla situazione attuale all’innalzamento drastico a 67 anni come età per il pensionamento. La discussione è aperta. Da portare avanti con competenza e senso di responsabilità. Sapendo bene che l’Italia, adesso, ha bisogno di sviluppo, lavoro, sostegni sociali ma non di vecchio assistenzialismo improduttivo. E che la spesa pubblica va destinata agli investimenti per la crescita di qualità e sostenibile, non alle manovre per acchiappare voti.

Ragionare con i numeri, per discutere di riforme serie e di futuro socialmente sostenibile. Un primo numero è 400mila e cioè i posti di lavoro che le imprese temono di non potere coprire, in questa fine di anno di impetuosa ripresa (un Pil che crescerà del 6% circa) per assenza di mano d’opera specializzata, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, trainanti per lo sviluppo (i dati sono illustrati da una inchiesta di “Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 13 settembre).
Un secondo numero è una serie: 3,5 milioni di persone coinvolte come beneficiari del reddito di cittadinanza, 1,3 milioni dei quali “occupabili”, ma solo 152mila con un posto di lavoro trovato (non si sa però quanti quelli individuati grazie ai servizi offerti dai centri di lavoro) e appena 400 gli assunti da imprenditori che hanno deciso di godere degli incentivi di legge (troppi vincoli, troppe burocrazie). Nella forbice quanto mai ampia fra 1,3 milioni e 400 c’è tutto il clamoroso fallimento di una scelta che pretendeva di “abolire la povertà” trovando lavoro.
Ancora un numero, di grande importanza: quello del tasso di sostituzione di “quota 100”, il provvedimento sulle pensioni (per andarci con 62 anni d’età e 38 di contributi): lo 0,4 per ognuno dei tre anni di applicazione del provvedimento. In media, cioè, per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti di nuovi solo 40. Anche in questo caso, un fallimento, rispetto al progetto di sostituire un pensionato anziano con un giovane.

Alto, comunque, il costo per le casse pubbliche: 30 miliardi in tre anni per entrambi i provvedimenti, 11,6 per “quota 100” e quasi 20 per il reddito di cittadinanza.
I due provvedimenti erano le bandiere propagandistiche sventolate il primo dalla Lega guidata da Matteo Salvini e il secondo dal Movimento 5 Stelle, ai tempi del governo giallo-verde di Giuseppe Conte. Due scelte populiste, buone per attrarre consensi elettorali ma di scarsa efficacia e altissimo costo. Adesso, due scelte da abolire o, quanto meno, da riformare radicalmente, dati alla mano.
Le intenzioni del governo guidato da Mario Draghi vanno giustamente in direzione della riforma (come sollecitano anche recenti analisi ben documentate dell’Ocse). I 5Stelle difendono la loro scelta. A nome della Lega Salvini minaccia di “fare le barricate” per difendere e rinnovare per un altro biennio “quota 100”, in scadenza a fine anno, trovando una certa sponda nella Cgil di Maurizio Landini. Ma entrambe le formazioni politiche, proprio alla vigilia del voto amministrativo dei primi di ottobre, stanno facendo tattica di propaganda. E di fronte alle chiacchiere delle politiche identitarie, il governo ancora una volta mostra una chiara volontà riformatrice e andrà avanti.

Nessuno, naturalmente, ha dubbi sul fatto che servano provvedimenti per andare incontro alle reali condizioni di povertà di alcuni milioni di italiani (cosa che il reddito di cittadinanza fa poco, male, in modo distorto e con possibilità troppo ampie per tanti “furbi” di sfuggire alle prescrizioni di legge per l’assegnazione). E dunque saranno messe a punto misure assistenziali adeguate.
Altra cosa, invece, è affrontare i temi dell’avvio verso il lavoro, di chi l’ha perso e va aiutato a ricollocarsi, dei giovani e delle donne che non lo trovano per carenze di qualificazione, delle persone di mezza età tagliate fuori dal mercato per ristrutturazioni levate alla diffusione delle nuove tecnologie digitali.

Le strade da scegliere riguardano innanzitutto la formazione, qualificata e di lungo periodo. Una profonda trasformazione delle politiche e del funzionamento dei centri per l’impiego. Una maggiore e migliore funzionalità degli ammortizzatori sociali, su cui tocca al governo mettere bene a punto strategie e scelte concrete in stretto raccordo con le rappresentanze delle forze sociali.
La sfida sta proprio qui: legare formazione e lavoro per fare fronte alle profonde trasformazioni dell’economia, ridurre il cuneo fiscale per migliorare il reddito dei lavoratori e alleggerire il costo per le imprese, stimolare investimenti per creare nuova occupazione qualificata. Le indicazioni del Pnrr, con i fondi che vengono dalla Ue, vanno proprio in questa direzione. E, in prospettiva, nell’era dell’economia della conoscenza, vale la pena ricordare che “ogni euro investito nella scuola è investito anche nel resto del Paese”, come ama ribadire Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex ministro dell’Istruzione, adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Quanto alle pensioni, bisogna prendere responsabilmente atto degli effetti disastrosi di “quota 100”: ha ridotto profondamente il numero dei lavoratori attivi, privando le imprese e la pubblica amministrazione di competenze di qualità, senza stimolare adeguatamente nuova occupazione e ha costretto, per esempio, il governatore del Veneto Zaia a richiamare in servizio, per fronteggiare la pandemia da Covid19, un gran numero di medici appena andati in pensione.
Addio “quota 100”, dunque. Il governo sta studiando “soluzioni equilibrate” per evitare di passare dalla situazione attuale all’innalzamento drastico a 67 anni come età per il pensionamento. La discussione è aperta. Da portare avanti con competenza e senso di responsabilità. Sapendo bene che l’Italia, adesso, ha bisogno di sviluppo, lavoro, sostegni sociali ma non di vecchio assistenzialismo improduttivo. E che la spesa pubblica va destinata agli investimenti per la crescita di qualità e sostenibile, non alle manovre per acchiappare voti.

