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Contratti aziendali e produttività d’impresa

Una ricerca dell’Istat e dell’Università La Sapienza fornisce le basi statistiche per analizzare meglio un aspetto importante della cultura del produrre

 

Si lavora insieme per raggiungere risultati più importanti. Non solo dal punto di vista dei bilanci, ma anche del clima di fabbrica. Assunto che può apparire in alcuni casi scontato e banale, quello dei buoni rapporti fra le parti che interagiscono nell’organizzazione della produzione è invece ancora da conquistare interamente e passa attraverso strumenti che vengono affinati nella pratica. E’ il caso, per esempio, dei contratti integrativi aziendali. Manifestazione di una particolare cultura delle relazioni industriali e quindi d’impresa, gli accordi integrativi vanno ancora ben compresi e ben sfruttati.

Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi (entrambe dell’Istat) insieme a Riccardo Leoni (dell’Università di Bergamo e del CIRET Università La Sapienza, Roma), hanno provato ad analizzare dal punto di vista statistico il ruolo della contrattazione integrativa decentrata rispetto alla produttività aziendale proprio per arrivare ad una maggiore definizione dello stato dell’arte di questo aspetto della cultura d’impresa.

La base d’indagine è stata la recente banca-dati approntata dall’Istat, che contiene informazioni relative alle imprese appartenenti al settore privato sopra i 10 addetti (agricoltura esclusa).

La ricerca prende ovviamente le mosse da un inquadramento della contrattazione decentrata in Italia alla quale viene associata una descrizione dell’assetto istituzionale di riferimento per poi passare subito alla serie di ipotesi di lavoro degli autori e in particolare alla definizione della domanda principale: come la contrattazione integrativa può influenzare la produttività aziendale. Successivamente la ricerca passa ad una parte di analisi statistica dei dati per poi arrivare ad una serie di conclusioni.

Dal lavoro emerge, al di là di tecnicalità relative alle relazioni industriali e alla analisi statistica,  che in particolare, come spiegano gli autori, “la produttività non è influenzata tanto dalle singole pratiche e materie contrattate, quanto dall’insieme di queste, ivi inclusa la pratica dei premi aziendali”. Con alcune importanti precisazioni. L’erogazione unilaterale di premi ai dipendenti, per esempio,  “non ha effetti di miglioramento sulla produttività”. Molto, poi, conta l’assetto organizzativo di vertice e quello relativo ai rapporti fra impresa e proprietà della stessa.

Il lavoro di Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi e Riccardo Leoni non è certo una lettura facile e scorrevole, ma ha il pregio di dare base certa ad una serie di osservazioni che aiutano molto a definire una cultura d’impresa che si fa nel tempo, ma che deve confrontarsi anche con regole e relazioni industriali che influenzano la costruzione di un clima d’impresa in continuo adattamento ed evoluzione.

Contrattazioni integrative aziendali e produttività: nuove evidenze empiriche sulle imprese italiane

Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi, Riccardo Leoni

ISTAT “Sistema Informativo sulla Contrattazione Aziendale” , ottobre 2017

Contrattazioni integrative aziendali e produttività: nuove evidenze empiriche sulle imprese italiane

Una ricerca dell’Istat e dell’Università La Sapienza fornisce le basi statistiche per analizzare meglio un aspetto importante della cultura del produrre

 

Si lavora insieme per raggiungere risultati più importanti. Non solo dal punto di vista dei bilanci, ma anche del clima di fabbrica. Assunto che può apparire in alcuni casi scontato e banale, quello dei buoni rapporti fra le parti che interagiscono nell’organizzazione della produzione è invece ancora da conquistare interamente e passa attraverso strumenti che vengono affinati nella pratica. E’ il caso, per esempio, dei contratti integrativi aziendali. Manifestazione di una particolare cultura delle relazioni industriali e quindi d’impresa, gli accordi integrativi vanno ancora ben compresi e ben sfruttati.

Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi (entrambe dell’Istat) insieme a Riccardo Leoni (dell’Università di Bergamo e del CIRET Università La Sapienza, Roma), hanno provato ad analizzare dal punto di vista statistico il ruolo della contrattazione integrativa decentrata rispetto alla produttività aziendale proprio per arrivare ad una maggiore definizione dello stato dell’arte di questo aspetto della cultura d’impresa.

La base d’indagine è stata la recente banca-dati approntata dall’Istat, che contiene informazioni relative alle imprese appartenenti al settore privato sopra i 10 addetti (agricoltura esclusa).

