Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

I Natali degli anni passati
Buon Natale in tutte le lingue del mondo Pirelli

Il Natale è la festa più “globale” di tutte, in grado di unire e accomunare differenti culture e società e viene festeggiato in ogni angolo del mondo, anche se con diverse usanze e  simbologie. Chi sono Hoteiosho e Dun Che Lao Ren? Come nasce il “panettone”, il simbolico dolce milanese? Curiosità e racconti sono stati i protagonisti di uno speciale Calendario dell’avvento allestito negli spazi della nostra Fondazione nel 2015: ogni casella del Calendario ha svelato le tradizioni natalizie di tutti i paesi del mondo in cui Pirelli è presente. Scoprendo così che il Natale in Inghilterra si festeggia con il tradizionale Christmas Pudding, un dolce composto da 13 ingredienti che devono essere mescolati, in senso antiorario, da tutti i componenti della famiglia.

Proprio in Gran Bretagna nasce la tradizione dei biglietti d’auguri nel 1843, lo stesso anno in cui Charles Dickens pubblica il celebre “A Christmas Carol”. Negli Stati Uniti, anche l’albero di Natale rivendica il suo posto accanto a Santa Claus: nel 1933 si accendono per la prima volta le 25.000 lampadine del maestoso Christmas Tree al Rockefeller Center di New York. In Germania il 24 dicembre è Frau Holle, mamma gelo, e il 6 gennaio arriva la notte di Berchta, divinità pre-cristiana che vola su città e campagne circondata da elfi e folletti, aggrappati al suo mantello di nebbia e di neve. Ma tra Frau Holle e Berchta, di certo é Santa Klaus il vero simbolo del Natale. Sotto l’Albero , di cui i tedeschi rivendicano l’origine, si mangiano biscottini zimsternen a forma di stella al sapore di zenzero, anice o cannella e lo stollen, fatto con frutta candita, noci e marzapane. In Australia verso la metà di novembre si svolge il Christmas Pageant, una sorta di carnevale natalizio. La sera del 24 dicembre ci si riunisce per cantare a lume di candela: è  la città di Melbourne a lanciare l’usanza, alla fine degli anni Trenta. Il 26 dicembre, parte la Sidney-Hobart, imperdibile gara di barche a vela che da Sidney raggiunge dopo 630 miglia il porto di Hobart, in Tasmania. A Natale, in Francia, il primo ad arrivare è San Martino, la notte del 10 novembre. Poi è la volta di San Nicolain arrivo il 5 dicembre: se alla vigilia si lascia sulla porta di casa un bicchiere di latte e della paglia, ricompenserà le famiglie con dolce di cioccolato e di pan pepato. E infine arriva Père Noël, la notte del 24 dicembre. Il 6 gennaio si chiudono i festeggiamenti, e i pasticceri del Nord sfornano per i più golosi la Galette des Rois, dedicata ai Re Magi, un pane dolce guarnito con crema frangipane alle mandorle.

Prima del 1917, il Natale in Russia viene celebrato come uno dei giorni più importanti dell’anno: digiuno completo alla vigilia fino all’ora della comparsa in cielo della prima stella della sera, che da il via alla festa della Svyatah Vecherya: dodici portate aperte dalla kutia, un porridge dolce capace di propiziare salute e prosperità. Dopo la Rivoluzione, San Nicola diventa Deyd Moroz, il laico Nonno Gelo che lascia i regali sotto l’Albero a Capodanno. Oggi la notte di Natale si festeggia il 7 gennaio. In Romania Moș Crăciun porta i doni il 25 dicembre, ma già la sera del 5 dicembre i bambini lasciano fuori dalla porta le loro scarpine, sperando che Moș Nicolae, San Nicola, regali dolci e caramelle. In Spagna il 23 dicembre è di tradizione El Gordo de la Navidad, la più antica lotteria del mondo; la Vigilia si chiama Noche Buena, e il 25 dicembre è la Navidad, da santificare ai piedi del Belèn, il Presepe di Santi e Pastori. Il 6 gennaio si scartano i regali e si mangia la Rosca de Reyes, dolce a forma di anello che nasconde in sè un fagiolo e una statuina in porcellana del Bambinello: chi trova il fagiolo dovrà comperare il dolce l’anno successivo, chi trova Gesù Bambino dovrà esibirsi in una prova di coraggio.

Fin dal 1520, in Messico, nove giorni prima del Natale si dà il via a Las Posadas: si rievoca il peregrinare di Giuseppe e Maria per Betlemme alla ricerca di una locanda per la notte della Nascita. Di casa in casa, di sera in sera una folla in processione intona i canti della tradizione. Il clou della festa è il momento della piñata, la brocca di argilla o cartapesta a forma di Stella di Betlemme contenente la colaciòn: caramelle, frutta, giocattoli, monete, e i bambini bendati cercano di romperla colpendola con un bastone. I regali li portano il 6 gennaio Los Reyes, i Re Magi. Il Papai Noel brasiliano non viaggia su una slitta trinata da renne: usa l’elicottero, e vola sullo Stadio Maracanã di Rio de Janeiro, lanciando una pioggia di caramelle sulle migliaia di bambini assiepati sulle tribune. Il 31 dicembre si festeggia anche la dea del mare Yemanja, con offerte votive di frutta e braccialetti di lana e di fiori, da mettere anche sulle piccole zattere che prendono il largo, con la luce delle candele a illuminare la statuina in terracotta della dea. Il Natale in Egitto arriva il ventinovesimo giorno del sacro mese di Kiahk, il nostro 7 gennaio. Ed è quel giorno che finisce un digiuno lungo quarantatrè giorni, senza poter mangiare dalla mezzanotte all’ora nona. La notte della Vigilia, alla Messa di Mezzanotte viene distribuito ai fedeli il pane Qurban, inciso con il segno della Croce circondata da dodici punti che rappresentano gli Apostoli. Tra i grattacieli di Shangai, Pechino e Hong Kong Dun Che Lao Ren è il Vecchio Uomo Natale che popola le vetrine dei centri commerciali. L’Albero della Luce risplende di lanterne, fiori di carta e ghirlande colorate.

Tra il 21 gennaio e il 19 febbraio c’è la Festa di Primavera, nota in occidente come Capodanno Cinese: quindici giorni tra banchetti illuminati dalle lampade e visite a parenti e amici, vestendo rigorosamente di rosso portafortuna. In Giappone, Hoteiosho porta i regali ai bambini a Capodanno, che dal 1873 si festeggia il primo gennaio. A Natale si mangia il Kurisumasu keki, un dolce fatto di pan di spagna, con panna e fragole. In Italia il panettone è forse il dolce natalizio per eccellenza: si dice che sia stato inventato da un aiutante di cucina di nome Toni, a servizio da Ludovico il Moro, per sostituire il sontuoso dolce che il cuoco aveva lasciato bruciare. Il Pan-di-Toni fu lodato da tutti i commensali. Il 6 gennaio arriva la Befana insieme ai Re Magi e trionfa il presepe, la cui invenzione è attribuita a Francesco d’Assisi.

Tante tradizioni per dire: “Buon Natale!”, in tutte le lingue del mondo.

Il Natale è la festa più “globale” di tutte, in grado di unire e accomunare differenti culture e società e viene festeggiato in ogni angolo del mondo, anche se con diverse usanze e  simbologie. Chi sono Hoteiosho e Dun Che Lao Ren? Come nasce il “panettone”, il simbolico dolce milanese? Curiosità e racconti sono stati i protagonisti di uno speciale Calendario dell’avvento allestito negli spazi della nostra Fondazione nel 2015: ogni casella del Calendario ha svelato le tradizioni natalizie di tutti i paesi del mondo in cui Pirelli è presente. Scoprendo così che il Natale in Inghilterra si festeggia con il tradizionale Christmas Pudding, un dolce composto da 13 ingredienti che devono essere mescolati, in senso antiorario, da tutti i componenti della famiglia.

Proprio in Gran Bretagna nasce la tradizione dei biglietti d’auguri nel 1843, lo stesso anno in cui Charles Dickens pubblica il celebre “A Christmas Carol”. Negli Stati Uniti, anche l’albero di Natale rivendica il suo posto accanto a Santa Claus: nel 1933 si accendono per la prima volta le 25.000 lampadine del maestoso Christmas Tree al Rockefeller Center di New York. In Germania il 24 dicembre è Frau Holle, mamma gelo, e il 6 gennaio arriva la notte di Berchta, divinità pre-cristiana che vola su città e campagne circondata da elfi e folletti, aggrappati al suo mantello di nebbia e di neve. Ma tra Frau Holle e Berchta, di certo é Santa Klaus il vero simbolo del Natale. Sotto l’Albero , di cui i tedeschi rivendicano l’origine, si mangiano biscottini zimsternen a forma di stella al sapore di zenzero, anice o cannella e lo stollen, fatto con frutta candita, noci e marzapane. In Australia verso la metà di novembre si svolge il Christmas Pageant, una sorta di carnevale natalizio. La sera del 24 dicembre ci si riunisce per cantare a lume di candela: è  la città di Melbourne a lanciare l’usanza, alla fine degli anni Trenta. Il 26 dicembre, parte la Sidney-Hobart, imperdibile gara di barche a vela che da Sidney raggiunge dopo 630 miglia il porto di Hobart, in Tasmania. A Natale, in Francia, il primo ad arrivare è San Martino, la notte del 10 novembre. Poi è la volta di San Nicolain arrivo il 5 dicembre: se alla vigilia si lascia sulla porta di casa un bicchiere di latte e della paglia, ricompenserà le famiglie con dolce di cioccolato e di pan pepato. E infine arriva Père Noël, la notte del 24 dicembre. Il 6 gennaio si chiudono i festeggiamenti, e i pasticceri del Nord sfornano per i più golosi la Galette des Rois, dedicata ai Re Magi, un pane dolce guarnito con crema frangipane alle mandorle.

Prima del 1917, il Natale in Russia viene celebrato come uno dei giorni più importanti dell’anno: digiuno completo alla vigilia fino all’ora della comparsa in cielo della prima stella della sera, che da il via alla festa della Svyatah Vecherya: dodici portate aperte dalla kutia, un porridge dolce capace di propiziare salute e prosperità. Dopo la Rivoluzione, San Nicola diventa Deyd Moroz, il laico Nonno Gelo che lascia i regali sotto l’Albero a Capodanno. Oggi la notte di Natale si festeggia il 7 gennaio. In Romania Moș Crăciun porta i doni il 25 dicembre, ma già la sera del 5 dicembre i bambini lasciano fuori dalla porta le loro scarpine, sperando che Moș Nicolae, San Nicola, regali dolci e caramelle. In Spagna il 23 dicembre è di tradizione El Gordo de la Navidad, la più antica lotteria del mondo; la Vigilia si chiama Noche Buena, e il 25 dicembre è la Navidad, da santificare ai piedi del Belèn, il Presepe di Santi e Pastori. Il 6 gennaio si scartano i regali e si mangia la Rosca de Reyes, dolce a forma di anello che nasconde in sè un fagiolo e una statuina in porcellana del Bambinello: chi trova il fagiolo dovrà comperare il dolce l’anno successivo, chi trova Gesù Bambino dovrà esibirsi in una prova di coraggio.