Lo scrittore Roberto Piumini dedica una poesia inedita al Premio Campiello Junior
Scopri le prossime iniziative del nuovo riconoscimento letterario

«Si premia, in questo premio,
chi scrive storie vive e, con scrittura
che non s’impoverisce a predicare
e affida alla bellezza quel che vale,
risponde allo sguardo dei ragazzi,
alla curiosità tosta e ritrosa,
al loro silenzioso,
a volte malmostoso,
bisogno e desiderio di parole.»

Con questa poesia inedita di Roberto Piumini si aprono le iniziative dedicate alla prima edizione del Premio Campiello Junior, nato dalla collaborazione tra le Biblioteche Pirelli e il Premio Campiello.

I veri protagonisti saranno i giovani lettori di tutta Italia chiamati a scegliere il vincitore della rassegna: una giuria popolare composta da 160 ragazzi dai 10 ai 14 anni che dovranno selezionare il miglior libro di narrativa o di poesia tra tre finalisti scelti da una Giuria tecnica.

Educatori e docenti delle scuole primarie e secondarie di I grado sono invitati alla presentazione del palinsesto di iniziative di coinvolgimento dei giovani nella Giuria dei lettori. L’evento si svolgerà online giovedì 23 settembre 2021 alle ore 17.30. Durante l’incontro sarà possibile scoprire come candidare i ragazzi e conoscere le iniziative didattiche di Fondazione Pirelli in collaborazione con il Campiello che accompagneranno, anche nei primi mesi del 2022, i giovani lettori lungo questo percorso.

Interverranno:

Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli

Michela Possamai, docente IUSVE e membro della Giuria del Premio Campiello Junior

Stefania Zuccolotto, componente del Comitato di Gestione del Premio Campiello con delega al Campiello Junior

Il tool di prenotazione è disponibile su questa pagina. Verrà inviato in seguito un link per il collegamento attraverso la piattaforma Microsoft Teams.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior maggiori informazioni su www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Vi aspettiamo

«Si premia, in questo premio,
chi scrive storie vive e, con scrittura
che non s’impoverisce a predicare
e affida alla bellezza quel che vale,
risponde allo sguardo dei ragazzi,
alla curiosità tosta e ritrosa,
al loro silenzioso,
a volte malmostoso,
bisogno e desiderio di parole.»

Con questa poesia inedita di Roberto Piumini si aprono le iniziative dedicate alla prima edizione del Premio Campiello Junior, nato dalla collaborazione tra le Biblioteche Pirelli e il Premio Campiello.

I veri protagonisti saranno i giovani lettori di tutta Italia chiamati a scegliere il vincitore della rassegna: una giuria popolare composta da 160 ragazzi dai 10 ai 14 anni che dovranno selezionare il miglior libro di narrativa o di poesia tra tre finalisti scelti da una Giuria tecnica.

Educatori e docenti delle scuole primarie e secondarie di I grado sono invitati alla presentazione del palinsesto di iniziative di coinvolgimento dei giovani nella Giuria dei lettori. L’evento si svolgerà online giovedì 23 settembre 2021 alle ore 17.30. Durante l’incontro sarà possibile scoprire come candidare i ragazzi e conoscere le iniziative didattiche di Fondazione Pirelli in collaborazione con il Campiello che accompagneranno, anche nei primi mesi del 2022, i giovani lettori lungo questo percorso.

Interverranno:

Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli

Michela Possamai, docente IUSVE e membro della Giuria del Premio Campiello Junior

Stefania Zuccolotto, componente del Comitato di Gestione del Premio Campiello con delega al Campiello Junior

Il tool di prenotazione è disponibile su questa pagina. Verrà inviato in seguito un link per il collegamento attraverso la piattaforma Microsoft Teams.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior maggiori informazioni su www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Vi aspettiamo

Il  Cinturato Pirelli dalla pista ai media: una campagna pubblicitaria del 1965 mette in campo “gli assi del volante”

Domenica 12 settembre i piloti e le scuderie di Formula 1 si contenderanno il podio sul circuito di Monza. L’Autodromo brianzolo è da sempre teatro di grandi sfide e di grandi campioni del presente, come Fernando Alonso, Lewis Hamilton, Charles Leclerc o Max Verstappen, ma anche del passato, come gli indimenticabili Juan Manuel Fangio, Gigi Villoresi, Piero Taruffi. Sono solo alcuni degli “assi del volante” che hanno legato la storia di Pirelli a quella del Gran Premio d’Italia, diventando i volti di un progetto promozionale senza precedenti.

È il 1965. Pirelli, a partire dai risultati di un’analisi di mercato, progetta una nuova campagna pubblicitaria per intercettare e fidelizzare la massa di nuovi automobilisti, con auto immatricolate tra il 1962 e il 1963, che inevitabilmente avrebbero cambiato pneumatici proprio quell’anno. Nasce una strategia di comunicazione destinata a imporre sul mercato italiano uno dei prodotti di punta dell’azienda, già saldamente affermato in tutto il mondo: il Cinturato Pirelli. Brevettato nel 1951, sin da subito diventa sinonimo di sicurezza, durata, flessibilità e comfort. Da un meridiano all’altro, il giudizio è unanime: il Cinturato, in tutte le sue forme dallo standard, all’estivo, all’invernale, si presenta come il pneumatico di maggior prestigio sul mercato. Ognuno dei 19 Paesi che lo produce su brevetto Pirelli ne rimane affascinato per motivi differenti: in Spagna è “il pneumatico che la vostra vettura aspettava”, in Brasile si apprezza l’estetica del battistrada, in Svizzera la sicurezza, in Inghilterra – invece – il controllo su strada.