La ricerca prende ovviamente le mosse da un inquadramento della contrattazione decentrata in Italia alla quale viene associata una descrizione dell’assetto istituzionale di riferimento per poi passare subito alla serie di ipotesi di lavoro degli autori e in particolare alla definizione della domanda principale: come la contrattazione integrativa può influenzare la produttività aziendale. Successivamente la ricerca passa ad una parte di analisi statistica dei dati per poi arrivare ad una serie di conclusioni.

Dal lavoro emerge, al di là di tecnicalità relative alle relazioni industriali e alla analisi statistica,  che in particolare, come spiegano gli autori, “la produttività non è influenzata tanto dalle singole pratiche e materie contrattate, quanto dall’insieme di queste, ivi inclusa la pratica dei premi aziendali”. Con alcune importanti precisazioni. L’erogazione unilaterale di premi ai dipendenti, per esempio,  “non ha effetti di miglioramento sulla produttività”. Molto, poi, conta l’assetto organizzativo di vertice e quello relativo ai rapporti fra impresa e proprietà della stessa.

Il lavoro di Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi e Riccardo Leoni non è certo una lettura facile e scorrevole, ma ha il pregio di dare base certa ad una serie di osservazioni che aiutano molto a definire una cultura d’impresa che si fa nel tempo, ma che deve confrontarsi anche con regole e relazioni industriali che influenzano la costruzione di un clima d’impresa in continuo adattamento ed evoluzione.

Contrattazioni integrative aziendali e produttività: nuove evidenze empiriche sulle imprese italiane

Laura Bisio, Stefania Cardinaleschi, Riccardo Leoni

ISTAT “Sistema Informativo sulla Contrattazione Aziendale” , ottobre 2017

Contrattazioni integrative aziendali e produttività: nuove evidenze empiriche sulle imprese italiane

XVI Settimana della Cultura d’Impresa. Pirelli: 145 anni d’innovazione, 2017

Il Campione Girardengo, ciclista Pirelli

Quante volte, con quante maglie diverse si sono incontrati i destini di Girardengo e della Pirelli. Lui era di Novi Ligure e da lì – fin da ragazzino – vedeva passare la Milano-Sanremo e il Giro d’Italia. Quando Giovanni Cervi lo infilò in volata nella pineta di Ravenna era un ventunenne già professionista: Campione Italiano, vincitore di tappe al Giro, primo arrivato nella gran fondo Roma-Napoli-Roma dell’anno prima. Forse non era ancora diventato il “Campionissimo”, ma essere “Il Gira” già bastava per entrare nelle mire delle grandi squadre. La Bianchi, certamente. E poi la Stucchi, che nel 1921 era “Stucchi-Pirelli”. Con la maglia dell’officina milanese – macchine per cucire, biciclette, tricicli a motore – fondata da Giulio Prinetti e Augusto Stucchi, “il Gira” vinse la Milano-Sanremo nell’aprile del ’21 e subito dopo le prime quattro tappe del Giro d’Italia. Alla quinta, in Abruzzo, si scontrò rovinosamente con altri ciclisti. Dice la leggenda che – guardando Castel di Sangro – tracciò una croce sulla strada impolverata tuonando “Girardengo si ferma qui!”. Alla fine vinse l’acerrimo nemico Giovanni Brunero della Legnano.

Dopo la Bianchi e la Stucchi, un altro incrocio “pirelliano”. Questa volta con la maglia della Wolsit, licenziataria italiana dell’inglese Wolseley, tra il 1925 e il 1926. Trentaduenne, Girardengo si sentiva più che mai Campionissimo. Liquidate di fila altre due Milano-Sanremo: davanti – ancora una volta – a Brunero nel Venticinque, battendo Nello Ciaccheri, della Legnano, nel Ventisei. Sempre nel ’25, un altro Campionato Italiano in cassaforte, ed era il numero nove. E poi c’era naturalmente il Giro d’Italia, ma fu qui che cominciarono i primi scricchiolii. Nel Giro partito il 16 maggio del 1925, le sei tappe vinte non bastarono a tenersi la maglia rosa fino alla fine: era spuntato un giovanotto che, nato a Cittiglio, in provincia di Varese, era prima andato a fare lo stuccatore a Nizza per poi tornare in Italia l’anno precedente e mettersi a correre per la Legnano. E vincere il Giro davanti al Campionissimo. Il giovanotto era Alfredo Binda, e la sua storia con Pirelli sarebbe stata ancora più lunga di quella di Girardengo. Gli scricchiolii si fecero più forti al Giro del 1926: due sole tappe vinte, il ritiro a metà gara. E davanti non Binda ma, peggio ancora, lo storico nemico Brunero con l’appoggio del giovanotto di Cittiglio per la doppietta finale della Legnano.