Fin dal 1520, in Messico, nove giorni prima del Natale si dà il via a Las Posadas: si rievoca il peregrinare di Giuseppe e Maria per Betlemme alla ricerca di una locanda per la notte della Nascita. Di casa in casa, di sera in sera una folla in processione intona i canti della tradizione. Il clou della festa è il momento della piñata, la brocca di argilla o cartapesta a forma di Stella di Betlemme contenente la colaciòn: caramelle, frutta, giocattoli, monete, e i bambini bendati cercano di romperla colpendola con un bastone. I regali li portano il 6 gennaio Los Reyes, i Re Magi. Il Papai Noel brasiliano non viaggia su una slitta trinata da renne: usa l’elicottero, e vola sullo Stadio Maracanã di Rio de Janeiro, lanciando una pioggia di caramelle sulle migliaia di bambini assiepati sulle tribune. Il 31 dicembre si festeggia anche la dea del mare Yemanja, con offerte votive di frutta e braccialetti di lana e di fiori, da mettere anche sulle piccole zattere che prendono il largo, con la luce delle candele a illuminare la statuina in terracotta della dea. Il Natale in Egitto arriva il ventinovesimo giorno del sacro mese di Kiahk, il nostro 7 gennaio. Ed è quel giorno che finisce un digiuno lungo quarantatrè giorni, senza poter mangiare dalla mezzanotte all’ora nona. La notte della Vigilia, alla Messa di Mezzanotte viene distribuito ai fedeli il pane Qurban, inciso con il segno della Croce circondata da dodici punti che rappresentano gli Apostoli. Tra i grattacieli di Shangai, Pechino e Hong Kong Dun Che Lao Ren è il Vecchio Uomo Natale che popola le vetrine dei centri commerciali. L’Albero della Luce risplende di lanterne, fiori di carta e ghirlande colorate.

Tra il 21 gennaio e il 19 febbraio c’è la Festa di Primavera, nota in occidente come Capodanno Cinese: quindici giorni tra banchetti illuminati dalle lampade e visite a parenti e amici, vestendo rigorosamente di rosso portafortuna. In Giappone, Hoteiosho porta i regali ai bambini a Capodanno, che dal 1873 si festeggia il primo gennaio. A Natale si mangia il Kurisumasu keki, un dolce fatto di pan di spagna, con panna e fragole. In Italia il panettone è forse il dolce natalizio per eccellenza: si dice che sia stato inventato da un aiutante di cucina di nome Toni, a servizio da Ludovico il Moro, per sostituire il sontuoso dolce che il cuoco aveva lasciato bruciare. Il Pan-di-Toni fu lodato da tutti i commensali. Il 6 gennaio arriva la Befana insieme ai Re Magi e trionfa il presepe, la cui invenzione è attribuita a Francesco d’Assisi.

Tante tradizioni per dire: “Buon Natale!”, in tutte le lingue del mondo.

Multimedia

Images

Lavorare in modo diverso

Una ricerca appena pubblicata affronta il complesso tema del telelavoro

 

Lavorare da casa, con tutte le declinazioni possibili che questa forma di lavoro può avere. Espressione di una cultura del produrre diversa da prima, per anni piuttosto snobbata e adesso – improvvisamente – assunta a prospettiva utile per molte imprese. Telelavoro o smart working, dunque, da comprendere bene prima di celebrare e applicare nelle diverse realtà d’azienda. Comunque alternative importanti per una differente organizzazione della produzione. Leggere “Telelavoro. La nuova onda” scritto da Vittorio Di Martino, e recentemente apparso su Economia & Lavoro, serve allora per farsi un’idea basata su indicazioni affidabili circa che cosa significhi questo cambio di orizzonte per decine di migliaia di lavoratori e di aziende.

L’autore è stato uno dei primi a studiare il telelavoro, e sul tema torna adesso per notare quanto questo diverso assetto dell’attività d’impresa (dove possibile), sia al centro di un vero crescendo d’attenzione accompagnato da grandi aspettative. Di Martino, quindi, analizza questa attività esplorandone i diversi aspetti e indicando, soprattutto guardando all’Italia, quali siano i fattori che ne frenano ancora una ulteriore diffusione. Servono, viene spiegato, strategie e politiche mirate allo sviluppo del telelavoro del quale, ancora oggi, è difficile prevedere il futuro.

Ad essere coinvolti in questa pratica sono, infatti, numerosi elementi spesso molto lontani tra di loro. Lavorare da casa implica nuove organizzazioni delle relazioni tra parti diverse dell’impresa, regole nuove per quanto concerne i sistemi di controllo e di rilevazione delle prestazioni, una mentalità più flessibile, schemi gestionali e decisionali ben differenti rispetto a quelli classici. Occorre, in altre parole, una cultura d’impresa più matura e consapevole da parte di tutti.

Di Martino spiega allora che solo quando le imprese disporranno di un vero insieme di strumenti applicativi in grado di essere agevolmente usati, sarà possibile “azzardare” previsioni circa le possibilità di estensione del telelavoro in modo pienamente rispondente alle esigenze di tutte le parti in causa.

Telelavoro. La nuova onda

Vittorio Di Martino

Economia & Lavoro, 2/2020, maggio-agosto

Una ricerca appena pubblicata affronta il complesso tema del telelavoro

 

Lavorare da casa, con tutte le declinazioni possibili che questa forma di lavoro può avere. Espressione di una cultura del produrre diversa da prima, per anni piuttosto snobbata e adesso – improvvisamente – assunta a prospettiva utile per molte imprese. Telelavoro o smart working, dunque, da comprendere bene prima di celebrare e applicare nelle diverse realtà d’azienda. Comunque alternative importanti per una differente organizzazione della produzione. Leggere “Telelavoro. La nuova onda” scritto da Vittorio Di Martino, e recentemente apparso su Economia & Lavoro, serve allora per farsi un’idea basata su indicazioni affidabili circa che cosa significhi questo cambio di orizzonte per decine di migliaia di lavoratori e di aziende.

L’autore è stato uno dei primi a studiare il telelavoro, e sul tema torna adesso per notare quanto questo diverso assetto dell’attività d’impresa (dove possibile), sia al centro di un vero crescendo d’attenzione accompagnato da grandi aspettative. Di Martino, quindi, analizza questa attività esplorandone i diversi aspetti e indicando, soprattutto guardando all’Italia, quali siano i fattori che ne frenano ancora una ulteriore diffusione. Servono, viene spiegato, strategie e politiche mirate allo sviluppo del telelavoro del quale, ancora oggi, è difficile prevedere il futuro.

Ad essere coinvolti in questa pratica sono, infatti, numerosi elementi spesso molto lontani tra di loro. Lavorare da casa implica nuove organizzazioni delle relazioni tra parti diverse dell’impresa, regole nuove per quanto concerne i sistemi di controllo e di rilevazione delle prestazioni, una mentalità più flessibile, schemi gestionali e decisionali ben differenti rispetto a quelli classici. Occorre, in altre parole, una cultura d’impresa più matura e consapevole da parte di tutti.

Di Martino spiega allora che solo quando le imprese disporranno di un vero insieme di strumenti applicativi in grado di essere agevolmente usati, sarà possibile “azzardare” previsioni circa le possibilità di estensione del telelavoro in modo pienamente rispondente alle esigenze di tutte le parti in causa.

Telelavoro. La nuova onda

Vittorio Di Martino

Economia & Lavoro, 2/2020, maggio-agosto

Le troppe cose che gli italiani non si dicono e il bisogno d’una nuova stagione di responsabilità

“L’Italia come una ruota quadrata che non gira e avanza a fatica”, sentenzia il Censis, ancora una volta abile creatore di immagini suggestive, nel rapporto annuale presentato venerdì 4 dicembre. Spaccata in due dalla pandemia, tra gli impiegati pubblici con i posti di lavoro e gli stipendi al sicuro e i dipendenti delle imprese private in gravi difficoltà economiche, tra attività bloccate, cassa integrazione, licenziamenti striscianti e 5 milioni di precari scomparsi. Un’Italia comunque impaurita e incerta, con il futuro incupito, la fiducia in frantumi, il risparmio (per chi ancora può) in crescita clamorosa perché, nell’insicurezza del domani, non si consuma e non si investe. Un’Italia lusingata da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) con la bonus economy (un sussidio, un aiuto, una pensione anzitempo, un reddito di cittadinanza che invita a non lavorare, una promessa di sostegno, un rinvio delle tasse, tutto a debito, comunque) ma sinora poco e male coinvolta in serie progetti di investimenti per la ripresa e il rilancio.

Un “paese senza”, per riprendere l’efficace titolo di un saggio di Alberto Arbasino del 1980, giusto quarant’anni fa. Un paese che vive spesso di trucchi, inganni, illusioni e dunque di laceranti delusioni che si tramutano in rabbia e rancore. Un paese avvilito da “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)”, come recita il titolo dell’ultimo libro di Ferruccio de Bortoli per Garzanti, denso e appassionato catalogo ben documentato dei giochi delle mezze verità e delle infinite reticenze che avviliscono il nostro discorso pubblico. Un libro severo e tagliente, ricco di dati, fatti e punti di vista ragionati, come peraltro si fa nel buon giornalismo (oramai però raro, purtroppo). Un libro da leggere, sottolineare, rimeditare.

Eppure, nonostante tutto, siamo un paese migliore della rappresentazione corriva che ne viene data. Perché, tra quei dipendenti pubblici che hanno approfittato dello smart working per lavorare ancora meno e senza controlli, ci sono anche le decine di migliaia di medici e operatori sanitari che hanno dato prova di professionalità, responsabilità e dedizione, di poliziotti e carabinieri esposti in prima linea per l’ordine pubblico, di addetti ai servizi che hanno fatto andare treni, autobus e tram, di maestri e professori che hanno continuato a fare scuola, incuranti della mancanza di “banchi con le rotelle” (bizzarrie di governanti privi di senso della realtà) ma attenti, piuttosto, ai contenuti e ai metodi delle loro lezioni, in momenti difficili di didattica a distanza e gravi disagi degli studenti (in decine di migliaia non hanno le connessioni internet né i computer, per potere seguire le lezioni).

Un’Italia ferita ma in movimento, insomma, anche perché, nonostante tutto, le imprese, mettendo i proprio dipendenti in sicurezza, hanno continuato a lavorare, produrre, esportare, creando quella ricchezza da cui dipendono il gettito fiscale, il benessere collettivo, l’occupazione, le possibilità del futuro: l’economia reale contro l’economia dei sussidi che tanto piace a troppi politici in cerca di consenso e clientele.

Per dirla in sintesi: proprio in questi tempi così dolorosi e difficili, l’Italia ha dimostrato di avere un robusto capitale sociale e un diffuso senso di responsabilità, uno spirito di comunità che può fare da base per la ripartenza. E che convive con egoismi, pulsioni corporative, irresponsabilità, in una miscela instabile e pericolosa.