Da gennaio a dicembre del 1965, l’intera Penisola viene “tempestata” da una promozione fatta di grandi idee che si traducono in pubblicità su carta, cartellonistica, media televisivi e cinematografici. Pirelli mette in campo una campagna pubblicitaria, da oggi online sul nostro sito, con testimonial d’eccezione: Fangio, Maglioli, Villoresi, Bracco, Gonzales, Taruffi e Chiron. Il ritorno “in borghese” di piloti-simbolo di record e imprese adrenaliniche, apre a un’avanguardistica pubblicità emozionale che sortisce effetti sulle vendite anche negli anni successivi.

“Un tempo correvo con il vostro Stelvio. Oggi sulla mia vettura ho il Cinturato. Extraordinario. È un pneumatico veramente diverso dagli altri. Quello che più sorprende, è l’assoluta precisione di guida”, esulta Manuel Fangio.

“Ricama sulla strada”, strilla il poster di Gigi Villoresi.

“Ahora, velocidad y seguridad”, esulta José Froilan Gonzales facendo l’occhiolino.

“Sensationnel”, garantisce Chiron che da anni lo testa nei Rally di Montecarlo.

“Ancora più sicuro”, suggerisce Giovanni Bracco.

L’utente finale è intercettato in ogni momento della sua giornata: dalla mattina quando apre il giornale e prende i mezzi pubblici fino alla sera, quando accende la tv o si dedica qualche ora al cinema o a leggere una rivista di automobilismo. Per tutto l’anno veri e propri “messaggi viaggianti” passano sotto agli occhi degli italiani. Ovunque si parla di Cinturato. Ovunque i volti sorridenti dei campioni del volante raccontano la loro esperienza alla guida di una vettura equipaggiata Pirelli. Grazie alla competenza, a un background fatto di straordinarie vittorie e al ruolo chiave nella storia dell’automobilismo, i piloti rappresentano la voce perfetta per raccontare la potenza, l’innovazione e la sicurezza di un pneumatico che non ha cambiato solo la storia di Pirelli, ma la modalità stessa di concepire la guida.

Domenica 12 settembre i piloti e le scuderie di Formula 1 si contenderanno il podio sul circuito di Monza. L’Autodromo brianzolo è da sempre teatro di grandi sfide e di grandi campioni del presente, come Fernando Alonso, Lewis Hamilton, Charles Leclerc o Max Verstappen, ma anche del passato, come gli indimenticabili Juan Manuel Fangio, Gigi Villoresi, Piero Taruffi. Sono solo alcuni degli “assi del volante” che hanno legato la storia di Pirelli a quella del Gran Premio d’Italia, diventando i volti di un progetto promozionale senza precedenti.

È il 1965. Pirelli, a partire dai risultati di un’analisi di mercato, progetta una nuova campagna pubblicitaria per intercettare e fidelizzare la massa di nuovi automobilisti, con auto immatricolate tra il 1962 e il 1963, che inevitabilmente avrebbero cambiato pneumatici proprio quell’anno. Nasce una strategia di comunicazione destinata a imporre sul mercato italiano uno dei prodotti di punta dell’azienda, già saldamente affermato in tutto il mondo: il Cinturato Pirelli. Brevettato nel 1951, sin da subito diventa sinonimo di sicurezza, durata, flessibilità e comfort. Da un meridiano all’altro, il giudizio è unanime: il Cinturato, in tutte le sue forme dallo standard, all’estivo, all’invernale, si presenta come il pneumatico di maggior prestigio sul mercato. Ognuno dei 19 Paesi che lo produce su brevetto Pirelli ne rimane affascinato per motivi differenti: in Spagna è “il pneumatico che la vostra vettura aspettava”, in Brasile si apprezza l’estetica del battistrada, in Svizzera la sicurezza, in Inghilterra – invece – il controllo su strada.

Da gennaio a dicembre del 1965, l’intera Penisola viene “tempestata” da una promozione fatta di grandi idee che si traducono in pubblicità su carta, cartellonistica, media televisivi e cinematografici. Pirelli mette in campo una campagna pubblicitaria, da oggi online sul nostro sito, con testimonial d’eccezione: Fangio, Maglioli, Villoresi, Bracco, Gonzales, Taruffi e Chiron. Il ritorno “in borghese” di piloti-simbolo di record e imprese adrenaliniche, apre a un’avanguardistica pubblicità emozionale che sortisce effetti sulle vendite anche negli anni successivi.

“Un tempo correvo con il vostro Stelvio. Oggi sulla mia vettura ho il Cinturato. Extraordinario. È un pneumatico veramente diverso dagli altri. Quello che più sorprende, è l’assoluta precisione di guida”, esulta Manuel Fangio.

“Ricama sulla strada”, strilla il poster di Gigi Villoresi.

“Ahora, velocidad y seguridad”, esulta José Froilan Gonzales facendo l’occhiolino.

“Sensationnel”, garantisce Chiron che da anni lo testa nei Rally di Montecarlo.

“Ancora più sicuro”, suggerisce Giovanni Bracco.

L’utente finale è intercettato in ogni momento della sua giornata: dalla mattina quando apre il giornale e prende i mezzi pubblici fino alla sera, quando accende la tv o si dedica qualche ora al cinema o a leggere una rivista di automobilismo. Per tutto l’anno veri e propri “messaggi viaggianti” passano sotto agli occhi degli italiani. Ovunque si parla di Cinturato. Ovunque i volti sorridenti dei campioni del volante raccontano la loro esperienza alla guida di una vettura equipaggiata Pirelli. Grazie alla competenza, a un background fatto di straordinarie vittorie e al ruolo chiave nella storia dell’automobilismo, i piloti rappresentano la voce perfetta per raccontare la potenza, l’innovazione e la sicurezza di un pneumatico che non ha cambiato solo la storia di Pirelli, ma la modalità stessa di concepire la guida.

