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Come creare imprese consapevoli

L’ultimo libro di S. D. King aiuta la cultura del produrre a farsi più completa

Consapevoli di dove si è, di cosa si sta facendo e di quale sia la meta del proprio cammino. Sono probabilmente queste le qualità importanti di ogni imprenditore e manager avveduto. Questione di conoscenza del mondo, e quindi dell’ambito nel quale si agisce. E grande questione di cultura d’impresa completa. L’ultimo libro di Stephen D. King – economista e consulente di HSBC -, serve proprio per questo motivo.

“Il mondo nuovo. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia” è uno di quei libri che occorre leggere per essere più attenti al contesto nel quale stiamo vivendo. Il testo – non brevissimo ma scritto in modo leggibilissimo -, parte dalla considerazione che la strategia eretta sui principi del libero scambio e, a partire dagli anni Ottanta, del libero mercato dei capitali, sta cominciando a mostrare delle crepe. Nel mondo occidentale la crescita economica resta insoddisfacente e diversi Paesi non sono più disposti a sacrificare gli interessi nazionali alla crescita globale. Né i loro leader sembrano essere capaci, o desiderosi, di convincere i propri cittadini a lavorare a un’agenda per il benessere globale. Riaffiorano narrazioni politiche fatte di “noi” e di “loro” e si assiste allo sgradito ritorno di isolazionismo e protezionismo. Unendo l’analisi storica all’osservazione dell’attualità, fino alla Brexit e alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016, King arriva ad affermare che il rifiuto della globalizzazione e il ritorno all'”autarchia” aumenteranno il rischio di conflitti economici e politici e usa le lezioni della storia per capire come scongiurare gli esiti più infausti.

L’autore dimostra questi assunti di basi prendendo per mano chi  legge e conducendolo lungo la storia degli ultimi cento e più anni con precisione ma anche con vivacità, e soprattutto con uno sguardo disincantato, a tratti provocatorio.

King prende in considerazione, oltre ai tratti generali della globalizzazione, anche le sue relazioni con le singole comunità, con gli Stati nazionali, con le varie “visioni” derivanti dalle storie di ogni area del mondo (occidentale, cinese, ottomana, russa, persiana, africana). Successivamente il libro considera gli sviluppi possibili del XXI secolo, facendo in particolare attenzione alle tecnologie, alla moneta e ai mercati.

“La globalizzazione in crisi” è il titolo dell’ultima parte che approfondisce gli aspetti che in qualche modo caratterizzano gli anni più recenti e soprattutto quelli che verranno fra spinte isolazioniste e spinte globali.

Scrive King verso la fine del volume: “Se il mondo si adagia nella polemica tra ‘noi’ e ‘loro’, dalla sfiducia iniziale al conflitto aperto – economico, finanziario e perfino militare – il passo è breve. E le sfide al processo della globalizzazione, negli anni a venire, non potranno che diventare più ostiche”. E paragonando globalizzazione e isolazionismo spiega: “Una globalizzazione di successo non può essere solo un processo guidato dai mercati. Deve comprendere anche un appoggio internazionale a quelle idee e istituzioni che ci aiutano a ottemperare ai nostri obblighi e alle nostre responsabilità, reciprocamente”; mentre guardando alle spinte isolazioniste aggiunge: “E a coloro che desiderano l’isolazionismo e il protezionismo, infine, si dovrebbe chiedere di spiegare come possano pensare che la storia sia dalla loro parte. Se la loro visione dovesse prevalere, sarebbe davvero la fine del mondo nuovo”.

Il libro scritto da King non si deve leggere distrattamente anche se si può leggere tutto d’un fiato.

Il mondo nuovo. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia

Stephen D. King

Franco Angeli, 2017

L’ultimo libro di S. D. King aiuta la cultura del produrre a farsi più completa

Consapevoli di dove si è, di cosa si sta facendo e di quale sia la meta del proprio cammino. Sono probabilmente queste le qualità importanti di ogni imprenditore e manager avveduto. Questione di conoscenza del mondo, e quindi dell’ambito nel quale si agisce. E grande questione di cultura d’impresa completa. L’ultimo libro di Stephen D. King – economista e consulente di HSBC -, serve proprio per questo motivo.

“Il mondo nuovo. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia” è uno di quei libri che occorre leggere per essere più attenti al contesto nel quale stiamo vivendo. Il testo – non brevissimo ma scritto in modo leggibilissimo -, parte dalla considerazione che la strategia eretta sui principi del libero scambio e, a partire dagli anni Ottanta, del libero mercato dei capitali, sta cominciando a mostrare delle crepe. Nel mondo occidentale la crescita economica resta insoddisfacente e diversi Paesi non sono più disposti a sacrificare gli interessi nazionali alla crescita globale. Né i loro leader sembrano essere capaci, o desiderosi, di convincere i propri cittadini a lavorare a un’agenda per il benessere globale. Riaffiorano narrazioni politiche fatte di “noi” e di “loro” e si assiste allo sgradito ritorno di isolazionismo e protezionismo. Unendo l’analisi storica all’osservazione dell’attualità, fino alla Brexit e alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane del 2016, King arriva ad affermare che il rifiuto della globalizzazione e il ritorno all'”autarchia” aumenteranno il rischio di conflitti economici e politici e usa le lezioni della storia per capire come scongiurare gli esiti più infausti.

L’autore dimostra questi assunti di basi prendendo per mano chi  legge e conducendolo lungo la storia degli ultimi cento e più anni con precisione ma anche con vivacità, e soprattutto con uno sguardo disincantato, a tratti provocatorio.

King prende in considerazione, oltre ai tratti generali della globalizzazione, anche le sue relazioni con le singole comunità, con gli Stati nazionali, con le varie “visioni” derivanti dalle storie di ogni area del mondo (occidentale, cinese, ottomana, russa, persiana, africana). Successivamente il libro considera gli sviluppi possibili del XXI secolo, facendo in particolare attenzione alle tecnologie, alla moneta e ai mercati.

“La globalizzazione in crisi” è il titolo dell’ultima parte che approfondisce gli aspetti che in qualche modo caratterizzano gli anni più recenti e soprattutto quelli che verranno fra spinte isolazioniste e spinte globali.

Scrive King verso la fine del volume: “Se il mondo si adagia nella polemica tra ‘noi’ e ‘loro’, dalla sfiducia iniziale al conflitto aperto – economico, finanziario e perfino militare – il passo è breve. E le sfide al processo della globalizzazione, negli anni a venire, non potranno che diventare più ostiche”. E paragonando globalizzazione e isolazionismo spiega: “Una globalizzazione di successo non può essere solo un processo guidato dai mercati. Deve comprendere anche un appoggio internazionale a quelle idee e istituzioni che ci aiutano a ottemperare ai nostri obblighi e alle nostre responsabilità, reciprocamente”; mentre guardando alle spinte isolazioniste aggiunge: “E a coloro che desiderano l’isolazionismo e il protezionismo, infine, si dovrebbe chiedere di spiegare come possano pensare che la storia sia dalla loro parte. Se la loro visione dovesse prevalere, sarebbe davvero la fine del mondo nuovo”.

Il libro scritto da King non si deve leggere distrattamente anche se si può leggere tutto d’un fiato.

Il mondo nuovo. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia

Stephen D. King

Franco Angeli, 2017

“Nessun uomo è un’isola…”. I racconti di buone imprese nell’“Italia dei rancori”

C’è chi soffre disagi crescenti e nutre sempre più forti rancori, come rivela l’ultimo Rapporto del Censis. E chi invece non s’arrende: intraprende, investe, innova e cerca di costruire ragioni per rinsaldare pur fragili comunità. E’ sempre contrastato e controverso, il ritratto dell’Italia contemporanea. Se ne possono valorizzare i tratti essenziali, per cercare di capire meglio. Dovrebbero farlo, innanzitutto, i protagonisti della politica. Peccato che troppo spesso s’occupino d’altro. E che in parecchi, da irresponsabili, alimentino risentimenti, rabbie e, appunto, rancori, da spregiudicati “imprenditori della paura” per lucrare consensi elettorali.

In questo sommario “viaggio” tra gli umori delle persone (si rifiuta il termine “gente”, che sa di populismo e subculture da cattivo spettacolo), si può partire da una vignetta e da una pubblicità. La vignetta è di Altan, sull’ultimo numero de “L’Espresso”. Due uomini in tuta, impegnati a correre. “Ma dove stiamo andando?”, chiede il primo. “Io che ne so? Sono un suo follower”, risponde l’altro. Solitudine, spirito gregario, disperazione, ai tempi delle finte comunità da social media.

La pubblicità di cui parliamo apre orizzonti diversi: “Nessun uomo è un’isola. Neanche un supermercato”. Titolo forte, a doppia pagina, sui principali quotidiani. Il testo continua così: “L’uomo, che Aristotele definisce politikòn zôon, per sua natura tende a unirsi ai propri simili per formare delle comunità. La socialità, lo scambio di opinioni, le scelte che fissano e rafforzano identità comuni rappresentano la vocazione del singolo ad andare verso il sociale, cioè verso l’altro” e via via continuando sino a “per noi che non siamo un’isola, comprendere viene prima di vendere”. Vendere? La firma della pubblicità, nettamente “politica” e niente affatto retorica, è Conad, supermercati, anzi supermercati in cooperativa, che proprio delle idee di condivisione, responsabilità sociale, comunità ed “economia civile” ha fatto patrimonio della propria identità, sostanza del proprio stare sui territori, nelle grandi città e nei piccoli centri. Nell’Italia slabbrata, anche un supermercato, citando Aristotele e un verso del poeta seicentesco inglese John Donne (“No man is an island, entire of itselfe…”) può cercare di ricucire fratture economiche e sociali. Un esempio di economia responsabile su cui riflettere.

L’economia italiana è in ripresa, il Pil 2017 cresce oltre le previsioni di governo e istituzioni internazionali, superando probabilmente l’1,7% (il premier Gentiloni, che ha parecchi meriti di equilibrio e intelligente amministrazione, parla adesso di crescita “vicina al 2%”) e influenzando positivamente il 2018. Aumentano gli investimenti, l’export, i posti di lavoro. Anche i consumi, naturalmente. E un po’ i risparmi. Eppure chi, come il Censis, ha imparato da anni a scandagliare gli umori più profondi degli italiani, mette in luce insoddisfazioni, timori e, appunto, “rancori” (la parola sta nel titolo del Rapporto di quest’anno, presentato all’inizio di dicembre).

Cosa succede? C’è un’Italia in movimento, documentata dalle attendibili statistiche dell’Istat sul Pil e un’Italia “percepita” raccontata dalle ombre del Censis? Qualcuno non è credibile?