Bisogna, allora, saper costruire una via d’uscita. Come? Un’indicazione viene dal “Discorso alla città” che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato, come ogni anno, in occasione della festività di Sant’Ambrogio: è “ingiustificato l’atteggiamento rinunciatario” e al suo posto bisogna insistere su “fiducia” e “speranza”; dunque “dobbiamo scegliere se essere vittime delle paure o edificare una comunità”. Insomma, “elogiamo quelli che rimangono al loro posto nella sanità, nei negozi, a scuola…” perché “grazie a loro la città funziona anche nella pandemia. Farsi carico dei problemi e dei dolori dell’altro, delle “fragilità”. Prendersi cura dei più deboli. E costruire un nuovo senso di partecipazione e di responsabilità. Insiste Delpini: “Non esistono scorciatoie. Le scelte facili del populismo, l’autoritarismo decisionista, la seduzione di personaggi carismatici non rispettano la dignità delle persone. Spesso portano a disastri”. Realismo, piuttosto. Pragmatismo operoso. E impegno “per dare volto all’umanesimo ambrosiano. Un discorso forte, di verità e civiltà.

Riprendiamo in mano il libro di de Bortoli, allora, per capire meglio. Non ci diciamo, per esempio, che “viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, investiamo poco, campiamo di rendita sul patrimonio accumulato in passato e soprattutto facciamo crescere il debito pubblico, scaricando cioè il costo del benessere attuale sui figli e i nipoti. La pandemia da Covid19 e la recessione hanno aggravato il quadro, ampliando le dimensioni delle “nuove povertà”. Ma – insiste de Bortoli – preferiamo illuderci sulla bontà dei sussidi (quota 100 per le pensioni, il reddito di cittadinanza, un’infinità di sgravi fiscali) tralasciando invece la necessità di fare crescere la produttività, il lavoro vero con l’impegno delle imprese e gli investimenti in innovazione e formazione, come suggerisce anche il Recovery Plan della Ue.

Ecco un punto fondamentale che sta giustamente a cuore a de Bortoli: non ci diciamo l’importanza della scuola. E così condanniamo irresponsabilmente le nuove generazioni a crescere ignoranti, indebitate e incapaci di fare fronte alle nuove esigenze dell’economia e della società sostenibile e digitale.

Non ci diciamo, inoltre, che in troppi evadono il fisco, scaricando il peso delle tasse su un numero esiguo di persone e di imprese in regola. Che tornare allo “Stato imprenditore” è un errore, dopo i disastro del passato. E che la concorrenza è una strada indispensabile per una crescita equilibrata, anche se in tanti cercano di limitarla o annullarla, per coltivare ancora posizioni di potere e di rendita, al di là delle proprie capacità e dei propri meriti.

L’ultimo capitolo è dedicato alla parsimonia responsabile di Luigi Einaudi, ricordando il suo offrire “mezza mela” all’ospite di un pranzo essenziale. E alla preoccupazione dei genitori degli anni Cinquanta e Sessanta di lavorare, risparmiare e investire per un futuro migliore dei loro figli. “Vivere – nota de Bortoli – non è mai stato facile. E non lo sarà nemmeno in futuro. Il benessere non è un diritto. A volte ci comportiamo come se lo fosse. Il benessere di cittadinanza non c’è, purtroppo. I sacrifici sono ancora più necessari, oggi. Ma nessuno ne parla. Non dobbiamo aspettarci nulla dallo Stato se non lo sorreggeremo con tasse eque e un maggiore senso civico”. Ecco, appunto, cosa dovremmo dirci con chiarezza e insistenza: servono civismo, senso di comunità, responsabilità. C’è una parte ampia dell’Italia che interpreta bene queste qualità sociali. E merita attenzione e rispetto.

“L’Italia come una ruota quadrata che non gira e avanza a fatica”, sentenzia il Censis, ancora una volta abile creatore di immagini suggestive, nel rapporto annuale presentato venerdì 4 dicembre. Spaccata in due dalla pandemia, tra gli impiegati pubblici con i posti di lavoro e gli stipendi al sicuro e i dipendenti delle imprese private in gravi difficoltà economiche, tra attività bloccate, cassa integrazione, licenziamenti striscianti e 5 milioni di precari scomparsi. Un’Italia comunque impaurita e incerta, con il futuro incupito, la fiducia in frantumi, il risparmio (per chi ancora può) in crescita clamorosa perché, nell’insicurezza del domani, non si consuma e non si investe. Un’Italia lusingata da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) con la bonus economy (un sussidio, un aiuto, una pensione anzitempo, un reddito di cittadinanza che invita a non lavorare, una promessa di sostegno, un rinvio delle tasse, tutto a debito, comunque) ma sinora poco e male coinvolta in serie progetti di investimenti per la ripresa e il rilancio.

Un “paese senza”, per riprendere l’efficace titolo di un saggio di Alberto Arbasino del 1980, giusto quarant’anni fa. Un paese che vive spesso di trucchi, inganni, illusioni e dunque di laceranti delusioni che si tramutano in rabbia e rancore. Un paese avvilito da “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)”, come recita il titolo dell’ultimo libro di Ferruccio de Bortoli per Garzanti, denso e appassionato catalogo ben documentato dei giochi delle mezze verità e delle infinite reticenze che avviliscono il nostro discorso pubblico. Un libro severo e tagliente, ricco di dati, fatti e punti di vista ragionati, come peraltro si fa nel buon giornalismo (oramai però raro, purtroppo). Un libro da leggere, sottolineare, rimeditare.

Eppure, nonostante tutto, siamo un paese migliore della rappresentazione corriva che ne viene data. Perché, tra quei dipendenti pubblici che hanno approfittato dello smart working per lavorare ancora meno e senza controlli, ci sono anche le decine di migliaia di medici e operatori sanitari che hanno dato prova di professionalità, responsabilità e dedizione, di poliziotti e carabinieri esposti in prima linea per l’ordine pubblico, di addetti ai servizi che hanno fatto andare treni, autobus e tram, di maestri e professori che hanno continuato a fare scuola, incuranti della mancanza di “banchi con le rotelle” (bizzarrie di governanti privi di senso della realtà) ma attenti, piuttosto, ai contenuti e ai metodi delle loro lezioni, in momenti difficili di didattica a distanza e gravi disagi degli studenti (in decine di migliaia non hanno le connessioni internet né i computer, per potere seguire le lezioni).

Un’Italia ferita ma in movimento, insomma, anche perché, nonostante tutto, le imprese, mettendo i proprio dipendenti in sicurezza, hanno continuato a lavorare, produrre, esportare, creando quella ricchezza da cui dipendono il gettito fiscale, il benessere collettivo, l’occupazione, le possibilità del futuro: l’economia reale contro l’economia dei sussidi che tanto piace a troppi politici in cerca di consenso e clientele.

Per dirla in sintesi: proprio in questi tempi così dolorosi e difficili, l’Italia ha dimostrato di avere un robusto capitale sociale e un diffuso senso di responsabilità, uno spirito di comunità che può fare da base per la ripartenza. E che convive con egoismi, pulsioni corporative, irresponsabilità, in una miscela instabile e pericolosa.

Bisogna, allora, saper costruire una via d’uscita. Come? Un’indicazione viene dal “Discorso alla città” che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha pronunciato, come ogni anno, in occasione della festività di Sant’Ambrogio: è “ingiustificato l’atteggiamento rinunciatario” e al suo posto bisogna insistere su “fiducia” e “speranza”; dunque “dobbiamo scegliere se essere vittime delle paure o edificare una comunità”. Insomma, “elogiamo quelli che rimangono al loro posto nella sanità, nei negozi, a scuola…” perché “grazie a loro la città funziona anche nella pandemia. Farsi carico dei problemi e dei dolori dell’altro, delle “fragilità”. Prendersi cura dei più deboli. E costruire un nuovo senso di partecipazione e di responsabilità. Insiste Delpini: “Non esistono scorciatoie. Le scelte facili del populismo, l’autoritarismo decisionista, la seduzione di personaggi carismatici non rispettano la dignità delle persone. Spesso portano a disastri”. Realismo, piuttosto. Pragmatismo operoso. E impegno “per dare volto all’umanesimo ambrosiano. Un discorso forte, di verità e civiltà.

Riprendiamo in mano il libro di de Bortoli, allora, per capire meglio. Non ci diciamo, per esempio, che “viviamo al di sopra dei nostri mezzi”, investiamo poco, campiamo di rendita sul patrimonio accumulato in passato e soprattutto facciamo crescere il debito pubblico, scaricando cioè il costo del benessere attuale sui figli e i nipoti. La pandemia da Covid19 e la recessione hanno aggravato il quadro, ampliando le dimensioni delle “nuove povertà”. Ma – insiste de Bortoli – preferiamo illuderci sulla bontà dei sussidi (quota 100 per le pensioni, il reddito di cittadinanza, un’infinità di sgravi fiscali) tralasciando invece la necessità di fare crescere la produttività, il lavoro vero con l’impegno delle imprese e gli investimenti in innovazione e formazione, come suggerisce anche il Recovery Plan della Ue.

Ecco un punto fondamentale che sta giustamente a cuore a de Bortoli: non ci diciamo l’importanza della scuola. E così condanniamo irresponsabilmente le nuove generazioni a crescere ignoranti, indebitate e incapaci di fare fronte alle nuove esigenze dell’economia e della società sostenibile e digitale.

Non ci diciamo, inoltre, che in troppi evadono il fisco, scaricando il peso delle tasse su un numero esiguo di persone e di imprese in regola. Che tornare allo “Stato imprenditore” è un errore, dopo i disastro del passato. E che la concorrenza è una strada indispensabile per una crescita equilibrata, anche se in tanti cercano di limitarla o annullarla, per coltivare ancora posizioni di potere e di rendita, al di là delle proprie capacità e dei propri meriti.

L’ultimo capitolo è dedicato alla parsimonia responsabile di Luigi Einaudi, ricordando il suo offrire “mezza mela” all’ospite di un pranzo essenziale. E alla preoccupazione dei genitori degli anni Cinquanta e Sessanta di lavorare, risparmiare e investire per un futuro migliore dei loro figli. “Vivere – nota de Bortoli – non è mai stato facile. E non lo sarà nemmeno in futuro. Il benessere non è un diritto. A volte ci comportiamo come se lo fosse. Il benessere di cittadinanza non c’è, purtroppo. I sacrifici sono ancora più necessari, oggi. Ma nessuno ne parla. Non dobbiamo aspettarci nulla dallo Stato se non lo sorreggeremo con tasse eque e un maggiore senso civico”. Ecco, appunto, cosa dovremmo dirci con chiarezza e insistenza: servono civismo, senso di comunità, responsabilità. C’è una parte ampia dell’Italia che interpreta bene queste qualità sociali. E merita attenzione e rispetto.

Buone imprese

Il racconto di “Chicco Cotto”, dall’idea al successo senza dimenticare la cultura del produrre “bene”

Buone imprese ad ogni costo. Con la forza di volontà propria di ogni imprenditore che sia davvero tale. Anche quando ti ridono dietro. Anche quando ti viene detto: “Fallirai”. Imprese a tutto tondo, che badano a chiudere bene il bilancio, e a far profitto e non solamente a suon di soldi. Nella grande complessità dell’economia dell’oggi (e non solo per Covid-19), queste imprese si chiamano imprese sociali e vanno studiate con attenzione. Ad iniziare dall’idea che le sostiene: non essere aziende buoniste, ma aziende capaci di far del bene senza scordare di dover chiudere i conti a posto. Le loro storie servono a tutti. Ed è per questo che conoscere la storia di “Chicco Cotto”, azienda nata a Torino nel cuore della cittadella del Cottolengo, può servire a più di un imprenditore e a molti manager.