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Pirelli e l’Autodromo di Monza, una storia di record

Fin dalla sua inaugurazione, nel 1922, l’autodromo di Monza è sinonimo di velocità. Spettò agli eroi del momento, Pietro Bordino e Felice Nazzaro, il primo giro d’onore, a bordo di una Fiat 750. Da allora, sul circuito di Monza hanno gareggiato i più grandi piloti  come Antonio Ascari, vincitore del Gran Premio d’Italia nel 1924, e Gastone Brilli-Peri, primo Campione del Mondo nel 1925.

Monza è stata fatale a Giuseppe Campari, compagno di squadra di Ascari, nel 1933, proprio all’inizio di quella “parabolica” che rappresenta una delle meraviglie del moderno automobilismo. L’autodromo ha suggellato nel 1950 la vittoria di Nino Farina, primo Campione Mondiale di Formula 1 con l’Alfa Romeo, e nel 1955 ha segnato il destino di Alberto Ascari, uscito di strada durante un giro di prova con la Ferrari. La storia dell’autodromo si intreccia con la lunga vita di Juan Manuel Fangio, che usò il circuito anche come set per un film con Amedeo Nazzari e, tanti anni dopo, per celebrare se stesso e il Cinturato Pirelli in un ciclo di Caroselli per la tv. Monza è protagonista anche di uno splendido servizio fotografico di Federico Patellani nel 1950, con le tute e i cappellini Pirelli dei meccanici-gommisti che occupano la scena dei box. Quella di Monza è una storia di record anche “su due ruote”: resta negli annali la fotografia in cui Gianni Leoni, sdraiato sul “Guzzino”, “dopo quasi quindici ore di corsa e in condizioni atmosferiche certo non favorevoli”, nel novembre del 1948 punta verso il cartellone pubblicitario Pirelli, alla conquista di un altro primato.

L’abbandono delle competizioni nel 1956 non ha reciso il legame storico tra Pirelli e l’Autodromo di Monza. Il rientro sperimentale in F1 negli anni Ottanta e soprattutto le grandi stagioni dedicate ai vari campionati Turismo hanno riportato spesso i radiali Pirelli sull’asfalto “più famoso del mondo”. E oggi si continua a correre, con pneumatici da record su un circuito che è diventato leggenda.

Fin dalla sua inaugurazione, nel 1922, l’autodromo di Monza è sinonimo di velocità. Spettò agli eroi del momento, Pietro Bordino e Felice Nazzaro, il primo giro d’onore, a bordo di una Fiat 750. Da allora, sul circuito di Monza hanno gareggiato i più grandi piloti  come Antonio Ascari, vincitore del Gran Premio d’Italia nel 1924, e Gastone Brilli-Peri, primo Campione del Mondo nel 1925.

Monza è stata fatale a Giuseppe Campari, compagno di squadra di Ascari, nel 1933, proprio all’inizio di quella “parabolica” che rappresenta una delle meraviglie del moderno automobilismo. L’autodromo ha suggellato nel 1950 la vittoria di Nino Farina, primo Campione Mondiale di Formula 1 con l’Alfa Romeo, e nel 1955 ha segnato il destino di Alberto Ascari, uscito di strada durante un giro di prova con la Ferrari. La storia dell’autodromo si intreccia con la lunga vita di Juan Manuel Fangio, che usò il circuito anche come set per un film con Amedeo Nazzari e, tanti anni dopo, per celebrare se stesso e il Cinturato Pirelli in un ciclo di Caroselli per la tv. Monza è protagonista anche di uno splendido servizio fotografico di Federico Patellani nel 1950, con le tute e i cappellini Pirelli dei meccanici-gommisti che occupano la scena dei box. Quella di Monza è una storia di record anche “su due ruote”: resta negli annali la fotografia in cui Gianni Leoni, sdraiato sul “Guzzino”, “dopo quasi quindici ore di corsa e in condizioni atmosferiche certo non favorevoli”, nel novembre del 1948 punta verso il cartellone pubblicitario Pirelli, alla conquista di un altro primato.

L’abbandono delle competizioni nel 1956 non ha reciso il legame storico tra Pirelli e l’Autodromo di Monza. Il rientro sperimentale in F1 negli anni Ottanta e soprattutto le grandi stagioni dedicate ai vari campionati Turismo hanno riportato spesso i radiali Pirelli sull’asfalto “più famoso del mondo”. E oggi si continua a correre, con pneumatici da record su un circuito che è diventato leggenda.

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Organizzazione come strumento di crescita

Appena pubblicato un libro che sintetizza obiettivo e strumenti dei metodi organizzativi

 

 Organizzare e organizzarsi. Tema cruciale per ogni azienda così come per chi ci lavora. Tema solo apparentemente scontato e invece tutto da esplorare. Leggere “Sapersi organizzare. Piani, obiettivi, traguardi e altre sfide quotidiane”, scritto da Franco Fraccaroli e appena pubblicato, aiuta per davvero a comprendere quando e in che modo mettere mano ad un’organizzazione (della produzione ma anche in qualsiasi altro campo).