La risposta è facile: ci sono due volti dell’Italia. E, soldi in tasca a parte (più nettamente percepiti nelle aree economicamente dinamiche, a Milano e Bologna e nel Nord Est, meno evidenti nella Roma in crisi da disastro della pubblica amministrazione e nelle città e nei paesi del Mezzogiorno), restano aperte alcune profonde ferite sociali, che naturalmente la ripresa economica non può rapidamente ricucire: la frattura del patto generazionale (i nostri figli vivranno peggio di noi e questa consapevolezza angoscia decine di migliaia di famiglie), la crisi dei lavori tradizionali sotto la spinta dell’economia digitale, il blocco dell’ascensore sociale (larghissima la percentuale di giovani che teme di non potere migliorare condizione e reddito, anche studiando), la sensazione di insicurezza generale, aggravata dall’invecchiamento della popolazione (gli anziani soli, spaesati, malfermi, in città percepite come ostili, in quartieri abitati sempre più da gruppi sociali e culturali che vengono da mondi radicalmente diversi).

Nell’Italia in cambiamento l’insicurezza prevale sulla speranza. Servirebbe far bene politica, per ricostruire un circolo virtuoso di aspettative positive, ridare spazio alla fiducia. Ci si può augurare che arrivi il momento di governanti virtuosi e non di populisti parolai. E che la moneta buona della fiducia scacci la moneta perversa della paura.

Altri attori sociali si muovono bene. Le imprese familiari, per esempio. Aperte all’innovazione e anche al cambio “manageriale”: nel passaggio generazionale dal fondatore ai figli, sono sempre più frequenti i casi in cui la proprietà e le strategie restano in famiglia e per la gestione ci si affida alle competenze di bravi manager. Assicurando così all’impresa sviluppo, solidità, futuro. Lo conferma anche una recente ricerca dell’Università Cattolica di Milano (“IlSole24Ore”, 3 dicembre), lo testimoniano le iniziative dell’Aidaf, l’associazione delle imprese familiari guidata da Elena Zambon, famiglia di industriali farmaceutici di solide radici italiane e visione internazionale. Le imprese motore di crescita equilibrata, con robusto senso dell’innovazione ma anche del welfare, del rapporto con i territori e della responsabilità della crescita. Cultura d’impresa positiva. Senza rimpianti né rancori. Nessuna impresa è un’isola…

C’è chi soffre disagi crescenti e nutre sempre più forti rancori, come rivela l’ultimo Rapporto del Censis. E chi invece non s’arrende: intraprende, investe, innova e cerca di costruire ragioni per rinsaldare pur fragili comunità. E’ sempre contrastato e controverso, il ritratto dell’Italia contemporanea. Se ne possono valorizzare i tratti essenziali, per cercare di capire meglio. Dovrebbero farlo, innanzitutto, i protagonisti della politica. Peccato che troppo spesso s’occupino d’altro. E che in parecchi, da irresponsabili, alimentino risentimenti, rabbie e, appunto, rancori, da spregiudicati “imprenditori della paura” per lucrare consensi elettorali.

In questo sommario “viaggio” tra gli umori delle persone (si rifiuta il termine “gente”, che sa di populismo e subculture da cattivo spettacolo), si può partire da una vignetta e da una pubblicità. La vignetta è di Altan, sull’ultimo numero de “L’Espresso”. Due uomini in tuta, impegnati a correre. “Ma dove stiamo andando?”, chiede il primo. “Io che ne so? Sono un suo follower”, risponde l’altro. Solitudine, spirito gregario, disperazione, ai tempi delle finte comunità da social media.

La pubblicità di cui parliamo apre orizzonti diversi: “Nessun uomo è un’isola. Neanche un supermercato”. Titolo forte, a doppia pagina, sui principali quotidiani. Il testo continua così: “L’uomo, che Aristotele definisce politikòn zôon, per sua natura tende a unirsi ai propri simili per formare delle comunità. La socialità, lo scambio di opinioni, le scelte che fissano e rafforzano identità comuni rappresentano la vocazione del singolo ad andare verso il sociale, cioè verso l’altro” e via via continuando sino a “per noi che non siamo un’isola, comprendere viene prima di vendere”. Vendere? La firma della pubblicità, nettamente “politica” e niente affatto retorica, è Conad, supermercati, anzi supermercati in cooperativa, che proprio delle idee di condivisione, responsabilità sociale, comunità ed “economia civile” ha fatto patrimonio della propria identità, sostanza del proprio stare sui territori, nelle grandi città e nei piccoli centri. Nell’Italia slabbrata, anche un supermercato, citando Aristotele e un verso del poeta seicentesco inglese John Donne (“No man is an island, entire of itselfe…”) può cercare di ricucire fratture economiche e sociali. Un esempio di economia responsabile su cui riflettere.

L’economia italiana è in ripresa, il Pil 2017 cresce oltre le previsioni di governo e istituzioni internazionali, superando probabilmente l’1,7% (il premier Gentiloni, che ha parecchi meriti di equilibrio e intelligente amministrazione, parla adesso di crescita “vicina al 2%”) e influenzando positivamente il 2018. Aumentano gli investimenti, l’export, i posti di lavoro. Anche i consumi, naturalmente. E un po’ i risparmi. Eppure chi, come il Censis, ha imparato da anni a scandagliare gli umori più profondi degli italiani, mette in luce insoddisfazioni, timori e, appunto, “rancori” (la parola sta nel titolo del Rapporto di quest’anno, presentato all’inizio di dicembre).

Cosa succede? C’è un’Italia in movimento, documentata dalle attendibili statistiche dell’Istat sul Pil e un’Italia “percepita” raccontata dalle ombre del Censis? Qualcuno non è credibile?

La risposta è facile: ci sono due volti dell’Italia. E, soldi in tasca a parte (più nettamente percepiti nelle aree economicamente dinamiche, a Milano e Bologna e nel Nord Est, meno evidenti nella Roma in crisi da disastro della pubblica amministrazione e nelle città e nei paesi del Mezzogiorno), restano aperte alcune profonde ferite sociali, che naturalmente la ripresa economica non può rapidamente ricucire: la frattura del patto generazionale (i nostri figli vivranno peggio di noi e questa consapevolezza angoscia decine di migliaia di famiglie), la crisi dei lavori tradizionali sotto la spinta dell’economia digitale, il blocco dell’ascensore sociale (larghissima la percentuale di giovani che teme di non potere migliorare condizione e reddito, anche studiando), la sensazione di insicurezza generale, aggravata dall’invecchiamento della popolazione (gli anziani soli, spaesati, malfermi, in città percepite come ostili, in quartieri abitati sempre più da gruppi sociali e culturali che vengono da mondi radicalmente diversi).

Nell’Italia in cambiamento l’insicurezza prevale sulla speranza. Servirebbe far bene politica, per ricostruire un circolo virtuoso di aspettative positive, ridare spazio alla fiducia. Ci si può augurare che arrivi il momento di governanti virtuosi e non di populisti parolai. E che la moneta buona della fiducia scacci la moneta perversa della paura.

Altri attori sociali si muovono bene. Le imprese familiari, per esempio. Aperte all’innovazione e anche al cambio “manageriale”: nel passaggio generazionale dal fondatore ai figli, sono sempre più frequenti i casi in cui la proprietà e le strategie restano in famiglia e per la gestione ci si affida alle competenze di bravi manager. Assicurando così all’impresa sviluppo, solidità, futuro. Lo conferma anche una recente ricerca dell’Università Cattolica di Milano (“IlSole24Ore”, 3 dicembre), lo testimoniano le iniziative dell’Aidaf, l’associazione delle imprese familiari guidata da Elena Zambon, famiglia di industriali farmaceutici di solide radici italiane e visione internazionale. Le imprese motore di crescita equilibrata, con robusto senso dell’innovazione ma anche del welfare, del rapporto con i territori e della responsabilità della crescita. Cultura d’impresa positiva. Senza rimpianti né rancori. Nessuna impresa è un’isola…

L’impresa per le famiglie:
la Colonia di Pietraligure nel Dopoguerra

Nel suo discorso di celebrazione del decennale della Colonia marina Pirelli di Pietraligure del 1957 Franco Brambilla, allora Amministratore Delegato di Pirelli, cita un dato che oggi farebbe sobbalzare genitori e dietologi: “E’ come se la colonia avesse fabbricato, in questi dieci anni, 1245 nuovi bambini”. Alla fine del loro mese di soggiorno, infatti, i bambini pesavano mediamente 1,6 chili in più di quando erano arrivati: Rina Gagliardi e Francesco Beretta, tra i primi ospiti della Colonia nell’ormai lontano Dopoguerra, avevano polverizzato ogni record aumentando il loro peso di 5 chili in quattro settimane. Quando la Colonia fu inaugurata, nel 1947, l’obiettivo primo era quello di riportare i piccoli in salute dopo le privazioni della guerra. Oltre ventimila i figli di dipendenti ospitati tra il 1947 e il 1957. “Per trasportare tutti questi bambini occorrerebbe un treno di 250 vagoni lungo pressapoco 2 km e mezzo” -precisa Brambilla nell’articolo dedicato all’evento dall’house organ “Fatti e Notizie– “E se poi questi bambini volessimo metterli in tante 600 (l’utilitaria Fiat lanciata nel 1955), naturalmente con accanto l’autista, ci vorrebbero 6.680 di queste vetturette che formerebbero, opportunamente distanziate, una colonna lunga ben 47 chilometri”.

La Colonia di Pietraligure era stata concepita già sul finire del 1946, nel solco di una lunga tradizione di attenzione da parte del Gruppo Pirelli a tutti gli aspetti del welfare aziendale: primo tra tutti, il benessere dei figli dei lavoratori durante le vacanze estive. E questo fin dall’Anteguerra, attraverso organizzazioni esterne cui l’azienda versava una retta fissa mensile per ogni bambino ospitato. Ora, però, per la prima volta si pensava ad una struttura di accoglienza interamente appartenente alla Società. Del progetto Pietraligure e di quali aspettative portasse con sé ce ne parla Mario Pangrazzi nel numero del 15 febbraio 1947 del “Notiziario Pirelli”, l’house organ che precedette, tra il 1946 e il 1949, la nascita poi di “Fatti e Notizie”: “Man mano che maturava in noi la certezza che nell’estate del 1947 saremmo rimasti senza una casa al mare per i nostri bimbi, andò stringendosi una speciale complicità tra chi scrive ed un ingegnere architetto noto ai Pirelliani ma che non vuole essere nominato in questa relazione”. Peraltro a piè di pagina è riprodotto il “rendering” della futura colonia, con il credit “Prog. Ing. Alberto Alberti”. “Fattici bimbi e presici per mano vagavamo per i dormitori, per il refettorio, per il ricreatorio, per le terrazze, per le aule scolastiche che appena tracciate sulla carta prendevano, per noi, reale consistenza…”. Fatto il progetto, occorreva recuperare i fondi per realizzarlo. E quando i progettisti si confrontarono con la Direzione Pirelli, le loro richieste “trovarono dei sorrisi, dei consensi”.