Nell’Archivio Storico Pirelli c’è una foto, tra le numerose altre, dove compare Girardengo scattata da Ferruccio Testi nell’ottobre del 1931. Siamo a Modena. L’ormai ex Campionissimo è a bordo della sua (è targata Alessandria) Fiat 509. In piedi, vicino, c’è Enzo Ferrari. Dietro, come al solito corrucciato, spunta Tazio Nuvolari e al suo fianco Eugenio Siena, che da meccanico collaudatore Alfa Romeo sta studiando da pilota. Ci piace pensare che lui, il Campionissimo del pedale, sia venuto a rendere omaggio ai Campionissimi dell’acceleratore – non certo del freno – della neonata Scuderia Ferrari.

Ecco cosa racconta il nostro Archivio Storico di Costante Girardengo, ciclista Pirelli. La storia della sua presunta amicizia con il bandito Sante Pollastri, suo compaesano e grande tifoso, è lasciata alla musica di Francesco De Gregori.

Quante volte, con quante maglie diverse si sono incontrati i destini di Girardengo e della Pirelli. Lui era di Novi Ligure e da lì – fin da ragazzino – vedeva passare la Milano-Sanremo e il Giro d’Italia. Quando Giovanni Cervi lo infilò in volata nella pineta di Ravenna era un ventunenne già professionista: Campione Italiano, vincitore di tappe al Giro, primo arrivato nella gran fondo Roma-Napoli-Roma dell’anno prima. Forse non era ancora diventato il “Campionissimo”, ma essere “Il Gira” già bastava per entrare nelle mire delle grandi squadre. La Bianchi, certamente. E poi la Stucchi, che nel 1921 era “Stucchi-Pirelli”. Con la maglia dell’officina milanese – macchine per cucire, biciclette, tricicli a motore – fondata da Giulio Prinetti e Augusto Stucchi, “il Gira” vinse la Milano-Sanremo nell’aprile del ’21 e subito dopo le prime quattro tappe del Giro d’Italia. Alla quinta, in Abruzzo, si scontrò rovinosamente con altri ciclisti. Dice la leggenda che – guardando Castel di Sangro – tracciò una croce sulla strada impolverata tuonando “Girardengo si ferma qui!”. Alla fine vinse l’acerrimo nemico Giovanni Brunero della Legnano.

Dopo la Bianchi e la Stucchi, un altro incrocio “pirelliano”. Questa volta con la maglia della Wolsit, licenziataria italiana dell’inglese Wolseley, tra il 1925 e il 1926. Trentaduenne, Girardengo si sentiva più che mai Campionissimo. Liquidate di fila altre due Milano-Sanremo: davanti – ancora una volta – a Brunero nel Venticinque, battendo Nello Ciaccheri, della Legnano, nel Ventisei. Sempre nel ’25, un altro Campionato Italiano in cassaforte, ed era il numero nove. E poi c’era naturalmente il Giro d’Italia, ma fu qui che cominciarono i primi scricchiolii. Nel Giro partito il 16 maggio del 1925, le sei tappe vinte non bastarono a tenersi la maglia rosa fino alla fine: era spuntato un giovanotto che, nato a Cittiglio, in provincia di Varese, era prima andato a fare lo stuccatore a Nizza per poi tornare in Italia l’anno precedente e mettersi a correre per la Legnano. E vincere il Giro davanti al Campionissimo. Il giovanotto era Alfredo Binda, e la sua storia con Pirelli sarebbe stata ancora più lunga di quella di Girardengo. Gli scricchiolii si fecero più forti al Giro del 1926: due sole tappe vinte, il ritiro a metà gara. E davanti non Binda ma, peggio ancora, lo storico nemico Brunero con l’appoggio del giovanotto di Cittiglio per la doppietta finale della Legnano.