Fraccaroli insegna Psicologia del lavoro e delle organizzazioni nell’Università di Trento e mette tutta la sua competenza nello spiegare, prima di tutto, che “osservando l’attuale mondo produttivo (…)” è possibile sottolineare “come il lavoro stia diventando sempre più virtuale, mobi­le, autogestito. In conseguenza di questo trend vedremo in futuro sempre meno «persone nelle organizzazioni» e sempre più «organizzazione nelle persone». Ciò significa che è drasticamente aumentata, ed è destinata ad aumen­tare ancora di più in futuro, la responsabilità individuale nel gestire il proprio lavoro”. Compito cruciale per tutti, quindi, quello dell’organizzazione.

Ma come rispondere? Fraccaroli scrive che sono possibili soluzioni “per mantenere un accet­tabile equilibrio tra noi stessi, le cose che facciamo e il nostro futuro”. E che “autorganizzarsi significa fare progetti, metterli in atto e cercare di dare una forma per noi accettabile a ciò che ci accade oggi e ci aspetta domani”.

Il libro quindi inizia mettendo a fuoco il concetto di “governo del futuro” che si trasforma nella necessità di “darsi delle mete” e quindi adottare le soluzioni corrette per raggiungerle con accorgimenti come la capacità di “imparare dagli errori” così come quella di progettare non da soli ma insieme alla comunità in cui ci si trova e riuscire anche a governare l’uso del tempo.

Scrive Fraccaroli nelle sue conclusioni: “Sapersi organizzare significa costruire delle solide strutture mentali, dotate di senso e dalla forma ben definita, basate su una serie di elementi prioritari (come vorrei essere; come vorrei fosse il mio futuro) da cui conseguono processi secondari: erogare energia, raccogliere feedback, pianificare, valutare, prendere l’iniziativa, adattarsi”. E poi ancora: “Per noi sapersi organizzare è un articolato processo psicologico che non è riconducibile a una serie frammentata di competenze ope­rative”. Cammino tortuoso, quindi, quello dell’organizzazione personale e di comunità. Cammino lungo il quale cresce anche la buona cultura d’impresa e che è più facile percorrere dopo aver letto il libro di Franco Fraccaroli.

Sapersi organizzare. Piani, obiettivi, traguardi e altre sfide quotidiane

Franco Fraccaroli

il Mulino, 2021

Appena pubblicato un libro che sintetizza obiettivo e strumenti dei metodi organizzativi

 

 Organizzare e organizzarsi. Tema cruciale per ogni azienda così come per chi ci lavora. Tema solo apparentemente scontato e invece tutto da esplorare. Leggere “Sapersi organizzare. Piani, obiettivi, traguardi e altre sfide quotidiane”, scritto da Franco Fraccaroli e appena pubblicato, aiuta per davvero a comprendere quando e in che modo mettere mano ad un’organizzazione (della produzione ma anche in qualsiasi altro campo).

Fraccaroli insegna Psicologia del lavoro e delle organizzazioni nell’Università di Trento e mette tutta la sua competenza nello spiegare, prima di tutto, che “osservando l’attuale mondo produttivo (…)” è possibile sottolineare “come il lavoro stia diventando sempre più virtuale, mobi­le, autogestito. In conseguenza di questo trend vedremo in futuro sempre meno «persone nelle organizzazioni» e sempre più «organizzazione nelle persone». Ciò significa che è drasticamente aumentata, ed è destinata ad aumen­tare ancora di più in futuro, la responsabilità individuale nel gestire il proprio lavoro”. Compito cruciale per tutti, quindi, quello dell’organizzazione.

Ma come rispondere? Fraccaroli scrive che sono possibili soluzioni “per mantenere un accet­tabile equilibrio tra noi stessi, le cose che facciamo e il nostro futuro”. E che “autorganizzarsi significa fare progetti, metterli in atto e cercare di dare una forma per noi accettabile a ciò che ci accade oggi e ci aspetta domani”.

Il libro quindi inizia mettendo a fuoco il concetto di “governo del futuro” che si trasforma nella necessità di “darsi delle mete” e quindi adottare le soluzioni corrette per raggiungerle con accorgimenti come la capacità di “imparare dagli errori” così come quella di progettare non da soli ma insieme alla comunità in cui ci si trova e riuscire anche a governare l’uso del tempo.

Scrive Fraccaroli nelle sue conclusioni: “Sapersi organizzare significa costruire delle solide strutture mentali, dotate di senso e dalla forma ben definita, basate su una serie di elementi prioritari (come vorrei essere; come vorrei fosse il mio futuro) da cui conseguono processi secondari: erogare energia, raccogliere feedback, pianificare, valutare, prendere l’iniziativa, adattarsi”. E poi ancora: “Per noi sapersi organizzare è un articolato processo psicologico che non è riconducibile a una serie frammentata di competenze ope­rative”. Cammino tortuoso, quindi, quello dell’organizzazione personale e di comunità. Cammino lungo il quale cresce anche la buona cultura d’impresa e che è più facile percorrere dopo aver letto il libro di Franco Fraccaroli.

Sapersi organizzare. Piani, obiettivi, traguardi e altre sfide quotidiane

Franco Fraccaroli

il Mulino, 2021

Innovazione “aperta”, pregi e difetti

Una ricerca discussa presso l’Università della Calabria fornisce l’istantanea di un tema complesso

 

Innovare certamente e sempre. Ma occorre saperlo fare, con avvedutezza e accortezza. Tema importante – determinante -, per la vita di ogni impresa, l’innovazione continua ad essere in primo piano.

E’ necessario però capirne i significati e le modalità di attuazione. Servono anche schemi di sintesi che possano orientare l’azione. A questo serve il lavoro di tesi di Emanuela Logozzo “Open Innovation. La globalizzazione dell’innovazione” discusso recentemente presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e Giuridiche, Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, dell’Università della Calabria.