Una struttura interamente “pirelliana”, e forte la voglia di discontinuità rispetto a un passato che nella primavera del ’47 era ancora piuttosto recente: “Non vi saranno nella Nuova Colonia squilli di trombe, alzabandiera, canti obbligati ma solo lo stimolo costante ad essere buoni, ad essere bravi ometti e brave donnine che si rafforzano in salute, che acquistano nuove energie”. E’ verso la chiusa dell’articolo del “Notiziario Pirelli” che i toni si fanno via via più lirici, soprattutto quando Mario Pangrazzi s’immagina il futuro, quando dopo venti o trent’anni quei bambini – diventati nel frattempo bravi Pirelliani – sarebbero tornati a Pietraligure per accompagnare i figli, e poi i figli dei figli…

La Colonia di Pietraligure sarà ceduta – nei primi anni Settanta – al Comune di Cinisello Balsamo, mantenendo la sua storica funzione di residenza estiva per bambini.

Nel suo discorso di celebrazione del decennale della Colonia marina Pirelli di Pietraligure del 1957 Franco Brambilla, allora Amministratore Delegato di Pirelli, cita un dato che oggi farebbe sobbalzare genitori e dietologi: “E’ come se la colonia avesse fabbricato, in questi dieci anni, 1245 nuovi bambini”. Alla fine del loro mese di soggiorno, infatti, i bambini pesavano mediamente 1,6 chili in più di quando erano arrivati: Rina Gagliardi e Francesco Beretta, tra i primi ospiti della Colonia nell’ormai lontano Dopoguerra, avevano polverizzato ogni record aumentando il loro peso di 5 chili in quattro settimane. Quando la Colonia fu inaugurata, nel 1947, l’obiettivo primo era quello di riportare i piccoli in salute dopo le privazioni della guerra. Oltre ventimila i figli di dipendenti ospitati tra il 1947 e il 1957. “Per trasportare tutti questi bambini occorrerebbe un treno di 250 vagoni lungo pressapoco 2 km e mezzo” -precisa Brambilla nell’articolo dedicato all’evento dall’house organ “Fatti e Notizie– “E se poi questi bambini volessimo metterli in tante 600 (l’utilitaria Fiat lanciata nel 1955), naturalmente con accanto l’autista, ci vorrebbero 6.680 di queste vetturette che formerebbero, opportunamente distanziate, una colonna lunga ben 47 chilometri”.

La Colonia di Pietraligure era stata concepita già sul finire del 1946, nel solco di una lunga tradizione di attenzione da parte del Gruppo Pirelli a tutti gli aspetti del welfare aziendale: primo tra tutti, il benessere dei figli dei lavoratori durante le vacanze estive. E questo fin dall’Anteguerra, attraverso organizzazioni esterne cui l’azienda versava una retta fissa mensile per ogni bambino ospitato. Ora, però, per la prima volta si pensava ad una struttura di accoglienza interamente appartenente alla Società. Del progetto Pietraligure e di quali aspettative portasse con sé ce ne parla Mario Pangrazzi nel numero del 15 febbraio 1947 del “Notiziario Pirelli”, l’house organ che precedette, tra il 1946 e il 1949, la nascita poi di “Fatti e Notizie”: “Man mano che maturava in noi la certezza che nell’estate del 1947 saremmo rimasti senza una casa al mare per i nostri bimbi, andò stringendosi una speciale complicità tra chi scrive ed un ingegnere architetto noto ai Pirelliani ma che non vuole essere nominato in questa relazione”. Peraltro a piè di pagina è riprodotto il “rendering” della futura colonia, con il credit “Prog. Ing. Alberto Alberti”. “Fattici bimbi e presici per mano vagavamo per i dormitori, per il refettorio, per il ricreatorio, per le terrazze, per le aule scolastiche che appena tracciate sulla carta prendevano, per noi, reale consistenza…”. Fatto il progetto, occorreva recuperare i fondi per realizzarlo. E quando i progettisti si confrontarono con la Direzione Pirelli, le loro richieste “trovarono dei sorrisi, dei consensi”.

Una struttura interamente “pirelliana”, e forte la voglia di discontinuità rispetto a un passato che nella primavera del ’47 era ancora piuttosto recente: “Non vi saranno nella Nuova Colonia squilli di trombe, alzabandiera, canti obbligati ma solo lo stimolo costante ad essere buoni, ad essere bravi ometti e brave donnine che si rafforzano in salute, che acquistano nuove energie”. E’ verso la chiusa dell’articolo del “Notiziario Pirelli” che i toni si fanno via via più lirici, soprattutto quando Mario Pangrazzi s’immagina il futuro, quando dopo venti o trent’anni quei bambini – diventati nel frattempo bravi Pirelliani – sarebbero tornati a Pietraligure per accompagnare i figli, e poi i figli dei figli…

La Colonia di Pietraligure sarà ceduta – nei primi anni Settanta – al Comune di Cinisello Balsamo, mantenendo la sua storica funzione di residenza estiva per bambini.

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La cultura dell’inizio

Un articolo apparso su Quaderni di sociologia descrive e analizza compiutamente il fenomeno delle startup

La giovane impresa ha una particolare sua visione del mondo e dell’organizzazione della produzione. Altro dall’azienda già “vissuta”, ciò che oggi va sotto il nome di startup ha una sua cultura, un suo modo d’essere, un approccio particolare che la distingue dal resto del sistema della produzione di un territorio. E’ il futuro – se sarà in grado di esserlo -, ma anche espressione di un’eredità produttiva che si trasforma. E che riesce a creare qualcosa di nuovo. Che merita di essere letto con attenzione.

E’ ciò che ha fatto Alfredo Ferrara, del Dipartimento di Scienze Politiche – Università degli Studi di Bari “A. Moro”, con il suo articolo “L’ideologia startup tra rigenerazione capitalistica e processi di rimozione” apparso da poche settimane sui Quaderni di sociologia.

Lo studio fornisce una fotografia aggiornata ed esaustiva del concetto di impresa startup tracciandone i confini e le applicazioni. Dopo una presentazione degli obiettivi e del metodo utilizzato per delineare l’argomento. Ferrara procede con chiarezza verso l’elencazione e l’esame di quelli che definisce i “punti tematici” che caratterizzano le linee della cultura d’impresa delle startup. Si tratta di quadri di una storia comune a molte imprese e che, a ben vedere, delinea la stessa figura ideale dell’imprenditore e del suo approccio alla vita oltre che al lavoro. I “punti tematici” individuati da Ferrara sono quindi: Indipendenza, rischio e ambizione; “Zero ego”; Passione e pieno coinvolgimento; Restare persone e raccontare la propria esperienza; Cosmopolitismo; Fare la storia con l’innovazione: ritmo e rapidità di esecuzione; Priorità alle idee; Tecnologie informatiche; Cooperazione tra cofondatori; Competizione; Un capitale che crede nei sogni. Ad ognuno di essi viene dedicato un approfondimento per poi arrivare a delineare la figura complessiva degli imprenditori startupper e delle loro creature. “Gli startupper – scrive quindi Ferrara , non sono freddi calcolatori che governano i processi produttivi a distanza ma imprenditori di prima generazione che impongono la propria personalità a un’impresa che fondano e non ereditano, governano secondo il proprio stile e assumendosi personalmente i rischi connessi senza affidarsi ai professionisti del management e alla routine dei quadri intermedi; in essa gli startupper declinano la propria visione e le proprie competenze, non confinando i processi di innovazione nei reparti di ricerca e sviluppo”. E’ cioè una figura a tutto tondo di imprenditore, quella delineata da Ferrara, che riesce a coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione  dando vita a qualcosa di diverso eppure di profondamente radicato nella migliore storia d’impresa possibile. Scrive ancora Ferrara: “L’ideologia startup celebra quindi una duplice imprenditoria dell’inizio: in senso diacronico, dell’inizio della storia del capitalismo, non ancora gravata cioè dai processi di spersonalizzazione e automatizzazione; in senso sincronico, cioè della fase fondativa di un’impresa, ancora a riparo dalla routine aziendale, dalla necessità di conservare porzioni di mercato ecc.”.

L’articolo di Alfredo Ferrara è certamente una buona guida per iniziare ad organizzare e sistemare le informazioni che ruotano vorticosamente attorno alla cultura delle startup.

L’ideologia startup tra rigenerazione capitalistica e processi di rimozione

Alfredo Ferrara

Quaderni di sociologia, 73 | 2017, 49-66.

http://qds.revues.org/1658

Un articolo apparso su Quaderni di sociologia descrive e analizza compiutamente il fenomeno delle startup

La giovane impresa ha una particolare sua visione del mondo e dell’organizzazione della produzione. Altro dall’azienda già “vissuta”, ciò che oggi va sotto il nome di startup ha una sua cultura, un suo modo d’essere, un approccio particolare che la distingue dal resto del sistema della produzione di un territorio. E’ il futuro – se sarà in grado di esserlo -, ma anche espressione di un’eredità produttiva che si trasforma. E che riesce a creare qualcosa di nuovo. Che merita di essere letto con attenzione.

E’ ciò che ha fatto Alfredo Ferrara, del Dipartimento di Scienze Politiche – Università degli Studi di Bari “A. Moro”, con il suo articolo “L’ideologia startup tra rigenerazione capitalistica e processi di rimozione” apparso da poche settimane sui Quaderni di sociologia.

Lo studio fornisce una fotografia aggiornata ed esaustiva del concetto di impresa startup tracciandone i confini e le applicazioni. Dopo una presentazione degli obiettivi e del metodo utilizzato per delineare l’argomento. Ferrara procede con chiarezza verso l’elencazione e l’esame di quelli che definisce i “punti tematici” che caratterizzano le linee della cultura d’impresa delle startup. Si tratta di quadri di una storia comune a molte imprese e che, a ben vedere, delinea la stessa figura ideale dell’imprenditore e del suo approccio alla vita oltre che al lavoro. I “punti tematici” individuati da Ferrara sono quindi: Indipendenza, rischio e ambizione; “Zero ego”; Passione e pieno coinvolgimento; Restare persone e raccontare la propria esperienza; Cosmopolitismo; Fare la storia con l’innovazione: ritmo e rapidità di esecuzione; Priorità alle idee; Tecnologie informatiche; Cooperazione tra cofondatori; Competizione; Un capitale che crede nei sogni. Ad ognuno di essi viene dedicato un approfondimento per poi arrivare a delineare la figura complessiva degli imprenditori startupper e delle loro creature. “Gli startupper – scrive quindi Ferrara , non sono freddi calcolatori che governano i processi produttivi a distanza ma imprenditori di prima generazione che impongono la propria personalità a un’impresa che fondano e non ereditano, governano secondo il proprio stile e assumendosi personalmente i rischi connessi senza affidarsi ai professionisti del management e alla routine dei quadri intermedi; in essa gli startupper declinano la propria visione e le proprie competenze, non confinando i processi di innovazione nei reparti di ricerca e sviluppo”. E’ cioè una figura a tutto tondo di imprenditore, quella delineata da Ferrara, che riesce a coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione  dando vita a qualcosa di diverso eppure di profondamente radicato nella migliore storia d’impresa possibile. Scrive ancora Ferrara: “L’ideologia startup celebra quindi una duplice imprenditoria dell’inizio: in senso diacronico, dell’inizio della storia del capitalismo, non ancora gravata cioè dai processi di spersonalizzazione e automatizzazione; in senso sincronico, cioè della fase fondativa di un’impresa, ancora a riparo dalla routine aziendale, dalla necessità di conservare porzioni di mercato ecc.”.