La vicenda di “Chicco Cotto” è raccontata da un prete, Andrea Bonsignori (che ha avuto l’idea iniziale), e un giornalista economico, Marco Ferrando. E’ loro il libro “Il coraggio di essere uguali. L’impresa diversamente automatica di Chicco Cotto”. Alla base di tutto un concetto semplice che però pochi riescono a mettere in pratica: “La dignità viene prima della carità”.  Bonsignori ha quindi raccolto un gruppo di professionisti di alto livello e ha creato la “Chicco Cotto”, un’azienda di vending che si è fatta conoscere per la bontà dei suoi prodotti e la “straordinarietà ordinaria” del suo modello organizzativo. Cuore d’impresa sono ragazzi e ragazze con disabilità e disturbi dello spettro autistico: ognuno, sulla base delle sue possibilità psicofisiche, impara tutte le fasi del processo produttivo: approvvigionamenti, rifornimento, manutenzione e rendiconto.

Quando è nata, di “Chicco Cotto” veniva già previsto un sonoro fallimento da parte di molti concorrenti. A dieci anni dalla sua creazione, l’impresa “diversamente automatica” ha visto fallire molti e attirato capitali importanti. Nessun miracolo ma molta capacità manageriale oltre che fiducia nelle possibilità di ogni persona coinvolta. Oggi la “Chicco Cotto” fornisce su scala nazionale scuole, ospedali, biblioteche e grandi aziende.

Tutto, adesso, è raccontato in nove capitoli e poco più di un centinaio di pagine, che si leggono con grande facilità ma che devono essere ben meditate. Della storia, non viene nascosto nulla. Soprattutto non vengono nascosti i problemi da superare, le fermate e le ripartenze, così come la voglia di arrivare. In ogni pagina, quindi, è il racconto di un’impresa sociale che è però anche una società che sta sul mercato e ha il coraggio di essere uguale a tutte le altre. Un’impresa che, tra l’altro, propone un nuovo sistema di formazione e lavoro, un esempio di collaborazione fra scuola e azienda che si sta diffondendo su scala nazionale ed europea.

Alla base sono alcuni punti fermi. Come, per esempio, la capacità di invertire la prospettiva con la quale si guardano le cose, ma anche la forza della pazienza che non è perdere tempo (tanto da far tornare alla mente la potenza dei capitali pazienti oggi tanto invocati), l’efficacia del metodo, l’unicità delle persone viste ognuna a partire da quello che sono e che sanno fare. Lungo le pagine del libro, poi, concetti importanti di gestione d’impresa come quelli della sostenibilità e del breakeven, della meritocrazia e della crescita.  Scritta con attenzione, poi, è la prefazione di Gian Antonio Stella.

Il libro di Bonsignori e Ferrando non è la storia mielosa di una bella avventura, ma il racconto efficace di qualcosa di concreto: un perfetto manuale di cultura d’impresa.

Il coraggio di essere uguali. L’impresa diversamente automatica di Chicco Cotto

Andrea Bonsignori, Marco Ferrando

Edizioni Terra Santa, 2020

Il racconto di “Chicco Cotto”, dall’idea al successo senza dimenticare la cultura del produrre “bene”

Buone imprese ad ogni costo. Con la forza di volontà propria di ogni imprenditore che sia davvero tale. Anche quando ti ridono dietro. Anche quando ti viene detto: “Fallirai”. Imprese a tutto tondo, che badano a chiudere bene il bilancio, e a far profitto e non solamente a suon di soldi. Nella grande complessità dell’economia dell’oggi (e non solo per Covid-19), queste imprese si chiamano imprese sociali e vanno studiate con attenzione. Ad iniziare dall’idea che le sostiene: non essere aziende buoniste, ma aziende capaci di far del bene senza scordare di dover chiudere i conti a posto. Le loro storie servono a tutti. Ed è per questo che conoscere la storia di “Chicco Cotto”, azienda nata a Torino nel cuore della cittadella del Cottolengo, può servire a più di un imprenditore e a molti manager.

La vicenda di “Chicco Cotto” è raccontata da un prete, Andrea Bonsignori (che ha avuto l’idea iniziale), e un giornalista economico, Marco Ferrando. E’ loro il libro “Il coraggio di essere uguali. L’impresa diversamente automatica di Chicco Cotto”. Alla base di tutto un concetto semplice che però pochi riescono a mettere in pratica: “La dignità viene prima della carità”.  Bonsignori ha quindi raccolto un gruppo di professionisti di alto livello e ha creato la “Chicco Cotto”, un’azienda di vending che si è fatta conoscere per la bontà dei suoi prodotti e la “straordinarietà ordinaria” del suo modello organizzativo. Cuore d’impresa sono ragazzi e ragazze con disabilità e disturbi dello spettro autistico: ognuno, sulla base delle sue possibilità psicofisiche, impara tutte le fasi del processo produttivo: approvvigionamenti, rifornimento, manutenzione e rendiconto.

Quando è nata, di “Chicco Cotto” veniva già previsto un sonoro fallimento da parte di molti concorrenti. A dieci anni dalla sua creazione, l’impresa “diversamente automatica” ha visto fallire molti e attirato capitali importanti. Nessun miracolo ma molta capacità manageriale oltre che fiducia nelle possibilità di ogni persona coinvolta. Oggi la “Chicco Cotto” fornisce su scala nazionale scuole, ospedali, biblioteche e grandi aziende.

Tutto, adesso, è raccontato in nove capitoli e poco più di un centinaio di pagine, che si leggono con grande facilità ma che devono essere ben meditate. Della storia, non viene nascosto nulla. Soprattutto non vengono nascosti i problemi da superare, le fermate e le ripartenze, così come la voglia di arrivare. In ogni pagina, quindi, è il racconto di un’impresa sociale che è però anche una società che sta sul mercato e ha il coraggio di essere uguale a tutte le altre. Un’impresa che, tra l’altro, propone un nuovo sistema di formazione e lavoro, un esempio di collaborazione fra scuola e azienda che si sta diffondendo su scala nazionale ed europea.

Alla base sono alcuni punti fermi. Come, per esempio, la capacità di invertire la prospettiva con la quale si guardano le cose, ma anche la forza della pazienza che non è perdere tempo (tanto da far tornare alla mente la potenza dei capitali pazienti oggi tanto invocati), l’efficacia del metodo, l’unicità delle persone viste ognuna a partire da quello che sono e che sanno fare. Lungo le pagine del libro, poi, concetti importanti di gestione d’impresa come quelli della sostenibilità e del breakeven, della meritocrazia e della crescita.  Scritta con attenzione, poi, è la prefazione di Gian Antonio Stella.

Il libro di Bonsignori e Ferrando non è la storia mielosa di una bella avventura, ma il racconto efficace di qualcosa di concreto: un perfetto manuale di cultura d’impresa.

Il coraggio di essere uguali. L’impresa diversamente automatica di Chicco Cotto

Andrea Bonsignori, Marco Ferrando

Edizioni Terra Santa, 2020

I Natali degli anni passati
Un “racconto d’inverno” in Fondazione Pirelli

Nel dicembre 2014 la Fondazione Pirelli si è vestita di bianco per raccontare una “storia d’inverno”, tra arte, ricerca e tecnologia. Nella mostra abbiamo ripercorso l’evoluzione dei prodotti Winter, attraverso l’interpretazione che ne hanno dato grandi pittori, designer e fotografi nelle più famose campagne pubblicitarie dell’azienda. Il primo pneumatico Pirelli invernale, l’Artiglio, compare nel listino prezzi dell’aprile 1932 come alternativa al disegno battistrada “Normale” per i pneumatici cord. Un battistrada “per neve, gelo, strade bagnate”, in grado di produrre un effetto “ingranaggio” nelle condizioni stradali più avverse. Nel 1951 viene studiato e commercializzato il nuovo disegno battistrada Inverno, seguito nel 1957 dalla versione Nuovo Inverno: l’olandese Bob Noorda ne disegna le pubblicità, ispirandosi ai segni che lasciano gli sci sulla neve, o alle geometrie dei cristalli di neve, o al profilo stilizzato di un abete. E ancora: Riccardo Manzi, Alessandro Mendini, Ilio Negri e Giulio Confalonieri sono chiamati da Pirelli a comunicare tutta la gamma di prodotti che l’azienda ha studiato per la stagione invernale. Per il lancio del primo pneumatico a battistrada separato, il BS, Ermanno Scopinich immortala un gruppo di pattinatrici allo Stadio del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo in un servizio fotografico e un film pubblicitario per la tv. Il concetto di battistrada separato trova fortuna nei rally, sul finire degli anni Sessanta, ed è proprio da queste competizioni che arriva lo spunto per un nuovo balzo tecnologico nell’ambito dei pneumatici invernali: il Cinturato MS35 Rally, che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter. Un patrimonio di sapere tecnologico, complessi segni grafici, calcoli, tabelle, disegni tecnici che, insieme alle campagne pubblicitarie internazionali, sono stati “messi in mostra” nella stagione più fredda dell’anno.

Nel dicembre 2014 la Fondazione Pirelli si è vestita di bianco per raccontare una “storia d’inverno”, tra arte, ricerca e tecnologia. Nella mostra abbiamo ripercorso l’evoluzione dei prodotti Winter, attraverso l’interpretazione che ne hanno dato grandi pittori, designer e fotografi nelle più famose campagne pubblicitarie dell’azienda. Il primo pneumatico Pirelli invernale, l’Artiglio, compare nel listino prezzi dell’aprile 1932 come alternativa al disegno battistrada “Normale” per i pneumatici cord. Un battistrada “per neve, gelo, strade bagnate”, in grado di produrre un effetto “ingranaggio” nelle condizioni stradali più avverse. Nel 1951 viene studiato e commercializzato il nuovo disegno battistrada Inverno, seguito nel 1957 dalla versione Nuovo Inverno: l’olandese Bob Noorda ne disegna le pubblicità, ispirandosi ai segni che lasciano gli sci sulla neve, o alle geometrie dei cristalli di neve, o al profilo stilizzato di un abete. E ancora: Riccardo Manzi, Alessandro Mendini, Ilio Negri e Giulio Confalonieri sono chiamati da Pirelli a comunicare tutta la gamma di prodotti che l’azienda ha studiato per la stagione invernale. Per il lancio del primo pneumatico a battistrada separato, il BS, Ermanno Scopinich immortala un gruppo di pattinatrici allo Stadio del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo in un servizio fotografico e un film pubblicitario per la tv. Il concetto di battistrada separato trova fortuna nei rally, sul finire degli anni Sessanta, ed è proprio da queste competizioni che arriva lo spunto per un nuovo balzo tecnologico nell’ambito dei pneumatici invernali: il Cinturato MS35 Rally, che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter. Un patrimonio di sapere tecnologico, complessi segni grafici, calcoli, tabelle, disegni tecnici che, insieme alle campagne pubblicitarie internazionali, sono stati “messi in mostra” nella stagione più fredda dell’anno.