Logozzo spiega: “L’innovazione è stata percepita come fattore centrale per la sopravvivenza a lungo termine delle organizzazioni. Le aziende internazionali più evolute hanno saputo mettere in atto efficaci strategie di open innovation. L’innovazione aperta è materia di relazioni e rete, dentro l’azienda, ma anche con tutti gli attori dell’intero ecosistema, dai fornitori ai clienti”. L’open innovation è vista come la risposta  alle crescenti esigenze di cambiamento competitivo delle aziende che devono fare i conti con costi economici e organizzativi sempre più elevati.

L’autrice dell’indagine, quindi, percorre gli aspetti cruciali dell’open innovation partendo dalle sue definizioni e caratteristiche per passare quindi ad approfondire gli ostacoli e le determinanti dell’innovazione in Europa e quindi ad una serie di conclusioni ma soprattutto evidenziando la necessità di valutare con attenzione cosa adottare lungo un cammino di innovazione. “L’open innovation – scrive Logozzo -, a volte potrebbe essere uno strumento conveniente e chirurgico per esternalizzare idee anche durante periodi difficili, ma altre volte potrebbe rappresentare un cosiddetto sunk cost per l’organizzazione che adotta questo modello di business. Infatti, l’errore più grande che si potrebbe commettere con l’OI è quello di sperperare dove non ce ne sarebbe bisogno. In altre parole, cercando di raggiungere obiettivi eseguendo un metodo senza capire il motivo per il quale lo si sta facendo. Closed e open innovation esistono entrambe per un motivo, conoscere questi motivi aiuterebbe le organizzazioni a bilanciarle in modo uniforme, ottenendo il meglio da entrambi i mondi”.

La ricerca di Emanuela Logozzo è un onesto e utile “punto” della situazione su un tema in evoluzione.

Open Innovation. La globalizzazione dell’innovazione

Emanuela Logozzo

Tesi, Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Aziendali e Giuridiche, Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, 2020

 

Una ricerca discussa presso l’Università della Calabria fornisce l’istantanea di un tema complesso

 

Innovare certamente e sempre. Ma occorre saperlo fare, con avvedutezza e accortezza. Tema importante – determinante -, per la vita di ogni impresa, l’innovazione continua ad essere in primo piano.

E’ necessario però capirne i significati e le modalità di attuazione. Servono anche schemi di sintesi che possano orientare l’azione. A questo serve il lavoro di tesi di Emanuela Logozzo “Open Innovation. La globalizzazione dell’innovazione” discusso recentemente presso il Dipartimento di Scienze Aziendali e Giuridiche, Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, dell’Università della Calabria.

Logozzo spiega: “L’innovazione è stata percepita come fattore centrale per la sopravvivenza a lungo termine delle organizzazioni. Le aziende internazionali più evolute hanno saputo mettere in atto efficaci strategie di open innovation. L’innovazione aperta è materia di relazioni e rete, dentro l’azienda, ma anche con tutti gli attori dell’intero ecosistema, dai fornitori ai clienti”. L’open innovation è vista come la risposta  alle crescenti esigenze di cambiamento competitivo delle aziende che devono fare i conti con costi economici e organizzativi sempre più elevati.

L’autrice dell’indagine, quindi, percorre gli aspetti cruciali dell’open innovation partendo dalle sue definizioni e caratteristiche per passare quindi ad approfondire gli ostacoli e le determinanti dell’innovazione in Europa e quindi ad una serie di conclusioni ma soprattutto evidenziando la necessità di valutare con attenzione cosa adottare lungo un cammino di innovazione. “L’open innovation – scrive Logozzo -, a volte potrebbe essere uno strumento conveniente e chirurgico per esternalizzare idee anche durante periodi difficili, ma altre volte potrebbe rappresentare un cosiddetto sunk cost per l’organizzazione che adotta questo modello di business. Infatti, l’errore più grande che si potrebbe commettere con l’OI è quello di sperperare dove non ce ne sarebbe bisogno. In altre parole, cercando di raggiungere obiettivi eseguendo un metodo senza capire il motivo per il quale lo si sta facendo. Closed e open innovation esistono entrambe per un motivo, conoscere questi motivi aiuterebbe le organizzazioni a bilanciarle in modo uniforme, ottenendo il meglio da entrambi i mondi”.

La ricerca di Emanuela Logozzo è un onesto e utile “punto” della situazione su un tema in evoluzione.

Open Innovation. La globalizzazione dell’innovazione

Emanuela Logozzo

Tesi, Università della Calabria, Dipartimento di Scienze Aziendali e Giuridiche, Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, 2020

 

L’importanza delle donne “stem” e la riscoperta d’una pioniera della fisica: “la tigre di Noto”

“Perché l’aria sconfinava nel cosmo? Cos’era che ci guidava verso l’eterno? Dove, dove correvano le stelle? Quando entrai in aula e presi posto, gli interrogativi pressavano, ghermivano l’aria, svolavano sulle teste degli studenti. Il professore entrò, salutò, ci contò velocemente. Si soffermò su di me e sorrise. Ero l’unica donna”.