L’articolo di Alfredo Ferrara è certamente una buona guida per iniziare ad organizzare e sistemare le informazioni che ruotano vorticosamente attorno alla cultura delle startup.

L’ideologia startup tra rigenerazione capitalistica e processi di rimozione

Alfredo Ferrara

Quaderni di sociologia, 73 | 2017, 49-66.

http://qds.revues.org/1658

Imprese in cerca di nuovi sogni da realizzare

Pubblicato il 51° Rapporto Censis che delinea il quadro nel quale si colloca l’agire delle aziende

Comprendere in quale contesto si svolge la propria attività è importante; per l’impresa diventa fondamentale. Componente determinante di una avveduta cultura del produrre, la consapevolezza dell’ambito sociale (oltre che economico), nel quale si agisce, fa bene ai bilanci e alle strategie, ma anche al clima d’azienda e all’organizzazione umana della produzione. Leggere l’annuale Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese è quindi cosa utile per gli imprenditori e i manager  attenti. Soprattutto quest’anno.

Censis delinea una situazione caratterizzata dalla ripartenza dell’industria ma da quello che pare lo smarrimento delle istanze positive della società. Riprende a crescere il benessere, ma sembra si stiano perdendo  le spinte alla coesione e verso gli ideali di un buon assetto sociale. Segnali preoccupanti anche per le imprese e soprattutto per la formazione e alimentazione di una cultura del produrre che sia corretta, universale e sostenibile.

Censis è impietoso e parla del fatto che gli “italiani vivono un quieto andare nella ripresa dopo i duri anni del ‘taglia e sopravvivi’”. E non solo. Il Rapporto spiega come lo stesso migliore clima economico e produttivo nasconda pericoli importanti. “Nella ripresa – viene scritto -,  persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Censis poi prosegue facendo un confronto importante: “Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza propulsiva”.

Certo, gli elementi positivi non mancano, ma è soprattutto con le situazioni fragili e delicate che deve confrontarsi l’agire delle organizzazioni della produzione e l’idea stessa di impresa che possono originare. Fabbriche, uffici e contesti produttivi devono cioè fare i conti con un quadro in cui pare non vi siano più sogni da rendere realtà. Spiega in una nota al Rapporto lo stesso Censis: “Il futuro si è incollato al presente. Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita. Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo, senza sostituzione, di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro. Ora il nostro futuro si prepara sul binomio tecnologia-territorio: sulla preparazione alla tecnologia con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di rappresentanza politica ed economica”.

Il Rapporto Censis è come di consueto una lettura da fare e rifare con attenzione e che indica con chiarezza il quadro generale e quelli particolari di un Paese che continua ad avere dalla sua grandi risorse ma altrettanto grandi carenze. E nel quale le imprese e la loro migliore cultura del produrre devono trovare spazi nuovi d’azione.

51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2017

Censis

Franco Angeli, 2017

Pubblicato il 51° Rapporto Censis che delinea il quadro nel quale si colloca l’agire delle aziende

Comprendere in quale contesto si svolge la propria attività è importante; per l’impresa diventa fondamentale. Componente determinante di una avveduta cultura del produrre, la consapevolezza dell’ambito sociale (oltre che economico), nel quale si agisce, fa bene ai bilanci e alle strategie, ma anche al clima d’azienda e all’organizzazione umana della produzione. Leggere l’annuale Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese è quindi cosa utile per gli imprenditori e i manager  attenti. Soprattutto quest’anno.

Censis delinea una situazione caratterizzata dalla ripartenza dell’industria ma da quello che pare lo smarrimento delle istanze positive della società. Riprende a crescere il benessere, ma sembra si stiano perdendo  le spinte alla coesione e verso gli ideali di un buon assetto sociale. Segnali preoccupanti anche per le imprese e soprattutto per la formazione e alimentazione di una cultura del produrre che sia corretta, universale e sostenibile.

Censis è impietoso e parla del fatto che gli “italiani vivono un quieto andare nella ripresa dopo i duri anni del ‘taglia e sopravvivi’”. E non solo. Il Rapporto spiega come lo stesso migliore clima economico e produttivo nasconda pericoli importanti. “Nella ripresa – viene scritto -,  persistono trascinamenti inerziali da maneggiare con cura. Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore”. Censis poi prosegue facendo un confronto importante: “Nell’Italia del miracolo economico il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza propulsiva”.

Certo, gli elementi positivi non mancano, ma è soprattutto con le situazioni fragili e delicate che deve confrontarsi l’agire delle organizzazioni della produzione e l’idea stessa di impresa che possono originare. Fabbriche, uffici e contesti produttivi devono cioè fare i conti con un quadro in cui pare non vi siano più sogni da rendere realtà. Spiega in una nota al Rapporto lo stesso Censis: “Il futuro si è incollato al presente. Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita. Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo, senza sostituzione, di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro. Ora il nostro futuro si prepara sul binomio tecnologia-territorio: sulla preparazione alla tecnologia con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di rappresentanza politica ed economica”.

Il Rapporto Censis è come di consueto una lettura da fare e rifare con attenzione e che indica con chiarezza il quadro generale e quelli particolari di un Paese che continua ad avere dalla sua grandi risorse ma altrettanto grandi carenze. E nel quale le imprese e la loro migliore cultura del produrre devono trovare spazi nuovi d’azione.

51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2017

Censis

Franco Angeli, 2017

Milano accogliente per banchieri d’affari e imprese hi tech: parte la “Città della Scienza”

Arrivano a Milano anche i banchieri della Goldman Sachs: 150 persone, nell’arco d’un paio d’anni, per cercare di cogliere tutte le opportunità d’una metropoli in straordinaria espansione, come piazza imprenditoriale e finanziaria di livello europeo. Lavoreranno in un grande palazzo in via Santa Margherita, a pochi passi dalla Galleria Vittorio Emanuele e dalla Scala. E la loro scelta conferma il giudizio del “Financial Times”, l’autorevole quotidiano economico britannico, proprio in occasione della grande festa dei 150 anni della Galleria, a metà settembre: Milano rinata come capitale finanziaria d’Italia. Un’affermazione in linea con il parere del “New York Times” durante i fasti dell’Expo 2015: “Milan, the place to be”.

Milano non ha avuto la sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, battuta al sorteggio da Amsterdam, un bussolotto beffardo (ma ad Amsterdam il palazzo in cui ospitare uffici e laboratori è ancora in costruzione e sarà pronto solo alla fine del 2019, mentre a Milano sarebbe stato già utilizzabile il “Pirellone”). Eppure, l’attrattività della metropoli resta forte. E sono in tanti, tra gli amministratori locali, gli imprenditori e le personalità d’una vivace e intraprendente società civile, a insistere perché Milano rilanci ruolo e opportunità d’insediamento per attività industriali, finanziarie, culturali, di studio e ricerca.

Città sempre più accogliente, infatti. Ed elenco lungo d’imprese in arrivo. Goldman, marchio bancario prestigioso, è uno tra tanti. E gli altri? Bayer, Novartis, Sanofi, Glaxo, Celgeni, nel settore chimico e farmaceutico, attratti dalla forza d’una città di alto livello per tutto il mondo della “life sciences”. E forse anche gli americani del Medical Center della Pittsburgh University, insieme al fondo d’investimenti Neuberger Berman, che stanno sondando le possibilità d’un intervento per lo Ieo  e il Monzino (i centri d’eccellenza di oncologia e cardiologia, i cui azionisti, Mediobanca in testa, sono però restii a interventi che ne modifichino la natura “no profit”).

Nel mondo hi tech, ecco Amazon in viale Monte Grappa, nell’area di Porta Nuova, grattacieli d’avanguardia (a cominciare dalla sede Unicredit progettata da Cesar Pelli e dal “Bosco Verticale” di Stefano Boeri), vicino alle sedi di altri colossi dell’information technology, Samsung, Google e la Microsoft House nella nuova costruzione della Fondazione Feltrinelli progettata da Herzog & De Meuron, centro di cultura e innovazione. E Apple, con un megastore firmato dall’archistar Norman Foster.

Arriva pure Starbucks, in piena Piazza Cordusio, un tempo crocevia di banche e assicurazioni, per uno dei suoi maggiori investimenti europei. E poi ancora la Luiss, che cerca di trovare uno spazio milanese nell’offerta formativa qualificata di grandi università, come la Bocconi, il Politecnico, la Cattolica, la Statale e la Bicocca. E una lunga fila di centri di ricerca, aziende, che confermano il peso di Milano come città preferita dalle multinazionali: 3.600 le società a proprietà estera già attive, con un fatturato di 168 miliardi, un terzo di tutto il fatturato delle imprese internazionali in Italia, una cifra destinata a crescere.

Anche gli investitori cinesi guardano a Milano con occhio di particolare attenzione, considerando la metropoli come cardine dell’ambizioso progetto “Belt and Road Iniziative”, la “nuova Via della Seta” tra Oriente e Occidente (quasi cinquecento persone, la scorsa settimana, riunite in Assolombarda, per ascoltare idee e progetti di Chen Siquing, chairman di Bank of China e presidente, insieme a Marco Tronchetti Provera, del Business Forum Italia-Cina).

“Milano sta diventando più interessante di Londra”, sentenza Daniel Libeskind, grande architetto, autore di una delle “tre torri” che caratterizzano l’area di CityLife, “Il Curvo” (le altre sono “Il Dritto” di Arata Isozaki e “Lo Storto” di Zaha Hadid, che firma anche parecchie delle abitazioni di lusso nella zona). “Milano portale per l’Europa”, insiste Libeskind.

Milano cantiere, insomma. Tra i più dinamici non solo in Italia ma anche nel panorama delle maggiori città europee. Sono finiti i tempi delle speculazioni immobiliari alla Ligresti, frenesia edilizia da “palazzinari” pur se ben collegati ai centri del potere finanziario lombardo. E si sta invece nel cuore d’una straordinaria prospettiva di ridisegno della metropoli, nell’incrocio tra “economia della conoscenza”, scienza, ricerca, manifattura hi tech, servizi, tra “smart city” ed economia sociale dell’inclusione e della qualità della vita.

La trasformazione di Milano ha come cardine Human Technopole, la nuova “Città della Scienza”, sulle aree ex Expo, la cui gestione è stata appena affidata, dopo una gara internazionale, agli australiani di Leand Lease e al cui “masterplan” sta lavorando Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab al Mit (il Massachussetts institute of Technology) di Boston, progettando nuove tecnologie, socialità e mobilità sostenibile per “il più grande parco scientifico e tecnologico d’Italia”: sedi universitarie, laboratori, imprese, un ospedale d’avanguardia (il Galeazzi) ma anche housing sociale, centri culturali e moltissimo verde. Tutto molto “smart”, appunto.