Multimedia

Images

Gli strumenti utili per conoscere la realtà

La statistica raccontata in modo efficace per comprendere meglio cosa accade e agire di conseguenza

 

Conoscere bene per gestire meglio. Il principio non è certo nuovo, ma di questi tempi è in qualche modo tornato all’attenzione di molti. Questione di cronaca e di complessità del divenire. In una situazione di questo genere, è importante riappropriarsi non solo di un sano spiritico critico, ma anche della conoscenza delle tecniche per analizzare la realtà. La statistica è tra queste, ecco perché è utile leggere “L’arte della statistica. Cosa ci insegnano i dati” scritto da David John Spiegelhalter che da decenni si occupa della materia e che attualmente dirige  il Winton Centre for Risk and Evidence Communication dello Statistical Laboratory della Cambridge University.

Spiegelhalter affronta la statistica non solo e non tanto dal punto di vista teorico, ma soprattutto da quello pratica e operativo. L’assunto di partenza del suo libro – circa 300 pagine non sempre facile da leggere ma comunque accessibili -, è uno solo: nell’era in cui i big data si affermano come disciplina fondamentale del mondo dell’economia, della finanza e in tutti gli aspetti della vita politica e sociale, essere consapevoli delle basi della statistica è piú importante che mai.

L’autore guida quindi il lettore attraverso i principî essenziali di un universo fondamentale, partendo da casi particolari della vita di tutti i giorni per introdurre ai concetti generali. Dopo una chiara introduzione al tema, Spiegelhalter passa in rassegna tutti gli aspetti fondamentali della statistica: dalla regressione alle previsioni, dalle stime  alla probabilità, per arrivare al complesso passaggio della comunicazione dei risultati di una indagine statistica.

Spiegelhalter fornisce, in altri termini, una vera “cassetta degli attrezzi” per mettere le mani in una materia certamente utile ma sicuramente non facile da affrontare.

Per tutti, passaggi importanti del libro sono quelli relativi all’insistenza sulla “alfabetizzazione ai dati” e cioè sulla capacità di porre attenzione alle fonti, alla qualità dei dati e all’interpretazione che ne può derivare. Utile è anche lo schema PPDAC che costituisce un percorso corretto per affrontare molti problemi e non solo strettamente statistici. Un glossario finale arricchisce tutto il libro.

L’arte della statistica. Cosa ci insegnano i dati

David John Spiegelhalter

Einaudi, 2020

La statistica raccontata in modo efficace per comprendere meglio cosa accade e agire di conseguenza

 

Conoscere bene per gestire meglio. Il principio non è certo nuovo, ma di questi tempi è in qualche modo tornato all’attenzione di molti. Questione di cronaca e di complessità del divenire. In una situazione di questo genere, è importante riappropriarsi non solo di un sano spiritico critico, ma anche della conoscenza delle tecniche per analizzare la realtà. La statistica è tra queste, ecco perché è utile leggere “L’arte della statistica. Cosa ci insegnano i dati” scritto da David John Spiegelhalter che da decenni si occupa della materia e che attualmente dirige  il Winton Centre for Risk and Evidence Communication dello Statistical Laboratory della Cambridge University.

Spiegelhalter affronta la statistica non solo e non tanto dal punto di vista teorico, ma soprattutto da quello pratica e operativo. L’assunto di partenza del suo libro – circa 300 pagine non sempre facile da leggere ma comunque accessibili -, è uno solo: nell’era in cui i big data si affermano come disciplina fondamentale del mondo dell’economia, della finanza e in tutti gli aspetti della vita politica e sociale, essere consapevoli delle basi della statistica è piú importante che mai.

L’autore guida quindi il lettore attraverso i principî essenziali di un universo fondamentale, partendo da casi particolari della vita di tutti i giorni per introdurre ai concetti generali. Dopo una chiara introduzione al tema, Spiegelhalter passa in rassegna tutti gli aspetti fondamentali della statistica: dalla regressione alle previsioni, dalle stime  alla probabilità, per arrivare al complesso passaggio della comunicazione dei risultati di una indagine statistica.

Spiegelhalter fornisce, in altri termini, una vera “cassetta degli attrezzi” per mettere le mani in una materia certamente utile ma sicuramente non facile da affrontare.

Per tutti, passaggi importanti del libro sono quelli relativi all’insistenza sulla “alfabetizzazione ai dati” e cioè sulla capacità di porre attenzione alle fonti, alla qualità dei dati e all’interpretazione che ne può derivare. Utile è anche lo schema PPDAC che costituisce un percorso corretto per affrontare molti problemi e non solo strettamente statistici. Un glossario finale arricchisce tutto il libro.

L’arte della statistica. Cosa ci insegnano i dati

David John Spiegelhalter

Einaudi, 2020

Misurare con attenzione per crescere meglio

Quanto sta avvenendo deve essere osservato accuratamente per individuare la strada per la ripresa e lo sviluppo sostenibile

  

Agire positivamente di fronte alle crisi. Obiettivo di non poco conto. Soprattutto di fronte a situazione “al limite” come quella generata dalla attuale pandemia di Covid-19. Luciano Marchi nel suo “Dalla crisi allo sviluppo sostenibile. Il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo” apparso su uno degli ultimi numeri di Management Control, ha un obiettivo: fornire una serie di indicazioni utili per interpretare l’impatto economico dell’attuale crisi pandemica (e crisi simili che potrebbero sorgere in futuro) e le condizioni per ricreare lo sviluppo sostenibile. Trasformare, in altri termini, una situazione di assoluto svantaggio in una che getti le basi per una ripresa dello sviluppo.

Marchi ragiona partendo da una constatazione: occorre passare dalla valutazione della crisi alla generazione di valore economico e sostenibilità, richiede un nuovo approccio di corporate governance per interagire con il contesto sociale e ambientale, integrando la gestione del rischio e la gestione delle prestazioni di ogni organizzazione della produzione. Occorre, cioè, agire tutti e in modo coordinato e nella stessa direzione.

Oltre a tutto questo, Marchi aggiunge che la sostenibilità della crescita può essere rafforzata adottando una nuova teoria del valore creato per tutti i portatori di interessi, inclusi fornitori, clienti, dipendenti, territorio e comunità sociale, ma anche per l’ambiente e per l’azienda stessa. Che, sintetizzato, significa garanzia di giuste ed equilibrate remunerazioni, oltre che un equilibrio per le imprese.

Ma il ragionamento contenuto nell’intervento di Marchi non si ferma qui. Per garantire un equilibrio economico a lungo termine insieme alla sostenibilità sociale, ambientale e aziendale – viene infatti affermato -, il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo è fondamentale. Grande attenzione quindi va data ai sistemi integrati di contabilità e bilancio, ad una lettura “sistemica” degli indicatori piuttosto che ad un analisi troppo puntuale degli stessi,  ad una adeguata remunerazione dei fattori produttivi nella rete di fornitura per accrescere il valore creato internamente nella rete, e, infine, ad una “cultura della sostenibilità” che deve essere diffusa e applicata nei sistemi di pianificazione, controllo e incentivazione del personale (integrando indicatori finanziari con indicatori di sostenibilità) e non solo nei sistemi di rendicontazione per l’esterno.

Il contributo di Luciani Marchi al dibattito su cosa da qui in avanti si debbano aspettare i sistemi sociale ed economici, è da leggere con attenzione.

Dalla crisi allo sviluppo sostenibile. Il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo

Luciano Marchi

Franco Angeli, Management Control, 2020, fascicolo 3

Quanto sta avvenendo deve essere osservato accuratamente per individuare la strada per la ripresa e lo sviluppo sostenibile

  

Agire positivamente di fronte alle crisi. Obiettivo di non poco conto. Soprattutto di fronte a situazione “al limite” come quella generata dalla attuale pandemia di Covid-19. Luciano Marchi nel suo “Dalla crisi allo sviluppo sostenibile. Il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo” apparso su uno degli ultimi numeri di Management Control, ha un obiettivo: fornire una serie di indicazioni utili per interpretare l’impatto economico dell’attuale crisi pandemica (e crisi simili che potrebbero sorgere in futuro) e le condizioni per ricreare lo sviluppo sostenibile. Trasformare, in altri termini, una situazione di assoluto svantaggio in una che getti le basi per una ripresa dello sviluppo.

Marchi ragiona partendo da una constatazione: occorre passare dalla valutazione della crisi alla generazione di valore economico e sostenibilità, richiede un nuovo approccio di corporate governance per interagire con il contesto sociale e ambientale, integrando la gestione del rischio e la gestione delle prestazioni di ogni organizzazione della produzione. Occorre, cioè, agire tutti e in modo coordinato e nella stessa direzione.

Oltre a tutto questo, Marchi aggiunge che la sostenibilità della crescita può essere rafforzata adottando una nuova teoria del valore creato per tutti i portatori di interessi, inclusi fornitori, clienti, dipendenti, territorio e comunità sociale, ma anche per l’ambiente e per l’azienda stessa. Che, sintetizzato, significa garanzia di giuste ed equilibrate remunerazioni, oltre che un equilibrio per le imprese.

Ma il ragionamento contenuto nell’intervento di Marchi non si ferma qui. Per garantire un equilibrio economico a lungo termine insieme alla sostenibilità sociale, ambientale e aziendale – viene infatti affermato -, il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo è fondamentale. Grande attenzione quindi va data ai sistemi integrati di contabilità e bilancio, ad una lettura “sistemica” degli indicatori piuttosto che ad un analisi troppo puntuale degli stessi,  ad una adeguata remunerazione dei fattori produttivi nella rete di fornitura per accrescere il valore creato internamente nella rete, e, infine, ad una “cultura della sostenibilità” che deve essere diffusa e applicata nei sistemi di pianificazione, controllo e incentivazione del personale (integrando indicatori finanziari con indicatori di sostenibilità) e non solo nei sistemi di rendicontazione per l’esterno.

Il contributo di Luciani Marchi al dibattito su cosa da qui in avanti si debbano aspettare i sistemi sociale ed economici, è da leggere con attenzione.

Dalla crisi allo sviluppo sostenibile. Il ruolo dei sistemi di misurazione e controllo

Luciano Marchi

Franco Angeli, Management Control, 2020, fascicolo 3

Gli interessi mafiosi per approfittare dell’emergenza Covid, comprare imprese in crisi e fare affari ai danni della salute

500 miliardi di euro. Ecco un dato impressionante che rivela il clamoroso peso economico di ‘ndrangheta, camorra e “cosa nostra” siciliana. 500 miliardi d’origine criminale “ripuliti” e rigirati attraverso i traffici di un imprenditore calabrese in un’infinità di investimenti in mezzo mondo. Il dato emerge dall’indagine della Dda (la Direzione distrettuale antimafia) di Reggio Calabria su Roberto Recordare, affarista di Palmi, robusti legami con le ‘ndrine locali e relazioni internazionali soprattutto nei paradisi bancari e fiscali (“La Stampa”, 28 novembre). E la leva operativa è una società di software e di servizi informatici basata a Malta e dal nome esemplare, Golem (il mitologico gigante d’argilla senz’anima né intelligenza ma con una forza smisurata, obbediente agli ordini del suo padrone).