Facoltà di matematica dell’università “La Sapienza” di Roma. Autunno 1915. Lei è Anna Maria Ciccone, curiosa, intraprendente, decisa a non seguire le sorti delle ragazze di buona famiglia siciliana (era nata a Noto nel 1891): un matrimonio di rango, i figli, le cure della casa, la scansione benestante e noiosa del tempo della provincia antica. Ha una passione per la scienza, la luce, le stelle. Vuole studiare, capire, fare ricerca, insegnare. E così, contro il parere dei genitori, lascia la Sicilia, comincia a studiare matematica a Roma e subito vince un concorso per essere ammessa alla Normale di Pisa. Affascinata dalle idee allora rivoluzionarie di Einstein, si fa notare tra i suoi pochi sostenitori. E poi, da Pisa alla Germania e poi ancora a Pisa, cercando sempre “un piccolo bagliore di conosvcenza”…

La sua storia è raccontata da Simona Lo Iacono, scrittrice di sicuro e affascinante talento, nelle pagine di “La tigre di Noto”, per l’editore Neri Pozza. La solida inclinazione alla ricerca scientifica. E la passione civile con un forte senso di responsabilità morale (che la porta a opporsi alle razzie antisemite dei nazisti e a salvare 5mila preziosi volumi di cultura ebraica). Il piacere per le nuove idee che, attraverso la relatività e la fisica quantistica, stanno cambiando il mondo. E una vocazione affettuosa e severa per l’insegnamento. Ha insegnato Fisica sperimentale a Pisa, ha fatto ricerca al Laboratorio di  fisica atomica e nucleare del Collège de France, s’è abilitata in due concorsi per professore ordinario. Ma “non le venne mai assegnata alcuna cattedra perché donna”.

Vale la pena rileggerla, questa storia rimasta a lungo sconosciuta, proprio mentre cresce, anche nell’opinione pubblica italiana, la sensibilità per una maggiore presenza delle donne nel mondo della scienza e, più in generale, in quello che viene definito come “il mondo Stem”, costruendo un acronimo con le iniziali di Science, Technology, Engineering e Mathematics. Anna Maria Ciccone, Marianna per gli amici e i colleghi, è stata infatti una “donna Stem” pioniera, una protagonista esemplare di quanto siano essenziali, proprio per la ricerca e la scienza, le presenze femminili di qualità. E di che peso siano, per la ricerca e l’innovazione, gli sguardi originali e curiosi, la capacità di sorprendersi e di fare domande, le attitudini della “intelligenza del cuore” legate alla severità delle indagini razionali.

“Modelli da seguire. 50 donne vincenti tra Tech e Scienza: ragazze, fate come noi”, ha titolato nei giorni scorsi il “CorrierEconomia” (6 settembre) per un articolo sui risultati di una ricerca di “Inspiring Fifty”, un’iniziativa lanciata nel 2015 da due imprenditrici digitali olandesi, Janneke Niessen e Joelle Frijters, pèr valorizzare il ruolo femminile nel mondo dell’impresa ad alta tecnologia e della scienza e per stimolare le nuove generazioni di bambine e ragazze a impegnarsi nei settori scientifici.

“Promuovere il dibattito sul valore della formazione Stem e il ruolo delle donne nell’innovazione tecnologica è un dovere della società”, sostiene Marilù Capparelli, direttrice degli Affari legali di Google, una delle 50 “Inspiring Fifty” italiane. Tra le altre, ci sono Anna Grasselini (direttrice del National Quantum Information Science Research Center di Chicago) e Barbara Mazzolini (direttrice associata dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova), Diana Bracco (presidente e amministratrice delegata dell’ononimo gruppo farmaceutico) e Nunzia Ciardi (direttrice della Polizia Postale), Luisa Lavagnini (direttrice Ricerca e Innovazione tecnologica dell’Eni e Nicoletta Mastropietro (Chief Infornation Officer di Leonardo), insieme a tante altre donne che lavorano in Italia, ma anche negli altri paesi europei e negli Usa. Tutte con uno sguardo attento alle relazioni tra scienza, tecnologia e questioni ambientali e sociali: “Per risolvere le sfide ambientali del nostro secolo c’è bisogno di ingegneri, chimici, fisici. Ma ci servono anche più donne, perché la soluzione di questi problemi globali richiede diversità di idee, punti di vista e l’esperienza sia degli uyomini che delle donne”, sostiene Giovanna Ludisio, cofondatrice e Ceo di Naturbeads, una startup che lavora per cercare di eliminare il problema dell’inquinamento da microplastiche.

Futuro Stem come futuro con una evidente declinazione femminile, dunque.

Ma forse serve anche un’altra riflessione. Con un arricchimento dell’acronimo. Da Stem a Steam. Aggiungendo alle indispensabili conoscenze scientifiche la “a” di Arts, quell’insieme di saperi umanistici con cui costruire originali sintesi da “cultura politecnica” (un’espressione ricorrente nei nostri blog).

Proprio le nuove sfide tecnologiche, dalla sostenibilità alle inedite declinazioni dell’Intelligenza Artificiale chiedono sinergie tra conoscenze diverse (un’attitudine, paraltro, molto italiana e molto femminile). E nell’impegno a “imparare a imparare”, proprio quella “intelligenza del cuore” di cui abbiamo detto è indispensabile.

Vale la pena, dunque, ricordare un’indicazione sull’umanesimo industriale e soprattuto sull’umanesimo digitale di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana, usando un giudizio di Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino: “E’ arrivato il tempo di introdurre quello che potremmo definire un umanesimo digitale, in cui archeologi, antropologi, architetti, storici, filosofi, neuroscienziati, psicologi lavorino fianco a fianco con chimici, fisici, esperti informatici, per arrivare alla definizione di una nuova semantica che ci permetta di capire ed elaborare la complessità della realtà”.

“Perché l’aria sconfinava nel cosmo? Cos’era che ci guidava verso l’eterno? Dove, dove correvano le stelle? Quando entrai in aula e presi posto, gli interrogativi pressavano, ghermivano l’aria, svolavano sulle teste degli studenti. Il professore entrò, salutò, ci contò velocemente. Si soffermò su di me e sorrise. Ero l’unica donna”.