Altre aree sono essenziali al ridisegno e al rilancio di Milano: la “Città della Salute” a Sesto San Giovani, l’area dell’Ortomercato ma soprattutto i vasti spazi dei sette scali ferroviari. Cosa farne? Il dibattito è aperto. Si tratta di sfruttare, nell’arco dei prossimi dieci anni, le opportunità legate a una straordinaria opportunità urbanistica, ma anche agli sviluppi dell’economia “digital” e alle innovazioni di “Industry4.0”, con gli incroci tra manifattura, servizi, logistica, “internet delle cose”, formazione, inedite prospettive di relazioni e socialità. Processi complessi, naturalmente. Densi di conflitti e contraddizioni. E non privi di rischi (Milano è attrattiva non solo per capitali d’investimento e intelligenze, ma anche per interessi mafiosi, come mostrano le mani lunghe e avide di ‘ndrangheta e Cosa Nostra). Ma anche processi di grande interesse e stimolanti prospettive. Da saper governare bene, nella tradizione, peraltro molto milanese, della collaborazione tra pubblico e privato, istituzioni e imprese.

Milano metamorfosi, in un’efficace sintesi. Nel cuore dell’Europa, lungo gli assi tra Ovest ed Est e Nord e Mediterraneo.

Arrivano a Milano anche i banchieri della Goldman Sachs: 150 persone, nell’arco d’un paio d’anni, per cercare di cogliere tutte le opportunità d’una metropoli in straordinaria espansione, come piazza imprenditoriale e finanziaria di livello europeo. Lavoreranno in un grande palazzo in via Santa Margherita, a pochi passi dalla Galleria Vittorio Emanuele e dalla Scala. E la loro scelta conferma il giudizio del “Financial Times”, l’autorevole quotidiano economico britannico, proprio in occasione della grande festa dei 150 anni della Galleria, a metà settembre: Milano rinata come capitale finanziaria d’Italia. Un’affermazione in linea con il parere del “New York Times” durante i fasti dell’Expo 2015: “Milan, the place to be”.

Milano non ha avuto la sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco, battuta al sorteggio da Amsterdam, un bussolotto beffardo (ma ad Amsterdam il palazzo in cui ospitare uffici e laboratori è ancora in costruzione e sarà pronto solo alla fine del 2019, mentre a Milano sarebbe stato già utilizzabile il “Pirellone”). Eppure, l’attrattività della metropoli resta forte. E sono in tanti, tra gli amministratori locali, gli imprenditori e le personalità d’una vivace e intraprendente società civile, a insistere perché Milano rilanci ruolo e opportunità d’insediamento per attività industriali, finanziarie, culturali, di studio e ricerca.

Città sempre più accogliente, infatti. Ed elenco lungo d’imprese in arrivo. Goldman, marchio bancario prestigioso, è uno tra tanti. E gli altri? Bayer, Novartis, Sanofi, Glaxo, Celgeni, nel settore chimico e farmaceutico, attratti dalla forza d’una città di alto livello per tutto il mondo della “life sciences”. E forse anche gli americani del Medical Center della Pittsburgh University, insieme al fondo d’investimenti Neuberger Berman, che stanno sondando le possibilità d’un intervento per lo Ieo  e il Monzino (i centri d’eccellenza di oncologia e cardiologia, i cui azionisti, Mediobanca in testa, sono però restii a interventi che ne modifichino la natura “no profit”).

Nel mondo hi tech, ecco Amazon in viale Monte Grappa, nell’area di Porta Nuova, grattacieli d’avanguardia (a cominciare dalla sede Unicredit progettata da Cesar Pelli e dal “Bosco Verticale” di Stefano Boeri), vicino alle sedi di altri colossi dell’information technology, Samsung, Google e la Microsoft House nella nuova costruzione della Fondazione Feltrinelli progettata da Herzog & De Meuron, centro di cultura e innovazione. E Apple, con un megastore firmato dall’archistar Norman Foster.

Arriva pure Starbucks, in piena Piazza Cordusio, un tempo crocevia di banche e assicurazioni, per uno dei suoi maggiori investimenti europei. E poi ancora la Luiss, che cerca di trovare uno spazio milanese nell’offerta formativa qualificata di grandi università, come la Bocconi, il Politecnico, la Cattolica, la Statale e la Bicocca. E una lunga fila di centri di ricerca, aziende, che confermano il peso di Milano come città preferita dalle multinazionali: 3.600 le società a proprietà estera già attive, con un fatturato di 168 miliardi, un terzo di tutto il fatturato delle imprese internazionali in Italia, una cifra destinata a crescere.

Anche gli investitori cinesi guardano a Milano con occhio di particolare attenzione, considerando la metropoli come cardine dell’ambizioso progetto “Belt and Road Iniziative”, la “nuova Via della Seta” tra Oriente e Occidente (quasi cinquecento persone, la scorsa settimana, riunite in Assolombarda, per ascoltare idee e progetti di Chen Siquing, chairman di Bank of China e presidente, insieme a Marco Tronchetti Provera, del Business Forum Italia-Cina).

“Milano sta diventando più interessante di Londra”, sentenza Daniel Libeskind, grande architetto, autore di una delle “tre torri” che caratterizzano l’area di CityLife, “Il Curvo” (le altre sono “Il Dritto” di Arata Isozaki e “Lo Storto” di Zaha Hadid, che firma anche parecchie delle abitazioni di lusso nella zona). “Milano portale per l’Europa”, insiste Libeskind.

Milano cantiere, insomma. Tra i più dinamici non solo in Italia ma anche nel panorama delle maggiori città europee. Sono finiti i tempi delle speculazioni immobiliari alla Ligresti, frenesia edilizia da “palazzinari” pur se ben collegati ai centri del potere finanziario lombardo. E si sta invece nel cuore d’una straordinaria prospettiva di ridisegno della metropoli, nell’incrocio tra “economia della conoscenza”, scienza, ricerca, manifattura hi tech, servizi, tra “smart city” ed economia sociale dell’inclusione e della qualità della vita.

La trasformazione di Milano ha come cardine Human Technopole, la nuova “Città della Scienza”, sulle aree ex Expo, la cui gestione è stata appena affidata, dopo una gara internazionale, agli australiani di Leand Lease e al cui “masterplan” sta lavorando Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab al Mit (il Massachussetts institute of Technology) di Boston, progettando nuove tecnologie, socialità e mobilità sostenibile per “il più grande parco scientifico e tecnologico d’Italia”: sedi universitarie, laboratori, imprese, un ospedale d’avanguardia (il Galeazzi) ma anche housing sociale, centri culturali e moltissimo verde. Tutto molto “smart”, appunto.

Altre aree sono essenziali al ridisegno e al rilancio di Milano: la “Città della Salute” a Sesto San Giovani, l’area dell’Ortomercato ma soprattutto i vasti spazi dei sette scali ferroviari. Cosa farne? Il dibattito è aperto. Si tratta di sfruttare, nell’arco dei prossimi dieci anni, le opportunità legate a una straordinaria opportunità urbanistica, ma anche agli sviluppi dell’economia “digital” e alle innovazioni di “Industry4.0”, con gli incroci tra manifattura, servizi, logistica, “internet delle cose”, formazione, inedite prospettive di relazioni e socialità. Processi complessi, naturalmente. Densi di conflitti e contraddizioni. E non privi di rischi (Milano è attrattiva non solo per capitali d’investimento e intelligenze, ma anche per interessi mafiosi, come mostrano le mani lunghe e avide di ‘ndrangheta e Cosa Nostra). Ma anche processi di grande interesse e stimolanti prospettive. Da saper governare bene, nella tradizione, peraltro molto milanese, della collaborazione tra pubblico e privato, istituzioni e imprese.

Milano metamorfosi, in un’efficace sintesi. Nel cuore dell’Europa, lungo gli assi tra Ovest ed Est e Nord e Mediterraneo.

Pirelli e le biciclette: disponibili online centinaia di scatti fotografici dall’Archivio storico aziendale

La storia di Pirelli nel mondo delle due ruote è antichissima. Dopo le prime produzioni di articoli vari in gomma, tecnici e per il consumo, nel 1890 infatti la ditta milanese inizia, in via del tutto sperimentale, la produzione di pneumatici per velocipedi, appena due anni dopo che il veterinario scozzese J. B. Dunlop li aveva brevettati. Nel 1893 il pneumatico per velocipedi “tipo Milano” – così chiamato in omaggio alla città sede dell’azienda – viene brevettato e nel 1894 la Pirelli ne vende già per 825.000 lire, cifra pari al 12% del fatturato totale. Nel 1899 ai modelli da strada si affiancano quelli da corsa. E Pirelli è protagonista delle competizioni ciclistiche sin dal loro nascere, così come farà nel campo automobilistico qualche anno più tardi.

Le testimonianze della storia di questa produzione – così come delle numerose altre realizzate da Pirelli nel campo della gomma – sono conservate nell’Archivio Storico aziendale. Nella parte più antica dell’archivio – la raccolta dei “Documenti per la storia delle industrie Pirelli”, consultabile nella sezione “documenti” – si trovano i primi brevetti, cataloghi e pubblicità, come la bellissima cartolina disegnata dall’artista Aleandro Terzi per celebrare la partecipazione di Pirelli al primo Giro d’Italia, nel 1909. In un’altra sezione dell’archivio, quella prodotta dalla funzione della Propaganda, si ritrovano invece le testimonianze dell’attività di comunicazione e pubblicità svolta nel settore “velo” (così come negli altri svariati settori produttivi).

I mezzi di comunicazione utilizzati dall’azienda erano diversi: tra questi le corse, nella consapevolezza che l’affermazione dei pneumatici (velo ma anche moto e auto) nelle principali competizioni sportive rappresentasse un perfetto attestato della qualità del prodotto, che il consumatore poteva ritrovare anche nei modelli da strada. Il risultato sono centinaia di scatti fotografici e di pubblicità che documentano la partecipazione e, soprattutto, le vittorie della Pirelli in campo sportivo, su due e quattro ruote. Le fotografie delle corse ciclistiche prodotte dalla Direzione Propaganda, che da oggi vanno ad affiancare quelle già consultabili online relative alle corse auto, raccontano dei team equipaggiati da Pirelli tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento (Bianchi, Wolsit, Stucchi, Legnano), di competizioni epiche (Giro d’Italia, Tour de France, Milano-Sanremo) e meno note (come la “Sei giorni di New York” o la “Sei ore del velodromo Sempione”), e di grandi campioni che hanno fatto la storia del ciclismo: Alfredo Binda, Costante Girardengo, Fausto Coppi, Gino Bartali. Numerosissime fotografie testimoniano poi del Gran Premio Pirelli, gara ciclistica internazionale riservata ai corridori dilettanti, ideata da Arturo Pozzo e promossa da Pirelli, con un sostanzioso montepremi che ne faceva la più ricca delle gare riservate ai dialettanti, con diverse eliminatorie regionali e la finale disputata a Milano.