Nell’Archivio Storico Pirelli c’è una foto, tra le numerose altre, dove compare Girardengo scattata da Ferruccio Testi nell’ottobre del 1931. Siamo a Modena. L’ormai ex Campionissimo è a bordo della sua (è targata Alessandria) Fiat 509. In piedi, vicino, c’è Enzo Ferrari. Dietro, come al solito corrucciato, spunta Tazio Nuvolari e al suo fianco Eugenio Siena, che da meccanico collaudatore Alfa Romeo sta studiando da pilota. Ci piace pensare che lui, il Campionissimo del pedale, sia venuto a rendere omaggio ai Campionissimi dell’acceleratore – non certo del freno – della neonata Scuderia Ferrari.

Ecco cosa racconta il nostro Archivio Storico di Costante Girardengo, ciclista Pirelli. La storia della sua presunta amicizia con il bandito Sante Pollastri, suo compaesano e grande tifoso, è lasciata alla musica di Francesco De Gregori.

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Un anno di biblioteche Pirelli. Conversazione tra libri e cucina

Il 20 novembre abbiamo festeggiato il primo anno delle biblioteche aziendali Pirelli, parlando di libri, buona cucina e Milano. Un dialogo conviviale tra lo scrittore Alessandro Robecchi e il cuoco Filippo La Mantia, in compagnia del direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò.

Alessandro Robecchi è scrittore di libri noir ambientati a Milano e, come da buona tradizione del genere, da Nero Wolf al Commissario Montalbano, a Carlo Monterossi, la tavola è stato il centro attorno al quale ci si è ritrovati conversare e cucinare. Si è parlato di Milano, la Milano nella quale è cresciuto Alessandro Robecchi e la Milano che ha saputo e sa accogliere i migranti che vengono da ogni luogo, come ha ricordato Filippo La Mantia. La cucina è stata uno dei principali argomenti della serata, dal panino con la milza al celebre risotto dell’Adalgisa di Gadda, fino al couscous preparato per l’occasione dal cuoco palermitano. Cucina e libri: un connubio che è anche esplorazione culturale.

Un anno per le nuove biblioteche aziendali ma quasi un secolo di biblioteche e iniziative pirelliane volte a promuovere la lettura e la cultura. La serata è stata un’occasione per raccontare la storia di un’azienda che ha voluto e continua a voler essere protagonista nella promozione della cultura sul territorio milanese, già con la prima biblioteca Pirelli – fondata nel 1928 – che è stata attiva durante il secolo scorso, ma anche con il Centro Culturale Pirelli, luogo di grande fermento culturale, che ha ospitato molti artisti e scrittori della cultura milanese e non solo.

E poi Milano, al centro del percorso espositivo Visioni milanesi: Pirelli racconta la città con il quale si è voluto raccontare la città attraverso le immagini della rivista Pirelli e i materiali storici conservati presso la Fondazione Pirelli. Un percorso visivo per narrare anche la trasformazione della Pirelli, un’impresa con uno sguardo internazionale, ma profonde radici milanesi e sempre presente nella vita sociale e culturale di questa città.

Il 20 novembre abbiamo festeggiato il primo anno delle biblioteche aziendali Pirelli, parlando di libri, buona cucina e Milano. Un dialogo conviviale tra lo scrittore Alessandro Robecchi e il cuoco Filippo La Mantia, in compagnia del direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò.

Alessandro Robecchi è scrittore di libri noir ambientati a Milano e, come da buona tradizione del genere, da Nero Wolf al Commissario Montalbano, a Carlo Monterossi, la tavola è stato il centro attorno al quale ci si è ritrovati conversare e cucinare. Si è parlato di Milano, la Milano nella quale è cresciuto Alessandro Robecchi e la Milano che ha saputo e sa accogliere i migranti che vengono da ogni luogo, come ha ricordato Filippo La Mantia. La cucina è stata uno dei principali argomenti della serata, dal panino con la milza al celebre risotto dell’Adalgisa di Gadda, fino al couscous preparato per l’occasione dal cuoco palermitano. Cucina e libri: un connubio che è anche esplorazione culturale.

Un anno per le nuove biblioteche aziendali ma quasi un secolo di biblioteche e iniziative pirelliane volte a promuovere la lettura e la cultura. La serata è stata un’occasione per raccontare la storia di un’azienda che ha voluto e continua a voler essere protagonista nella promozione della cultura sul territorio milanese, già con la prima biblioteca Pirelli – fondata nel 1928 – che è stata attiva durante il secolo scorso, ma anche con il Centro Culturale Pirelli, luogo di grande fermento culturale, che ha ospitato molti artisti e scrittori della cultura milanese e non solo.