Facoltà di matematica dell’università “La Sapienza” di Roma. Autunno 1915. Lei è Anna Maria Ciccone, curiosa, intraprendente, decisa a non seguire le sorti delle ragazze di buona famiglia siciliana (era nata a Noto nel 1891): un matrimonio di rango, i figli, le cure della casa, la scansione benestante e noiosa del tempo della provincia antica. Ha una passione per la scienza, la luce, le stelle. Vuole studiare, capire, fare ricerca, insegnare. E così, contro il parere dei genitori, lascia la Sicilia, comincia a studiare matematica a Roma e subito vince un concorso per essere ammessa alla Normale di Pisa. Affascinata dalle idee allora rivoluzionarie di Einstein, si fa notare tra i suoi pochi sostenitori. E poi, da Pisa alla Germania e poi ancora a Pisa, cercando sempre “un piccolo bagliore di conosvcenza”…

La sua storia è raccontata da Simona Lo Iacono, scrittrice di sicuro e affascinante talento, nelle pagine di “La tigre di Noto”, per l’editore Neri Pozza. La solida inclinazione alla ricerca scientifica. E la passione civile con un forte senso di responsabilità morale (che la porta a opporsi alle razzie antisemite dei nazisti e a salvare 5mila preziosi volumi di cultura ebraica). Il piacere per le nuove idee che, attraverso la relatività e la fisica quantistica, stanno cambiando il mondo. E una vocazione affettuosa e severa per l’insegnamento. Ha insegnato Fisica sperimentale a Pisa, ha fatto ricerca al Laboratorio di  fisica atomica e nucleare del Collège de France, s’è abilitata in due concorsi per professore ordinario. Ma “non le venne mai assegnata alcuna cattedra perché donna”.

Vale la pena rileggerla, questa storia rimasta a lungo sconosciuta, proprio mentre cresce, anche nell’opinione pubblica italiana, la sensibilità per una maggiore presenza delle donne nel mondo della scienza e, più in generale, in quello che viene definito come “il mondo Stem”, costruendo un acronimo con le iniziali di Science, Technology, Engineering e Mathematics. Anna Maria Ciccone, Marianna per gli amici e i colleghi, è stata infatti una “donna Stem” pioniera, una protagonista esemplare di quanto siano essenziali, proprio per la ricerca e la scienza, le presenze femminili di qualità. E di che peso siano, per la ricerca e l’innovazione, gli sguardi originali e curiosi, la capacità di sorprendersi e di fare domande, le attitudini della “intelligenza del cuore” legate alla severità delle indagini razionali.

“Modelli da seguire. 50 donne vincenti tra Tech e Scienza: ragazze, fate come noi”, ha titolato nei giorni scorsi il “CorrierEconomia” (6 settembre) per un articolo sui risultati di una ricerca di “Inspiring Fifty”, un’iniziativa lanciata nel 2015 da due imprenditrici digitali olandesi, Janneke Niessen e Joelle Frijters, pèr valorizzare il ruolo femminile nel mondo dell’impresa ad alta tecnologia e della scienza e per stimolare le nuove generazioni di bambine e ragazze a impegnarsi nei settori scientifici.

“Promuovere il dibattito sul valore della formazione Stem e il ruolo delle donne nell’innovazione tecnologica è un dovere della società”, sostiene Marilù Capparelli, direttrice degli Affari legali di Google, una delle 50 “Inspiring Fifty” italiane. Tra le altre, ci sono Anna Grasselini (direttrice del National Quantum Information Science Research Center di Chicago) e Barbara Mazzolini (direttrice associata dell’Istituto italiano di Tecnologia di Genova), Diana Bracco (presidente e amministratrice delegata dell’ononimo gruppo farmaceutico) e Nunzia Ciardi (direttrice della Polizia Postale), Luisa Lavagnini (direttrice Ricerca e Innovazione tecnologica dell’Eni e Nicoletta Mastropietro (Chief Infornation Officer di Leonardo), insieme a tante altre donne che lavorano in Italia, ma anche negli altri paesi europei e negli Usa. Tutte con uno sguardo attento alle relazioni tra scienza, tecnologia e questioni ambientali e sociali: “Per risolvere le sfide ambientali del nostro secolo c’è bisogno di ingegneri, chimici, fisici. Ma ci servono anche più donne, perché la soluzione di questi problemi globali richiede diversità di idee, punti di vista e l’esperienza sia degli uyomini che delle donne”, sostiene Giovanna Ludisio, cofondatrice e Ceo di Naturbeads, una startup che lavora per cercare di eliminare il problema dell’inquinamento da microplastiche.

Futuro Stem come futuro con una evidente declinazione femminile, dunque.

Ma forse serve anche un’altra riflessione. Con un arricchimento dell’acronimo. Da Stem a Steam. Aggiungendo alle indispensabili conoscenze scientifiche la “a” di Arts, quell’insieme di saperi umanistici con cui costruire originali sintesi da “cultura politecnica” (un’espressione ricorrente nei nostri blog).

Proprio le nuove sfide tecnologiche, dalla sostenibilità alle inedite declinazioni dell’Intelligenza Artificiale chiedono sinergie tra conoscenze diverse (un’attitudine, paraltro, molto italiana e molto femminile). E nell’impegno a “imparare a imparare”, proprio quella “intelligenza del cuore” di cui abbiamo detto è indispensabile.

Vale la pena, dunque, ricordare un’indicazione sull’umanesimo industriale e soprattuto sull’umanesimo digitale di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana, usando un giudizio di Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino: “E’ arrivato il tempo di introdurre quello che potremmo definire un umanesimo digitale, in cui archeologi, antropologi, architetti, storici, filosofi, neuroscienziati, psicologi lavorino fianco a fianco con chimici, fisici, esperti informatici, per arrivare alla definizione di una nuova semantica che ci permetta di capire ed elaborare la complessità della realtà”.

Premio Campiello 2021, vince Giulia Caminito

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