Un altro aspetto della comunicazione Pirelli che emerge dalle fotografie storiche di soggetto “velo” è la veicolazione di una sorta di “messaggio pubblicitario indiretto”, la cui espressione più alta fu raggiunta dalla rivista “Pirelli”. Sulla rivista sono infatti presenti numerosi articoli di argomento generico che fanno però un indiretto riferimento ai prodotti Pirelli, oppure composizioni realizzate da poeti e scrittori “ispirandosi” agli stessi prodotti dell’azienda. Ecco allora alcuni servizi fotografici che potrebbero apparire a tutta prima insoliti in mezzo alle fotografie di prodotto o di corse ciclistiche, che erano realizzate con un fine palesemente pubblicitario. Il grande fotografo Federico Patellani nel secondo Dopoguerra realizza un servizio fotografico in campagna, ritraendo momenti di svago e di lavoro. Ma la vera protagonista è la bicicletta, per raggiungere i campi con la falce o il forcone o la riva di un ruscello dove bagnarsi e lavare i panni. Una delle fotografie viene pubblicata sulla rivista “Pirelli” a illustrare un articolo del 1950 sull’utilizzo della gomma in campagna. Negli stessi anni Quaranta Milani realizza un servizio sulla bicicletta in città, a Milano: distese di biciclette parcheggiate, biciclette in movimento sullo sfondo dell’Arco della Pace o di piazza Cordusio, spazzini, preti, fidanzati, tutti in bicicletta.

Interessanti anche le fotografie degli anni Dieci -ritoccate a biacca per essere stampate- che si ritrovano sui listini, a loro volta consultabili nella sezione dei documenti per la storia delle industrie Pirelli. Il lavoro di catalogazione delle fotografie, e degli altri materiali, dà conto dei collegamenti tra queste diverse fonti dell’archivio: la possibilità di ricerca trasversale offerta dal sito di consultazione moltiplica le opportunità di collegamento.

Il lavoro svolto per consentire la pubblicazione e la consultazione on line di queste fotografie parte dal restauro e dalla messa in sicurezza dei materiali, originariamente pinzati a cartoncini con punti metallici. Si ricostruiscono poi i servizi fotografici e le “serie” raccolte dall’ufficio produttore (molto spesso fotografie realizzate da diversi autori ma riguardanti un medesimo avvenimento). Si passa poi alla loro catalogazione con un lavoro di ricerca su fonti interne ed esterne all’archivio, per attribuire autori, date, e soggetti rappresentati. Infine il lavoro si conclude con la digitalizzazione dei documenti originali.

Fondazione Pirelli proseguirà nei progetti di catalogazione e valorizzazione del suo patrimonio storico per rendere accessibili nuovi fondi archivistici che raccontano la storia del Gruppo Pirelli.

La storia di Pirelli nel mondo delle due ruote è antichissima. Dopo le prime produzioni di articoli vari in gomma, tecnici e per il consumo, nel 1890 infatti la ditta milanese inizia, in via del tutto sperimentale, la produzione di pneumatici per velocipedi, appena due anni dopo che il veterinario scozzese J. B. Dunlop li aveva brevettati. Nel 1893 il pneumatico per velocipedi “tipo Milano” – così chiamato in omaggio alla città sede dell’azienda – viene brevettato e nel 1894 la Pirelli ne vende già per 825.000 lire, cifra pari al 12% del fatturato totale. Nel 1899 ai modelli da strada si affiancano quelli da corsa. E Pirelli è protagonista delle competizioni ciclistiche sin dal loro nascere, così come farà nel campo automobilistico qualche anno più tardi.

Le testimonianze della storia di questa produzione – così come delle numerose altre realizzate da Pirelli nel campo della gomma – sono conservate nell’Archivio Storico aziendale. Nella parte più antica dell’archivio – la raccolta dei “Documenti per la storia delle industrie Pirelli”, consultabile nella sezione “documenti” – si trovano i primi brevetti, cataloghi e pubblicità, come la bellissima cartolina disegnata dall’artista Aleandro Terzi per celebrare la partecipazione di Pirelli al primo Giro d’Italia, nel 1909. In un’altra sezione dell’archivio, quella prodotta dalla funzione della Propaganda, si ritrovano invece le testimonianze dell’attività di comunicazione e pubblicità svolta nel settore “velo” (così come negli altri svariati settori produttivi).

I mezzi di comunicazione utilizzati dall’azienda erano diversi: tra questi le corse, nella consapevolezza che l’affermazione dei pneumatici (velo ma anche moto e auto) nelle principali competizioni sportive rappresentasse un perfetto attestato della qualità del prodotto, che il consumatore poteva ritrovare anche nei modelli da strada. Il risultato sono centinaia di scatti fotografici e di pubblicità che documentano la partecipazione e, soprattutto, le vittorie della Pirelli in campo sportivo, su due e quattro ruote. Le fotografie delle corse ciclistiche prodotte dalla Direzione Propaganda, che da oggi vanno ad affiancare quelle già consultabili online relative alle corse auto, raccontano dei team equipaggiati da Pirelli tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento (Bianchi, Wolsit, Stucchi, Legnano), di competizioni epiche (Giro d’Italia, Tour de France, Milano-Sanremo) e meno note (come la “Sei giorni di New York” o la “Sei ore del velodromo Sempione”), e di grandi campioni che hanno fatto la storia del ciclismo: Alfredo Binda, Costante Girardengo, Fausto Coppi, Gino Bartali. Numerosissime fotografie testimoniano poi del Gran Premio Pirelli, gara ciclistica internazionale riservata ai corridori dilettanti, ideata da Arturo Pozzo e promossa da Pirelli, con un sostanzioso montepremi che ne faceva la più ricca delle gare riservate ai dialettanti, con diverse eliminatorie regionali e la finale disputata a Milano.

Un altro aspetto della comunicazione Pirelli che emerge dalle fotografie storiche di soggetto “velo” è la veicolazione di una sorta di “messaggio pubblicitario indiretto”, la cui espressione più alta fu raggiunta dalla rivista “Pirelli”. Sulla rivista sono infatti presenti numerosi articoli di argomento generico che fanno però un indiretto riferimento ai prodotti Pirelli, oppure composizioni realizzate da poeti e scrittori “ispirandosi” agli stessi prodotti dell’azienda. Ecco allora alcuni servizi fotografici che potrebbero apparire a tutta prima insoliti in mezzo alle fotografie di prodotto o di corse ciclistiche, che erano realizzate con un fine palesemente pubblicitario. Il grande fotografo Federico Patellani nel secondo Dopoguerra realizza un servizio fotografico in campagna, ritraendo momenti di svago e di lavoro. Ma la vera protagonista è la bicicletta, per raggiungere i campi con la falce o il forcone o la riva di un ruscello dove bagnarsi e lavare i panni. Una delle fotografie viene pubblicata sulla rivista “Pirelli” a illustrare un articolo del 1950 sull’utilizzo della gomma in campagna. Negli stessi anni Quaranta Milani realizza un servizio sulla bicicletta in città, a Milano: distese di biciclette parcheggiate, biciclette in movimento sullo sfondo dell’Arco della Pace o di piazza Cordusio, spazzini, preti, fidanzati, tutti in bicicletta.

Interessanti anche le fotografie degli anni Dieci -ritoccate a biacca per essere stampate- che si ritrovano sui listini, a loro volta consultabili nella sezione dei documenti per la storia delle industrie Pirelli. Il lavoro di catalogazione delle fotografie, e degli altri materiali, dà conto dei collegamenti tra queste diverse fonti dell’archivio: la possibilità di ricerca trasversale offerta dal sito di consultazione moltiplica le opportunità di collegamento.

Il lavoro svolto per consentire la pubblicazione e la consultazione on line di queste fotografie parte dal restauro e dalla messa in sicurezza dei materiali, originariamente pinzati a cartoncini con punti metallici. Si ricostruiscono poi i servizi fotografici e le “serie” raccolte dall’ufficio produttore (molto spesso fotografie realizzate da diversi autori ma riguardanti un medesimo avvenimento). Si passa poi alla loro catalogazione con un lavoro di ricerca su fonti interne ed esterne all’archivio, per attribuire autori, date, e soggetti rappresentati. Infine il lavoro si conclude con la digitalizzazione dei documenti originali.

Fondazione Pirelli proseguirà nei progetti di catalogazione e valorizzazione del suo patrimonio storico per rendere accessibili nuovi fondi archivistici che raccontano la storia del Gruppo Pirelli.

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Quando il welfare è un sistema globale

Compie centoquarant’anni il welfare aziendale Pirelli, visto che nell’Archivio Storico del Gruppo -conservato presso la Fondazione Pirelli- c’è un ritaglio del giornale “La Lega Lombarda”, datato 8-9 maggio 1894, dove nell’articolo dal titolo “Lo stabilimento Pirelli & C.” si ricorda che “fin dal 1877 fu istituita in seno allo stabilimento una Cassa di mutuo soccorso per gli operai ammalati, alimentata da trattenute tenuissime -da 10 a 15 centesimi per la quindicina- sulla paga degli operai e dalle multe”.

Nella raccolta preziosa e unica di documenti che costituisce il fondo “Storia delle Industrie Pirelli”, quel giornale che testimonia i primi esperimenti di un welfare aziendale è collocato al n°331. Ma basta scorrere pochi numeri ed ecco che -al n°531, con data 29 settembre 1901- troviamo un’altra “pietra miliare” nella storia del welfare Pirelli: una piccola cartolina illustrata che la Società Anonima di Consumo tra gli addetti allo Stabilimento Pirelli & C. Milano invia al gerente Giovanni Battista in occasione del proprio primo anno di attività. E subito dopo, al numero 553 del 3 maggio 1902, ecco il libricino del “Concordato fra la Ditta e la Commissione Operai per miglioramenti di trattamento e disposizioni varie”: ormai l’attenzione per il benessere dei propri dipendenti è diventato un vero e proprio asset per l’azienda. Una garanzia di futuro sostenibile, diremmo oggi. Fortemente radicato nel tessuto sociale del territorio in cui opera sia in Italia che all’Estero, il Gruppo Pirelli ha avuto e ha tuttora i più vari ambiti di operazione: dalla salute al tempo libero, dalla formazione al supporto alla maternità e alla famiglia, dall’alimentazione alla cultura.

Nel complesso del patrimonio storico del Gruppo non mancano storie di pensionati che trovavano cure e alloggio presso la Casa di Riposo di Induno Olona, vicino a Varese, o le immagini delle mense e degli spacci aziendali per i lavoratori, o ancora le cronache delle attività dell’ambulatorio di fabbrica, così come iniziative destinate ai più giovani e alle donne.
I bambini degli anni Cinquanta che si affacciano alle finestre della Bicocca degli Arcimboldi, perchè lì c’è il loro asilo, o seguono diligentemente le lezioni del doposcuola interno. I bambini che si riprendono dai drammi della guerra nelle colonie marine e montane, tra Pietrasanta e le valli bergamasche. I bambini che vanno a vedere “dove lavora papà”, e lo stesso open day lo fanno in Italia quanto in Brasile o in Argentina. E naturalmente i bambini che festeggiano il Natale sorridendo dalle copertine dei giornali aziendali di tutto l’universo Pirelli. Ci sono le immagini sgranate e virate al verde delle ragazze che nel lontano 1923 partecipano -e vincono- al Raduno Sportivo sui campi di gioco di Bicocca, mentre sugli stessi campi  un neppure ventenne Adolfo Consolini imparava a fine anni Trenta a diventare campione olimpico. Ci sono le giovani mamme degli anni Settanta che confidano all’house organ “Fatti e Notizie” le loro necessità e desideri nella difficile operazione di conciliare lavoro e famiglia. Ci sono i tanti giovani che frequentano le biblioteche aziendali, e sono presenti agli incontri con l’autore” -autori del calibro di Montale e Quasimodo– e seguono gli spettacoli del gruppo “I Rabdomanti” presso il teatro che l’azienda ha appositamente costruito in Viale Sarca, davanti alla fabbrica. Altri giovani attraversano Viale Fulvio Testi e vanno a imparare un mestiere presso l’Istituto Piero Pirelli, scuola di formazione interna attiva fin dal 1958.