Sono tanti, 500 miliardi. Il 30 per cento del Pil, il prodotto lordo italiano annuo. O anche più del doppio delle somme messe a disposizione per l’Italia dal Recovery Fund della Ue, il piano che in cinque anni dovrebbe portarci fuori dalla crisi del Covid e dalla recessione. O, per fare l’ultimo paragone, l’equivalente, più o meno, della capitalizzazione (cioè del valore delle azioni) delle prime 25 società quotate alla Borsa di Milano (Enel, Eni, Banca intesa, Fca, Poste, etc.).

I paragoni sono, naturalmente, un’approssimazione scientificamente non rigorosa. Ma servono, comunque, per dare ai lettori l’idea di una terribile, drammatica forza economica che le mafie continuano ad accumulare grazie alle loro attività illegali (droga, traffici di esseri umani, armi, riciclaggio di rifiuti inquinanti, scommesse clandestine, speculazioni su appalti e servizi pubblici, etc.) e i cui proventi reinvestono anche in attività apparentemente lecite, stravolgendo i mercati, gli affari legali, le attività delle imprese regolari, il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. In sintesi: 500 miliardi di ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana per danneggiare la nostra vita e il nostro lavoro, l’ambiente in cui viviamo, la salute, il futuro dei nostri figli. Ricchezza abnorme di mafia per morire di mafia.

Le indagini (ricche di intercettazioni da cui risultato dati, schemi di investimento, collaborazioni ma anche minacce e una risata di scherno per Caruana Galizia, la giornalista maltese assassinata mentre indagava sugli affari dei clan mafiosi a Malta) diranno nel tempo come funzionava esattamente il giro criminale di Recordare e dei suoi complici. E forse il lavoro dei magistrati e degli inquirenti consentirà di sequestrare e confiscare parte di quel patrimonio fondato su affari illeciti.

Quei 500 miliardi di cui si parla sono calcolati su una serie di operazioni dagli anni Ottanta del Novecento a oggi. E sono solo una parte di quella che gli studiosi chiamano “Mafia Spa”, un mostro economico con ricavi che la Commissione antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu (dal 2008 al 2013) valutava in 150 miliardi all’anno e con un valore complessivo di 1.700 miliardi. Stime, naturalmente, visto che nessuno è in grado di fare esattamente i conti in tasca ai boss criminali. Ma, probabilmente, stime per difetto. Di sicuro, valori abnormi. Una minaccia incombente, per l’economia e la stessa tenuta della società e della democrazia, di cui non c’è, purtroppo, un’esatta percezione di rischio da parte dell’opinione pubblica e del mondo politico.

Quel dato, i 500 miliardi di Recordare, dobbiamo ben tenerlo a mente proprio adesso che la magistratura e la Dna (la Direzione nazionale antimafia) lanciano un nuovo allarme: le cosche calabresi, siciliane e campane si stanno muovendo per approfittare della crisi Covid, mettere le mani su migliaia di imprese in difficoltà e cercare di lucrare anche sui finanziamenti pubblici nazionali e della Ue.

Le organizzazioni criminali, sostiene la Dna, nella relazione 2019 ampliata sino al settembre 2020, “hanno saputo cogliere il carattere dell’estrema urgenza nella tutela della salute pubblica, subentrando, anche attraverso la precostituzione di reticolate schermature societarie, nelle procedute pubbliche dirette all’affidamento delle forniture di beni e servizi, anche in deroga alle norme previste dal Codice degli appalti” (“Il Sole24Ore”, 27 novembre).

La ‘ndrangheta ha fatto da anni esperienza in iniziative speculative ai danni della sanità calabrese, oramai un clamoroso esempio di dissesto, tra alti costi e bassa qualità dei servizi (e finalmente il governo, dopo indecisioni ed errori che hanno sfiorato il ridicolo, ha nominato come commissario alla sanità in Calabria Guido Longo, ex questore ed ex prefetto, una vita professionale spesa a combattere le organizzazioni mafiose calabresi e siciliane). Poi si è allargata in Lombardia e in altre regioni del Nord, avendo proprio i servizi e le forniture sanitarie (accanto al traffico illecito dei rifiuti) come nuovo ambito preferito di investimenti e di affari carichi di ombre. La crisi Covid e le necessarie procedure d’urgenza d’intervento sono, per i criminali mafiosi, condizioni favorevoli di espansione. Ed è dunque necessario tenere alta la guardia sulle presenze dei clan, per evitare che, inquinando appalti e servizi, facciano gravissimi danni alla salute e all’economia.

C’è un secondo aspetto, che rivela la pericolosità eversiva delle attività della ‘ndrangheta e delle altre consorterie mafiose: la razzia di imprese in difficoltà. Con intermediari che si presentano con i soldi in mano per acquisire partecipazioni di aziende in crisi, soprattutto nel settore terziario commerciale (ristoranti, bar, alberghi). Lo rivela una ricerca su “La criminalità ai tempi del Covid”, condotta dalla Camera di Commercio di Milano, Lodi, Monza e Brianza, che mostra come, rispetto al giugno scorso, siano raddoppiate le “proposte irrituali”, cioè quelle di aiuto economico per rastrellare imprese con offerte equivalenti a una parte molto bassa del valore dell’impresa. La crisi di liquidità e, spesso, le difficoltà nei rapporti con le banche e con le strutture che erogano i finanziamenti pubblici lasciano molto imprenditori, in solitudine, esposti alle pressioni di aiuto mafioso.

Il fenomeno è da tempo all’attenzione della Procura antimafia milanese guidata con grande efficacia da Alessandra Dolci: “E’ importante denunciare. Ma finora questo continua a non avvenire, mentre abbiamo diversi esempi di acquiescenza, cioè di figure dell’economia legale che si sono messe a disposizione delle organizzazioni criminali” (“Corriere della Sera”, 27 novembre).

Di questi rischi, sono perfettamente consapevoli le organizzazioni imprenditoriali, che insistono oramai da anni sulle campagne di sensibilizzazione degli imprenditori sui rischi della presenza mafiosa nell’economia e sulla necessità di un chiaro e collettivo impegno antimafia. “La cultura d’impresa è la responsabilità per la legalità. È stare in prima linea nell’azione contro la mafia, che ha ancora oggi un’allarmante attualità. Su questo tema dobbiamo rafforzare il nostro impegno, con tutti gli attori sociali ed economici che hanno a cuore la libertà. E con una vera regia europea, perché la mafia oggi non conosce confini”, ha detto, con molta chiarezza, Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, all’assemblea dell’associazione, a metà ottobre. E nuove iniziative si preparano.

500 miliardi di euro. Ecco un dato impressionante che rivela il clamoroso peso economico di ‘ndrangheta, camorra e “cosa nostra” siciliana. 500 miliardi d’origine criminale “ripuliti” e rigirati attraverso i traffici di un imprenditore calabrese in un’infinità di investimenti in mezzo mondo. Il dato emerge dall’indagine della Dda (la Direzione distrettuale antimafia) di Reggio Calabria su Roberto Recordare, affarista di Palmi, robusti legami con le ‘ndrine locali e relazioni internazionali soprattutto nei paradisi bancari e fiscali (“La Stampa”, 28 novembre). E la leva operativa è una società di software e di servizi informatici basata a Malta e dal nome esemplare, Golem (il mitologico gigante d’argilla senz’anima né intelligenza ma con una forza smisurata, obbediente agli ordini del suo padrone).

Sono tanti, 500 miliardi. Il 30 per cento del Pil, il prodotto lordo italiano annuo. O anche più del doppio delle somme messe a disposizione per l’Italia dal Recovery Fund della Ue, il piano che in cinque anni dovrebbe portarci fuori dalla crisi del Covid e dalla recessione. O, per fare l’ultimo paragone, l’equivalente, più o meno, della capitalizzazione (cioè del valore delle azioni) delle prime 25 società quotate alla Borsa di Milano (Enel, Eni, Banca intesa, Fca, Poste, etc.).

I paragoni sono, naturalmente, un’approssimazione scientificamente non rigorosa. Ma servono, comunque, per dare ai lettori l’idea di una terribile, drammatica forza economica che le mafie continuano ad accumulare grazie alle loro attività illegali (droga, traffici di esseri umani, armi, riciclaggio di rifiuti inquinanti, scommesse clandestine, speculazioni su appalti e servizi pubblici, etc.) e i cui proventi reinvestono anche in attività apparentemente lecite, stravolgendo i mercati, gli affari legali, le attività delle imprese regolari, il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. In sintesi: 500 miliardi di ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana per danneggiare la nostra vita e il nostro lavoro, l’ambiente in cui viviamo, la salute, il futuro dei nostri figli. Ricchezza abnorme di mafia per morire di mafia.

Le indagini (ricche di intercettazioni da cui risultato dati, schemi di investimento, collaborazioni ma anche minacce e una risata di scherno per Caruana Galizia, la giornalista maltese assassinata mentre indagava sugli affari dei clan mafiosi a Malta) diranno nel tempo come funzionava esattamente il giro criminale di Recordare e dei suoi complici. E forse il lavoro dei magistrati e degli inquirenti consentirà di sequestrare e confiscare parte di quel patrimonio fondato su affari illeciti.

Quei 500 miliardi di cui si parla sono calcolati su una serie di operazioni dagli anni Ottanta del Novecento a oggi. E sono solo una parte di quella che gli studiosi chiamano “Mafia Spa”, un mostro economico con ricavi che la Commissione antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu (dal 2008 al 2013) valutava in 150 miliardi all’anno e con un valore complessivo di 1.700 miliardi. Stime, naturalmente, visto che nessuno è in grado di fare esattamente i conti in tasca ai boss criminali. Ma, probabilmente, stime per difetto. Di sicuro, valori abnormi. Una minaccia incombente, per l’economia e la stessa tenuta della società e della democrazia, di cui non c’è, purtroppo, un’esatta percezione di rischio da parte dell’opinione pubblica e del mondo politico.

Quel dato, i 500 miliardi di Recordare, dobbiamo ben tenerlo a mente proprio adesso che la magistratura e la Dna (la Direzione nazionale antimafia) lanciano un nuovo allarme: le cosche calabresi, siciliane e campane si stanno muovendo per approfittare della crisi Covid, mettere le mani su migliaia di imprese in difficoltà e cercare di lucrare anche sui finanziamenti pubblici nazionali e della Ue.

Le organizzazioni criminali, sostiene la Dna, nella relazione 2019 ampliata sino al settembre 2020, “hanno saputo cogliere il carattere dell’estrema urgenza nella tutela della salute pubblica, subentrando, anche attraverso la precostituzione di reticolate schermature societarie, nelle procedute pubbliche dirette all’affidamento delle forniture di beni e servizi, anche in deroga alle norme previste dal Codice degli appalti” (“Il Sole24Ore”, 27 novembre).

La ‘ndrangheta ha fatto da anni esperienza in iniziative speculative ai danni della sanità calabrese, oramai un clamoroso esempio di dissesto, tra alti costi e bassa qualità dei servizi (e finalmente il governo, dopo indecisioni ed errori che hanno sfiorato il ridicolo, ha nominato come commissario alla sanità in Calabria Guido Longo, ex questore ed ex prefetto, una vita professionale spesa a combattere le organizzazioni mafiose calabresi e siciliane). Poi si è allargata in Lombardia e in altre regioni del Nord, avendo proprio i servizi e le forniture sanitarie (accanto al traffico illecito dei rifiuti) come nuovo ambito preferito di investimenti e di affari carichi di ombre. La crisi Covid e le necessarie procedure d’urgenza d’intervento sono, per i criminali mafiosi, condizioni favorevoli di espansione. Ed è dunque necessario tenere alta la guardia sulle presenze dei clan, per evitare che, inquinando appalti e servizi, facciano gravissimi danni alla salute e all’economia.