Storie e volti di generazioni intere di “pirelliani” che hanno attraversato -assieme all’azienda- i grandi cambiamenti strutturali della società contribuendo a far crescere un modello di sistema-welfare pressochè unico. Proprio come avviene ancora oggi.

Compie centoquarant’anni il welfare aziendale Pirelli, visto che nell’Archivio Storico del Gruppo -conservato presso la Fondazione Pirelli- c’è un ritaglio del giornale “La Lega Lombarda”, datato 8-9 maggio 1894, dove nell’articolo dal titolo “Lo stabilimento Pirelli & C.” si ricorda che “fin dal 1877 fu istituita in seno allo stabilimento una Cassa di mutuo soccorso per gli operai ammalati, alimentata da trattenute tenuissime -da 10 a 15 centesimi per la quindicina- sulla paga degli operai e dalle multe”.

Nella raccolta preziosa e unica di documenti che costituisce il fondo “Storia delle Industrie Pirelli”, quel giornale che testimonia i primi esperimenti di un welfare aziendale è collocato al n°331. Ma basta scorrere pochi numeri ed ecco che -al n°531, con data 29 settembre 1901- troviamo un’altra “pietra miliare” nella storia del welfare Pirelli: una piccola cartolina illustrata che la Società Anonima di Consumo tra gli addetti allo Stabilimento Pirelli & C. Milano invia al gerente Giovanni Battista in occasione del proprio primo anno di attività. E subito dopo, al numero 553 del 3 maggio 1902, ecco il libricino del “Concordato fra la Ditta e la Commissione Operai per miglioramenti di trattamento e disposizioni varie”: ormai l’attenzione per il benessere dei propri dipendenti è diventato un vero e proprio asset per l’azienda. Una garanzia di futuro sostenibile, diremmo oggi. Fortemente radicato nel tessuto sociale del territorio in cui opera sia in Italia che all’Estero, il Gruppo Pirelli ha avuto e ha tuttora i più vari ambiti di operazione: dalla salute al tempo libero, dalla formazione al supporto alla maternità e alla famiglia, dall’alimentazione alla cultura.

Nel complesso del patrimonio storico del Gruppo non mancano storie di pensionati che trovavano cure e alloggio presso la Casa di Riposo di Induno Olona, vicino a Varese, o le immagini delle mense e degli spacci aziendali per i lavoratori, o ancora le cronache delle attività dell’ambulatorio di fabbrica, così come iniziative destinate ai più giovani e alle donne.
I bambini degli anni Cinquanta che si affacciano alle finestre della Bicocca degli Arcimboldi, perchè lì c’è il loro asilo, o seguono diligentemente le lezioni del doposcuola interno. I bambini che si riprendono dai drammi della guerra nelle colonie marine e montane, tra Pietrasanta e le valli bergamasche. I bambini che vanno a vedere “dove lavora papà”, e lo stesso open day lo fanno in Italia quanto in Brasile o in Argentina. E naturalmente i bambini che festeggiano il Natale sorridendo dalle copertine dei giornali aziendali di tutto l’universo Pirelli. Ci sono le immagini sgranate e virate al verde delle ragazze che nel lontano 1923 partecipano -e vincono- al Raduno Sportivo sui campi di gioco di Bicocca, mentre sugli stessi campi  un neppure ventenne Adolfo Consolini imparava a fine anni Trenta a diventare campione olimpico. Ci sono le giovani mamme degli anni Settanta che confidano all’house organ “Fatti e Notizie” le loro necessità e desideri nella difficile operazione di conciliare lavoro e famiglia. Ci sono i tanti giovani che frequentano le biblioteche aziendali, e sono presenti agli incontri con l’autore” -autori del calibro di Montale e Quasimodo– e seguono gli spettacoli del gruppo “I Rabdomanti” presso il teatro che l’azienda ha appositamente costruito in Viale Sarca, davanti alla fabbrica. Altri giovani attraversano Viale Fulvio Testi e vanno a imparare un mestiere presso l’Istituto Piero Pirelli, scuola di formazione interna attiva fin dal 1958.

Storie e volti di generazioni intere di “pirelliani” che hanno attraversato -assieme all’azienda- i grandi cambiamenti strutturali della società contribuendo a far crescere un modello di sistema-welfare pressochè unico. Proprio come avviene ancora oggi.

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La mafia è nemica di imprese e mercato, lo testimoniano anche dieci storie a teatro

Si va anche a teatro, contro la mafia. E lo si fa proprio lì, in Brianza, dove da tempo le famiglie della ‘ndrangheta hanno messo radici, fanno affari, devastano territorio e pubblica amministrazione, corrompono e travolgono politici e imprenditori. A teatro, per fare da spettatori partecipi di “Dieci storie proprio così”, portate in scena da Giulia Minoli ed Emanuela Giordano (ne è anche la regista), dapprima al Piccolo Teatro di Milano e, ieri sera, al Teatro San Rocco di Seregno, cuore della Brianza, terra appunto di imprese innovative ma anche di traffici mafiosi, documentati, oltre che da inchieste giudiziarie e sentenze, da una aggiornata ricerca commissionata da Assolombarda e condotta da Mattia Maestri per il Cross, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano diretto dal professor Nando Dalla Chiesa (mercoledì mattina, lo spettacolo sarà dedicato a un pubblico di studenti, preparati da una serie di incontri nelle scuole). L’iniziativa ha il sostegno attivo di Assolombarda, impegnata da tempo a tutelare le buone imprese e a promuovere la cultura del mercato, nella radicata convinzione che la legalità sia fattore essenziale di competitività e che le mafie siano nemiche del mercato, un ostacolo alla crescita economica. Non è un evento, dunque, il teatro antimafia. Ma un passaggio d’un lungo percorso di legalità, che coinvolge attori sociali ed economici, scuole, persone delle istituzioni. Una scelta strategica di civiltà.

Legalità, economia, qualità delle istituzioni sono temi che hanno avuto grande eco durante gli “Stati generali contro le mafie”, organizzati proprio a Milano dal ministero della Giustizia e dal Comune il 23 e il 24, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con la partecipazione di ministri, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, economisti e uomini d’impresa, studiosi. Impegno contro la corruzione, “un furto di democrazia”,  per usare l’efficace espessione del presidente Mattarella e una porta d’ingresso per i boss mafiosi nella pubblica amministrazione, ma anche un fenomeno che, pericolosamente diffuso, non va confuso tout court con la mafia. Assunzione di responsabilità contro le infiltrazioni mafiose in politica. E insistenza sulle questioni economiche.

I clan mafiosi si muovono a loro agio in contesti di finanza torbida, occupano gli spazi internazionali dei paradisi fiscali, riciclano i proventi degli affari illeciti, corrompono circuiti economici e finanziari (il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia sono consapevoli della pericolosità di tali movimenti). Trovano buone occasioni nelle opportunità offerte dal mondo “digital” per muovere denaro (“Ci sarà, un Totò Riina informatico”, sostiene Alessandro Pansa, direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la sicurezza, il coordinamento dei “servizi segreti”). E vanno combattuti con accordi internazionali di cordinamento tra autorità di controllo, magistrature, forze di polizia. Ma la repressione, essenziale, non è tutto. Sono necessari impegni politici e di società e cultura.

“Un patto per la legalità con le imprese”, propone il ministro degli Interni Marco Minniti (“IlSole24Ore”, 25 novembre), una rivitalizzazione e un rilancio del Protocollo di Legalità firmato tra Viminale e Confindustria nel 2010. E’ una prospettiva che trova Assolombarda in piena sintonia. Insiste Minniti: “Il mondo dell’economia deve essere consapevole che l’economia mafiosa inquina e distorce e dunque deve fare massa critica con le istituzioni nella difesa della legalità. Il mio è un appello lanciato a tutte le associazioni e in particolare a Confindustria”. E’ un appello importante, da raccogliere e fare vivere, anche e soprattiutto sui territori dove le mafie conoscono da tempo una pericolosa evoluzione. Come la Lombardia e Milano, aree ricche e attrattive pure per i capitali d’origine illecita, per le attività criminali.

Mafia mercatista”, dicono alcuni magistrati, “una mafia che non spara più ma si è convertita alla logica del mercato”. Giudizio corretto, se ci si riferisce alla droga, al traffico di essere umani, a “servizi” come lo smaltimento di rifiuti tossici o il “giro” di prostituzione e cocaina. Ma “mercato” è parola forse impropria: perché “mercato” è vocabolo di valore, si riferisce a competizione, regole, confronto, trasparenza, attività lecite delle imprese, scambi regolari. Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra sono invece ombra, illegalità, affari sporchi, uso della violenza per battere la concorrenza. Non è questione terminologica, ma di sostanza dei valori dell’economia. Mercato e mafia, insomma, stanno su sponde diverse della società civile. Anzi, su sponde opposte. Del mercato, la mafia è nemica. Il mercato, con la mafia non cresce, ma muore.

Sta appunto in questa consapevolezza la scelta maturata già anni fa da Assolombarda per la legalità come asse portante della cultura d’impresa e poi riconfermata nel tempo. Si ripete da tempo agli imprenditori: la mafia non è un’agenzia di servizi per risolvere i problemi della concessione o del recupero d’un credito, per ottenere un appalto, battere un concorrente, evadere il fisco con false fatture, superare un ostacolo aziendale o sindacale. La relazione con un clan mafoso sembra una facile scorciatoia, ma “brucia” un’impresa per sempre. E le altre imprese ne vengono danneggiate. La mafia, insomma, è un tumore, un veleno. Da evitare. E combattere.

La scelta del teatro civile e del coinvolgimento delle scuole, nel “microcosmo” di Monza, va in questa direzione virtuosa. Il rafforzamento a Milano dei rapporti di Assolombarda con Palazzo di Giustizia, le istituzioni, le forze dell’ordine, è cardine dell’impegno per la legalità e la competitività. Gli stimoli per una migliore cultura d’impresa e del mercato ne sono essenza. Gli “affari dei clan”, oltre che un’inciviltà, sono anche un pessimo affare per la Lombardia delle buone imprese.