C’è un secondo aspetto, che rivela la pericolosità eversiva delle attività della ‘ndrangheta e delle altre consorterie mafiose: la razzia di imprese in difficoltà. Con intermediari che si presentano con i soldi in mano per acquisire partecipazioni di aziende in crisi, soprattutto nel settore terziario commerciale (ristoranti, bar, alberghi). Lo rivela una ricerca su “La criminalità ai tempi del Covid”, condotta dalla Camera di Commercio di Milano, Lodi, Monza e Brianza, che mostra come, rispetto al giugno scorso, siano raddoppiate le “proposte irrituali”, cioè quelle di aiuto economico per rastrellare imprese con offerte equivalenti a una parte molto bassa del valore dell’impresa. La crisi di liquidità e, spesso, le difficoltà nei rapporti con le banche e con le strutture che erogano i finanziamenti pubblici lasciano molto imprenditori, in solitudine, esposti alle pressioni di aiuto mafioso.

Il fenomeno è da tempo all’attenzione della Procura antimafia milanese guidata con grande efficacia da Alessandra Dolci: “E’ importante denunciare. Ma finora questo continua a non avvenire, mentre abbiamo diversi esempi di acquiescenza, cioè di figure dell’economia legale che si sono messe a disposizione delle organizzazioni criminali” (“Corriere della Sera”, 27 novembre).

Di questi rischi, sono perfettamente consapevoli le organizzazioni imprenditoriali, che insistono oramai da anni sulle campagne di sensibilizzazione degli imprenditori sui rischi della presenza mafiosa nell’economia e sulla necessità di un chiaro e collettivo impegno antimafia. “La cultura d’impresa è la responsabilità per la legalità. È stare in prima linea nell’azione contro la mafia, che ha ancora oggi un’allarmante attualità. Su questo tema dobbiamo rafforzare il nostro impegno, con tutti gli attori sociali ed economici che hanno a cuore la libertà. E con una vera regia europea, perché la mafia oggi non conosce confini”, ha detto, con molta chiarezza, Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, all’assemblea dell’associazione, a metà ottobre. E nuove iniziative si preparano.

Pirelli e Lancia,
tra eleganza e velocità

Il 27 novembre del 1906, il pilota e imprenditore Vincenzo Lancia realizza a Torino il sogno di avere una casa automobilistica tutta sua. E con quelle vetture continuare a correre e vincere, portando bellezza ed eleganza nel mondo dell’auto. La collaborazione tra Pirelli e Lancia ha avuto i suoi punti più alti non solo nel campo delle competizioni, ma anche sul versante dei modelli di serie. Su tutte la Lancia Aurelia, del 1950, che Pirelli equipaggia con il suo Cinturato per la versione B20 coupé Gran Turismo: una combinazione perfetta tra le prestazioni del sei cilindri Lancia e la tenuta di strada del radiale Pirelli.

Anche la collaborazione sul progetto Aurelia si mantiene sempre agli alti livelli delle versioni sportive della vettura, in particolare quando vengono lanciate sul mercato le Aurelia da 2.3 litri di cilindrata: ormai a un passo dalle competizioni. A metà degli anni Cinquanta non c’è corsa su strada, tra Targa Florio e Mille Miglia, che non veda protagonista un’Aurelia equipaggiata Cinturato Pirelli. L’Aurelia è stata anche una macchina amatissima dai carrozzieri, Pininfarina in testa, grazie alle sue linee pulite e razionali, e il disegno  dei suoi pneumatici è un elemento che si accorda perfettamente con le caratteristiche estetiche della vettura. L’Aurelia “stradale” viene poi sostituita dalla Flaminia nel1957.

Una macchina di grande classe, vera e propria “auto di rappresentanza” – tanto da essere la vettura ufficiale del Presidente della Repubblica – la Lancia Flaminia richiede lo sviluppo di una nuova misura 175×400 del Cinturato ed è anche uno dei modelli per i quali i gommisti dell’epoca raccomandano di scegliere l’esclusivo  Cinturato in versione fianco bianco. Intanto l’Aurelia sportiva entra nel mondo delle corse: un percorso -sempre accompagnata da Pirelli, che via via porterà ai successi di Alberto Ascari e Piero Taruffi con le “barchette” D24 fino allo sbarco in Formula 1 nel 1954.

Dura altri trent’anni il sodalizio sportivo tra Lancia e Pirelli: a fine anni Sessanta la nuova disciplina automobilistica chiamata “rally” vede affermarsi la Lancia Fulvia HF, che Pirelli equipaggia con il suo CN36. E poi arriva la Lancia  Stratos di Sandro Munari, che richiede lo sviluppo del nuovissimo Pirelli P7. E poi ancora le versioni da competizione della Lancia Beta: la Montecarlo per il turismo e a seguire la 037 per i rally. Fino alla generazione delle Lancia Delta, coetanee del P Zero che ancora oggi rappresenta il vertice delle prestazioni Pirelli.

Il 27 novembre del 1906, il pilota e imprenditore Vincenzo Lancia realizza a Torino il sogno di avere una casa automobilistica tutta sua. E con quelle vetture continuare a correre e vincere, portando bellezza ed eleganza nel mondo dell’auto. La collaborazione tra Pirelli e Lancia ha avuto i suoi punti più alti non solo nel campo delle competizioni, ma anche sul versante dei modelli di serie. Su tutte la Lancia Aurelia, del 1950, che Pirelli equipaggia con il suo Cinturato per la versione B20 coupé Gran Turismo: una combinazione perfetta tra le prestazioni del sei cilindri Lancia e la tenuta di strada del radiale Pirelli.

Anche la collaborazione sul progetto Aurelia si mantiene sempre agli alti livelli delle versioni sportive della vettura, in particolare quando vengono lanciate sul mercato le Aurelia da 2.3 litri di cilindrata: ormai a un passo dalle competizioni. A metà degli anni Cinquanta non c’è corsa su strada, tra Targa Florio e Mille Miglia, che non veda protagonista un’Aurelia equipaggiata Cinturato Pirelli. L’Aurelia è stata anche una macchina amatissima dai carrozzieri, Pininfarina in testa, grazie alle sue linee pulite e razionali, e il disegno  dei suoi pneumatici è un elemento che si accorda perfettamente con le caratteristiche estetiche della vettura. L’Aurelia “stradale” viene poi sostituita dalla Flaminia nel1957.

Una macchina di grande classe, vera e propria “auto di rappresentanza” – tanto da essere la vettura ufficiale del Presidente della Repubblica – la Lancia Flaminia richiede lo sviluppo di una nuova misura 175×400 del Cinturato ed è anche uno dei modelli per i quali i gommisti dell’epoca raccomandano di scegliere l’esclusivo  Cinturato in versione fianco bianco. Intanto l’Aurelia sportiva entra nel mondo delle corse: un percorso -sempre accompagnata da Pirelli, che via via porterà ai successi di Alberto Ascari e Piero Taruffi con le “barchette” D24 fino allo sbarco in Formula 1 nel 1954.

Dura altri trent’anni il sodalizio sportivo tra Lancia e Pirelli: a fine anni Sessanta la nuova disciplina automobilistica chiamata “rally” vede affermarsi la Lancia Fulvia HF, che Pirelli equipaggia con il suo CN36. E poi arriva la Lancia  Stratos di Sandro Munari, che richiede lo sviluppo del nuovissimo Pirelli P7. E poi ancora le versioni da competizione della Lancia Beta: la Montecarlo per il turismo e a seguire la 037 per i rally. Fino alla generazione delle Lancia Delta, coetanee del P Zero che ancora oggi rappresenta il vertice delle prestazioni Pirelli.

Multimedia

Images

La sfida del Recovery Plan, per avviare lo sviluppo e rifare i conti con produttività e debito pubblico

Ecco un racconto attuale dell’Italia condensato in quattro numeri. Il primo numero è una percentuale, -10%, che indica la crescita negativa del Pil, il prodotto interno lordo, prevista per quest’anno (una media tra il -9% previsto dal governo, il -9.9% calcolato dalla Commissione Ue e il -10,6% indicato dal Fondo Monetario Internazionale). Il secondo è 209 miliardi, ovvero l’insieme della risorse che il nostro Paese potrebbe investire usando bene i fondi del Recovery Plan dell’Unione Europea. Il terzo numero è, di nuovo, una percentuale: 155,7% , e cioè il rapporto tra debito pubblico e Pil, raggiunto, secondo il governo, per recuperare i fondi per le misure utili a fronteggiare le emergenze economiche e sociali, tra pandemia e recessione (era al 135,7% nel 2019). Il quarto numero è -0,5% e cioè il calo della produttività dell’Italia nel 2019, un dato particolarmente grave, perché viene dopo un ventennio di produttività stagnante, mentre quella media degli altri paesi Ue cresce. Si segnala, ancora una volta, una pesante debolezza della nostra economia, che la crisi attuale amplifica e aggrava.

Vale la pena tenere guardare insieme questi quattro numeri nel momento in cui si ragiona sulle scelte necessarie per uscire dalla crisi e sulle riforme indispensabili da avviare per poter parlare di sviluppo e di miglioramento della condizione dei conti pubblici.

Siamo di fronte a una recessione senza precedenti, un po’ in tutto il mondo. In Italia, più pesante che altrove. E allarmante proprio nelle regioni del Nord in cui le dinamiche produttive (tra industria, servizi e turismo) trainavano in buona parte il resto del paese. La risposta non può stare né nell’illusione di tornare al “come eravamo” né nella continuazione all’infinito delle logiche del sussidio. Logiche indispensabili, ma solo nell’emergenza: assicurare reddito alle famiglie e alle persone più in difficoltà ed evitare il tracollo delle imprese. Ma, che a lungo andare, dannose, perché deprimono l’intraprendenza, comprimono le aspettative di miglioramento e abbattono la fiducia.

C’è, semmai, da puntare le risorse disponibili sull’innovazione, sul recupero radicale di produttività e sulle riforme in grado, finalmente, di modernizzare il sistema Paese. Rieccoci, dunque, alla sfida della produttività.

“Produttività, l’Italia scivola sotto zero”, titolava in prima pagina “Il Sole24Ore, pubblicando i dati resi noti dall’Istat ai primi di novembre. Per circa vent’anni, la produttività del Paese è stata vicina allo zero, mentre quella media europea cresceva dell’1,6%. Adesso, nel 2019, si va ancora più giù, calcolando sia la produttività del lavoro (valore aggiunto creato per ora lavorata) con un -0,4%, sia quella del capitale, -0,8%, sia la produttività totale dei fattori, -0,5%. Tra i motivi della stentata crescita del Paese, insomma, c’è il fatto che tutto ciò che facciamo non fa crescere la nostra ricchezza, deprimendo dunque redditi, occupazione, benessere. I dati Istat si fermano al 2019, prima della pandemia da Covid19 e della recessione. E dunque per quel che riguarda questo 2020, avremo una condizione ancora peggiore.

A guardare bene i dati, si scoprono fatti molto interessanti. Per esempio, che la produttività dell’industria è nettamente in crescita, in conseguenza degli investimenti in nuove tecnologie, macchinari, formazione delle persone in linea con la svolta hi tech e digitale. Resta invece molto bassa, tendente a zero o negativa, nel settore terziario, soprattutto nei servizi poco esposti alla concorrenza internazionale e in quelli del commercio minuto e dei servizi alla persona, con imprese molto piccole, poco e male organizzate, sottocapitalizzate e dunque fragili. Bassissima pure la produttività della pubblica amministrazione, che ostacola e deprime gli sforzi e i tentativi di crescita delle imprese migliori.

“La nostra produttività non cresce da vent’anni. Ed è il dato che riassume, impietosamente, tutti i nostri ritardi. Il valore aggiunto aumenta – e con esso salari e stipendi – se ci sono investimenti, tecnologie, innovazione e, soprattutto, un capitale umano meglio preparato”, scrive Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo libro, “Le cose che non ci diciamo”, Garzanti, una analisi lucida e un severo compendio delle scelte da fare e delle riforme indispensabili per rimettere in moto l’Italia ferita.

La ricetta su come uscire dalla crisi, appunto, è nota da tempo, ma purtroppo ancora inapplicata: investimenti massicci in innovazione, conoscenza, ricerca, trasferimento tecnologico. Scuola e formazione, dunque, in primo piano, per un capitale umano in grado di reggere e anzi guidare la sfida dell’innovazione. E poi apertura dei mercati a una maggiore concorrenza, che stimola la crescita. Riforma della pubblica amministrazione, nazionale e locale e delle struture fiscali e giudiziarie (“Per attrarre capitali dall’estero servono riforme, a cominciare dalla giustizia: con processi più veloci potrebbero arrivare fino a 170 miliardi”, nota “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 23 gennaio). E ancora: diffusione di una cultura d’impresa legata alla competizione, al premio al merito, al “bello e ben fatto”. All’innovazione, appunto.

Eccoci, allora, al Recovery Plan. Servono pochi, grandi progetti di investimento dei fondi europei su green economy e digital economy, sostenibilità e innovazione, cioé (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana). Le imprese innovative da fare crescere, il lavoro qualificato da stimolare, la formazione di lungo periodo da provuovere. E le infrastrutture, materiali e immateriali, per la qualità della vita e del lavoro. Pochi grandi progetti, ben costruiti, concordati con i vertici di Bruxelles e definiti negli strumenti, nel tempi, nei controlli di attuazione.

Una straordinaria scommessa politica, sociale, culturale e imprenditoriale, per una ripartenza che abbia il sapore di una vera e propria “rinascita”, un radicale cambio di paradigma segnato dalle scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Non un disperdersi di risorse in mille rivoli, accontentando nel breve periodo corporazioni e clientelke (un taglio dell’Iva di qua, un reddito di cittadinanza di là, un’assunzione di giù, un appalto di su e così via sgovernando). Ma una strategia di crescita, lungimirante, ambiziosa. Coivolgendo le forze sociali. Bem disponibili a una seria assunzione di responsabilità.

La risposta al tema del debito pubblico sta qui. Nella crescita. Senza pensare a improbabili “cancellazioni”. Ma sapendo bene che la Bce vigila ancora, tenendo bassi i tassi e assorbendo parte delle nuove emissioni nelle sua pancia capace e che la Ue potrà ridiscutere i paramenti delle convergenze economiche, ma solo di fronte a economie in ripresa e a conti pubblici in via di riequilibrio.

C’è, insomma, un nesso di lungo periodo tra conti pubblici in ordine e crescita stabile nei suoi fondamenti. Senza visioni ideologiche. Ma con senso di responsabilità. Verso chi? Soprattutto verso i nostri figli e nipoti, cui guardare con generosa intelligenza, visto che il debito è, appunto, sulle loro spalle. Next Generation Eu, dice appunto il Recovery Plan.

Ecco un racconto attuale dell’Italia condensato in quattro numeri. Il primo numero è una percentuale, -10%, che indica la crescita negativa del Pil, il prodotto interno lordo, prevista per quest’anno (una media tra il -9% previsto dal governo, il -9.9% calcolato dalla Commissione Ue e il -10,6% indicato dal Fondo Monetario Internazionale). Il secondo è 209 miliardi, ovvero l’insieme della risorse che il nostro Paese potrebbe investire usando bene i fondi del Recovery Plan dell’Unione Europea. Il terzo numero è, di nuovo, una percentuale: 155,7% , e cioè il rapporto tra debito pubblico e Pil, raggiunto, secondo il governo, per recuperare i fondi per le misure utili a fronteggiare le emergenze economiche e sociali, tra pandemia e recessione (era al 135,7% nel 2019). Il quarto numero è -0,5% e cioè il calo della produttività dell’Italia nel 2019, un dato particolarmente grave, perché viene dopo un ventennio di produttività stagnante, mentre quella media degli altri paesi Ue cresce. Si segnala, ancora una volta, una pesante debolezza della nostra economia, che la crisi attuale amplifica e aggrava.

Vale la pena tenere guardare insieme questi quattro numeri nel momento in cui si ragiona sulle scelte necessarie per uscire dalla crisi e sulle riforme indispensabili da avviare per poter parlare di sviluppo e di miglioramento della condizione dei conti pubblici.

Siamo di fronte a una recessione senza precedenti, un po’ in tutto il mondo. In Italia, più pesante che altrove. E allarmante proprio nelle regioni del Nord in cui le dinamiche produttive (tra industria, servizi e turismo) trainavano in buona parte il resto del paese. La risposta non può stare né nell’illusione di tornare al “come eravamo” né nella continuazione all’infinito delle logiche del sussidio. Logiche indispensabili, ma solo nell’emergenza: assicurare reddito alle famiglie e alle persone più in difficoltà ed evitare il tracollo delle imprese. Ma, che a lungo andare, dannose, perché deprimono l’intraprendenza, comprimono le aspettative di miglioramento e abbattono la fiducia.

C’è, semmai, da puntare le risorse disponibili sull’innovazione, sul recupero radicale di produttività e sulle riforme in grado, finalmente, di modernizzare il sistema Paese. Rieccoci, dunque, alla sfida della produttività.

“Produttività, l’Italia scivola sotto zero”, titolava in prima pagina “Il Sole24Ore, pubblicando i dati resi noti dall’Istat ai primi di novembre. Per circa vent’anni, la produttività del Paese è stata vicina allo zero, mentre quella media europea cresceva dell’1,6%. Adesso, nel 2019, si va ancora più giù, calcolando sia la produttività del lavoro (valore aggiunto creato per ora lavorata) con un -0,4%, sia quella del capitale, -0,8%, sia la produttività totale dei fattori, -0,5%. Tra i motivi della stentata crescita del Paese, insomma, c’è il fatto che tutto ciò che facciamo non fa crescere la nostra ricchezza, deprimendo dunque redditi, occupazione, benessere. I dati Istat si fermano al 2019, prima della pandemia da Covid19 e della recessione. E dunque per quel che riguarda questo 2020, avremo una condizione ancora peggiore.

A guardare bene i dati, si scoprono fatti molto interessanti. Per esempio, che la produttività dell’industria è nettamente in crescita, in conseguenza degli investimenti in nuove tecnologie, macchinari, formazione delle persone in linea con la svolta hi tech e digitale. Resta invece molto bassa, tendente a zero o negativa, nel settore terziario, soprattutto nei servizi poco esposti alla concorrenza internazionale e in quelli del commercio minuto e dei servizi alla persona, con imprese molto piccole, poco e male organizzate, sottocapitalizzate e dunque fragili. Bassissima pure la produttività della pubblica amministrazione, che ostacola e deprime gli sforzi e i tentativi di crescita delle imprese migliori.

“La nostra produttività non cresce da vent’anni. Ed è il dato che riassume, impietosamente, tutti i nostri ritardi. Il valore aggiunto aumenta – e con esso salari e stipendi – se ci sono investimenti, tecnologie, innovazione e, soprattutto, un capitale umano meglio preparato”, scrive Ferruccio de Bortoli nel suo ultimo libro, “Le cose che non ci diciamo”, Garzanti, una analisi lucida e un severo compendio delle scelte da fare e delle riforme indispensabili per rimettere in moto l’Italia ferita.

La ricetta su come uscire dalla crisi, appunto, è nota da tempo, ma purtroppo ancora inapplicata: investimenti massicci in innovazione, conoscenza, ricerca, trasferimento tecnologico. Scuola e formazione, dunque, in primo piano, per un capitale umano in grado di reggere e anzi guidare la sfida dell’innovazione. E poi apertura dei mercati a una maggiore concorrenza, che stimola la crescita. Riforma della pubblica amministrazione, nazionale e locale e delle struture fiscali e giudiziarie (“Per attrarre capitali dall’estero servono riforme, a cominciare dalla giustizia: con processi più veloci potrebbero arrivare fino a 170 miliardi”, nota “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 23 gennaio). E ancora: diffusione di una cultura d’impresa legata alla competizione, al premio al merito, al “bello e ben fatto”. All’innovazione, appunto.

Eccoci, allora, al Recovery Plan. Servono pochi, grandi progetti di investimento dei fondi europei su green economy e digital economy, sostenibilità e innovazione, cioé (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana). Le imprese innovative da fare crescere, il lavoro qualificato da stimolare, la formazione di lungo periodo da provuovere. E le infrastrutture, materiali e immateriali, per la qualità della vita e del lavoro. Pochi grandi progetti, ben costruiti, concordati con i vertici di Bruxelles e definiti negli strumenti, nel tempi, nei controlli di attuazione.

Una straordinaria scommessa politica, sociale, culturale e imprenditoriale, per una ripartenza che abbia il sapore di una vera e propria “rinascita”, un radicale cambio di paradigma segnato dalle scelte di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale. Non un disperdersi di risorse in mille rivoli, accontentando nel breve periodo corporazioni e clientelke (un taglio dell’Iva di qua, un reddito di cittadinanza di là, un’assunzione di giù, un appalto di su e così via sgovernando). Ma una strategia di crescita, lungimirante, ambiziosa. Coivolgendo le forze sociali. Bem disponibili a una seria assunzione di responsabilità.

La risposta al tema del debito pubblico sta qui. Nella crescita. Senza pensare a improbabili “cancellazioni”. Ma sapendo bene che la Bce vigila ancora, tenendo bassi i tassi e assorbendo parte delle nuove emissioni nelle sua pancia capace e che la Ue potrà ridiscutere i paramenti delle convergenze economiche, ma solo di fronte a economie in ripresa e a conti pubblici in via di riequilibrio.

C’è, insomma, un nesso di lungo periodo tra conti pubblici in ordine e crescita stabile nei suoi fondamenti. Senza visioni ideologiche. Ma con senso di responsabilità. Verso chi? Soprattutto verso i nostri figli e nipoti, cui guardare con generosa intelligenza, visto che il debito è, appunto, sulle loro spalle. Next Generation Eu, dice appunto il Recovery Plan.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?