Si va anche a teatro, contro la mafia. E lo si fa proprio lì, in Brianza, dove da tempo le famiglie della ‘ndrangheta hanno messo radici, fanno affari, devastano territorio e pubblica amministrazione, corrompono e travolgono politici e imprenditori. A teatro, per fare da spettatori partecipi di “Dieci storie proprio così”, portate in scena da Giulia Minoli ed Emanuela Giordano (ne è anche la regista), dapprima al Piccolo Teatro di Milano e, ieri sera, al Teatro San Rocco di Seregno, cuore della Brianza, terra appunto di imprese innovative ma anche di traffici mafiosi, documentati, oltre che da inchieste giudiziarie e sentenze, da una aggiornata ricerca commissionata da Assolombarda e condotta da Mattia Maestri per il Cross, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano diretto dal professor Nando Dalla Chiesa (mercoledì mattina, lo spettacolo sarà dedicato a un pubblico di studenti, preparati da una serie di incontri nelle scuole). L’iniziativa ha il sostegno attivo di Assolombarda, impegnata da tempo a tutelare le buone imprese e a promuovere la cultura del mercato, nella radicata convinzione che la legalità sia fattore essenziale di competitività e che le mafie siano nemiche del mercato, un ostacolo alla crescita economica. Non è un evento, dunque, il teatro antimafia. Ma un passaggio d’un lungo percorso di legalità, che coinvolge attori sociali ed economici, scuole, persone delle istituzioni. Una scelta strategica di civiltà.

Legalità, economia, qualità delle istituzioni sono temi che hanno avuto grande eco durante gli “Stati generali contro le mafie”, organizzati proprio a Milano dal ministero della Giustizia e dal Comune il 23 e il 24, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con la partecipazione di ministri, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, economisti e uomini d’impresa, studiosi. Impegno contro la corruzione, “un furto di democrazia”,  per usare l’efficace espessione del presidente Mattarella e una porta d’ingresso per i boss mafiosi nella pubblica amministrazione, ma anche un fenomeno che, pericolosamente diffuso, non va confuso tout court con la mafia. Assunzione di responsabilità contro le infiltrazioni mafiose in politica. E insistenza sulle questioni economiche.

I clan mafiosi si muovono a loro agio in contesti di finanza torbida, occupano gli spazi internazionali dei paradisi fiscali, riciclano i proventi degli affari illeciti, corrompono circuiti economici e finanziari (il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia sono consapevoli della pericolosità di tali movimenti). Trovano buone occasioni nelle opportunità offerte dal mondo “digital” per muovere denaro (“Ci sarà, un Totò Riina informatico”, sostiene Alessandro Pansa, direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la sicurezza, il coordinamento dei “servizi segreti”). E vanno combattuti con accordi internazionali di cordinamento tra autorità di controllo, magistrature, forze di polizia. Ma la repressione, essenziale, non è tutto. Sono necessari impegni politici e di società e cultura.

“Un patto per la legalità con le imprese”, propone il ministro degli Interni Marco Minniti (“IlSole24Ore”, 25 novembre), una rivitalizzazione e un rilancio del Protocollo di Legalità firmato tra Viminale e Confindustria nel 2010. E’ una prospettiva che trova Assolombarda in piena sintonia. Insiste Minniti: “Il mondo dell’economia deve essere consapevole che l’economia mafiosa inquina e distorce e dunque deve fare massa critica con le istituzioni nella difesa della legalità. Il mio è un appello lanciato a tutte le associazioni e in particolare a Confindustria”. E’ un appello importante, da raccogliere e fare vivere, anche e soprattiutto sui territori dove le mafie conoscono da tempo una pericolosa evoluzione. Come la Lombardia e Milano, aree ricche e attrattive pure per i capitali d’origine illecita, per le attività criminali.

Mafia mercatista”, dicono alcuni magistrati, “una mafia che non spara più ma si è convertita alla logica del mercato”. Giudizio corretto, se ci si riferisce alla droga, al traffico di essere umani, a “servizi” come lo smaltimento di rifiuti tossici o il “giro” di prostituzione e cocaina. Ma “mercato” è parola forse impropria: perché “mercato” è vocabolo di valore, si riferisce a competizione, regole, confronto, trasparenza, attività lecite delle imprese, scambi regolari. Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra sono invece ombra, illegalità, affari sporchi, uso della violenza per battere la concorrenza. Non è questione terminologica, ma di sostanza dei valori dell’economia. Mercato e mafia, insomma, stanno su sponde diverse della società civile. Anzi, su sponde opposte. Del mercato, la mafia è nemica. Il mercato, con la mafia non cresce, ma muore.

Sta appunto in questa consapevolezza la scelta maturata già anni fa da Assolombarda per la legalità come asse portante della cultura d’impresa e poi riconfermata nel tempo. Si ripete da tempo agli imprenditori: la mafia non è un’agenzia di servizi per risolvere i problemi della concessione o del recupero d’un credito, per ottenere un appalto, battere un concorrente, evadere il fisco con false fatture, superare un ostacolo aziendale o sindacale. La relazione con un clan mafoso sembra una facile scorciatoia, ma “brucia” un’impresa per sempre. E le altre imprese ne vengono danneggiate. La mafia, insomma, è un tumore, un veleno. Da evitare. E combattere.

La scelta del teatro civile e del coinvolgimento delle scuole, nel “microcosmo” di Monza, va in questa direzione virtuosa. Il rafforzamento a Milano dei rapporti di Assolombarda con Palazzo di Giustizia, le istituzioni, le forze dell’ordine, è cardine dell’impegno per la legalità e la competitività. Gli stimoli per una migliore cultura d’impresa e del mercato ne sono essenza. Gli “affari dei clan”, oltre che un’inciviltà, sono anche un pessimo affare per la Lombardia delle buone imprese.

100 anni di un’impresa

Un libro in due parti racconta la storia della Rinascente delineandone cultura, assetti, evoluzione e strategie

La cultura di un’impresa si fa nel tempo, fra alti e bassi della gestione, per mezzo di errori e di successi, attraverso uomini e donne d’azienda. Ed è sempre importante apprendere il racconto delle fabbriche che hanno accresciuto con le loro comunità il senso del produrre. Vale anche per le imprese che si dedicano alla distribuzione e che, per certi versi, possono avere più diretti legami con il mercato del consumatore finale.  E’ il caso della Rinascente. Grande magazzino per antonomasia, questa azienda ha compiuti cento anni attraversando cicli di vita diversi e riuscendo sempre a trovare risorse nuove per continuare a stare sul mercato. E non solo. La Rinascente è stata ed è una di quelle aziende che hanno dato un’impronta al mercato italiano, alle abitudini e agli stili di consumo, alla crescita del Paese dal dopoguerra in poi. Conoscerne la storia è utile. E’ quindi importante quanto scritto e curato da Franco Amatori con i due libri dedicati all’anniversario di questa azienda: “100 anni della Rinascente”.

Amatori (che insegna storia economica alla Università Bocconi), ha composto una storia a più quadri e a più mani, arrivando a delineare l’evoluzione di una delle aziende di riferimento dell’economia e del costume italiani e senza nasconderne i periodi di difficoltà.

Il libro è composto da due parti nettamente distinte. Nel primo volume è raccontata la storia della Rinascente dal 1917 (anno della fondazione) al 1969. Si tratta di una narrazione che pone grande attenzione alle origine e al modello aziendale (a partire dal nome la cui ideazione è affidata a Gabriele d’Annunzio), ma anche al contesto nel quale la Rinascente nasce e si evolve. Tutto fino alla crisi dei rapporti ai vertici dell’azienda. Il secondo volume inizia dal ’69 e arriva fino ad oggi. In questa parte la scrittura è condotta a più mani e allarga il suo orizzonte nuovamente all’ambito economico e sociale nel quale la Rinascente si muove – l’evoluzione delle forme commerciali, la situazione in Europa -, così come ad alcuni aspetti particolari dell’organizzazione aziendale come la cura dell’immagine e della comunicazione interna ed esterna. Si delineano qui i tratti di un’impresa “non convenzionale” che imprime un’impronta ad aspetti cruciali dell’economia del consumo in Italia. In questa parte non vengono nemmeno trascurate le evoluzioni dell’assetto della proprietà, i rapporti sindacali, le difficoltà di una ristrutturazione importante e non semplice.

Fatica letteraria collettiva, il libro curato da Amatori è uno di quelli che può essere letto quasi come un romanzo d’impresa a più voci oppure come una analisi accurata di storia economica. “100 anni della Rinascente” va comunque letto da chi voglia comprendere una parte importante della storia d’impresa italiana.

100 anni della Rinascente

Franco Amatori (a cura di)

Egea, 2017

Un libro in due parti racconta la storia della Rinascente delineandone cultura, assetti, evoluzione e strategie

La cultura di un’impresa si fa nel tempo, fra alti e bassi della gestione, per mezzo di errori e di successi, attraverso uomini e donne d’azienda. Ed è sempre importante apprendere il racconto delle fabbriche che hanno accresciuto con le loro comunità il senso del produrre. Vale anche per le imprese che si dedicano alla distribuzione e che, per certi versi, possono avere più diretti legami con il mercato del consumatore finale.  E’ il caso della Rinascente. Grande magazzino per antonomasia, questa azienda ha compiuti cento anni attraversando cicli di vita diversi e riuscendo sempre a trovare risorse nuove per continuare a stare sul mercato. E non solo. La Rinascente è stata ed è una di quelle aziende che hanno dato un’impronta al mercato italiano, alle abitudini e agli stili di consumo, alla crescita del Paese dal dopoguerra in poi. Conoscerne la storia è utile. E’ quindi importante quanto scritto e curato da Franco Amatori con i due libri dedicati all’anniversario di questa azienda: “100 anni della Rinascente”.

Amatori (che insegna storia economica alla Università Bocconi), ha composto una storia a più quadri e a più mani, arrivando a delineare l’evoluzione di una delle aziende di riferimento dell’economia e del costume italiani e senza nasconderne i periodi di difficoltà.

Il libro è composto da due parti nettamente distinte. Nel primo volume è raccontata la storia della Rinascente dal 1917 (anno della fondazione) al 1969. Si tratta di una narrazione che pone grande attenzione alle origine e al modello aziendale (a partire dal nome la cui ideazione è affidata a Gabriele d’Annunzio), ma anche al contesto nel quale la Rinascente nasce e si evolve. Tutto fino alla crisi dei rapporti ai vertici dell’azienda. Il secondo volume inizia dal ’69 e arriva fino ad oggi. In questa parte la scrittura è condotta a più mani e allarga il suo orizzonte nuovamente all’ambito economico e sociale nel quale la Rinascente si muove – l’evoluzione delle forme commerciali, la situazione in Europa -, così come ad alcuni aspetti particolari dell’organizzazione aziendale come la cura dell’immagine e della comunicazione interna ed esterna. Si delineano qui i tratti di un’impresa “non convenzionale” che imprime un’impronta ad aspetti cruciali dell’economia del consumo in Italia. In questa parte non vengono nemmeno trascurate le evoluzioni dell’assetto della proprietà, i rapporti sindacali, le difficoltà di una ristrutturazione importante e non semplice.

Fatica letteraria collettiva, il libro curato da Amatori è uno di quelli che può essere letto quasi come un romanzo d’impresa a più voci oppure come una analisi accurata di storia economica. “100 anni della Rinascente” va comunque letto da chi voglia comprendere una parte importante della storia d’impresa italiana.

100 anni della Rinascente

Franco Amatori (a cura di)

Egea, 2017

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