E poi Milano, al centro del percorso espositivo Visioni milanesi: Pirelli racconta la città con il quale si è voluto raccontare la città attraverso le immagini della rivista Pirelli e i materiali storici conservati presso la Fondazione Pirelli. Un percorso visivo per narrare anche la trasformazione della Pirelli, un’impresa con uno sguardo internazionale, ma profonde radici milanesi e sempre presente nella vita sociale e culturale di questa città.

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L’economia umana che fa bene all’impresa

Pubblicato in Italia un libro importante che coniuga ragionamento economico e buona prassi sociale

L’impresa è profitto e basta. Indicazione categorica, questa, che ha un suo fondamento ma che risulta essere parziale rispetto alla realtà. Che i bilanci debbano chiudere positivamente, che la produzione debba essere svolta in maniera ottimale ed efficiente è certo. Accanto a questo c’è però dell’altro. Così, almeno, è in ogni impresa a tutto tondo che veramente sia tale. La sintesi è in quella cultura del produrre che guarda ai conti ma anche all’uomo, all’efficienza ma anche oltre il perimetro della tecnica. La buona impresa, insomma, non ottimizza solo il ciclo produttivo ma anche il suo stare al mondo. Ed evita le trappole del calcolo a tutti i costi e dell’ottimizzazione portata all’estremo. Proprio sui rischi dell’ottimizzazione, su come superarli e arrivare ad un’economia diversa, ha ragionato Julian Nida-Rümelin,  professore ordinario di filosofia e teoria politica all’Università di Monaco di Baviera. Con il suo “Per un’economia umana. La trappola dell’ottimizzazione”, Nida-Rümelin ha messo sulla carta un ampio percorso fra la filosofia e l’economia che parte dai canoni classici del ragionamento economico razionalista per arrivare a traguardi importanti e per certi versi inaspettati.

Il libro prende le mosse dalla considerazione della “sconfitta definitiva dell’homo oeconomicus” visto come “l’ottimizzatore protagonista di un sistema economico autodistruttivo se non sottoposto a misure umane di contenimento”. Per Nida-Rümelin è possibile arrivare ad un’economia diversa e più moderna recuperando principi ed etica dimenticati, che fanno riferimento alla filosofia classica e alle virtù antiche, all’etica e al dialogo piuttosto che alla contrapposizione, al calcolo e allo scontro. “Il risultato non è un’utopia – precisa l’autore -. La posta in gioco non è la descrizione di uno stato di cose desiderabile, ma non realizzabile ne futuro prossimo, bensì le condizioni pragmatiche di una prassi economica umana”.

Il libro quindi è rigidamente diviso in tre parti. Prima di tutto una chiara analisi dei concetti di razionalità economica e dell’idea di ottimizzazione; poi un recupero della filosofia greca classica di valori e virtù considerate dall’autore irrinunciabili: affidabilità, capacità di giudizio, forza decisionale, rispetto, lealtà e attenzione. Il libro si chiude con un discorso su come sia possibile conciliare ottimizzazione economica e prassi ragionevole e accettabile.

Scandito da capitoli chiaramente individuati da concetti, il libro di Nida-Rümelin è una bella lettura, da fare anche se a tratti può risultare difficile; ma la scrittura dell’autore si svolge in maniera piana, in grado di essere affrontata da chiunque voglia per davvero comprendere dove può andare l’economia. Alimento puro per una buona cultura d’impresa che deve essere patrimonio comune. Nelle ultime righe del libro l’autore scrive che “il compito di plasmare la prassi economica umana e tale da richiedere la collaborazione di molti interlocutori: datori di lavoro e dipendenti, associazioni e sindacati, dirigenti, consigli delle aziende e rappresentanze del personale, parlamenti e governi, cittadinanza e società civile”.

Bella e importante è poi la citazione di Platone che chiude la fatica letteraria di Nida-Rümelin: “Non sara il demone a scegliere voi, ma voi il demone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, e di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa”.

Per un’economia umana. La trappola dell’ottimizzazione

Julian Nida-Rümelin

Franco Angeli, 2017

 

Pubblicato in Italia un libro importante che coniuga ragionamento economico e buona prassi sociale

L’impresa è profitto e basta. Indicazione categorica, questa, che ha un suo fondamento ma che risulta essere parziale rispetto alla realtà. Che i bilanci debbano chiudere positivamente, che la produzione debba essere svolta in maniera ottimale ed efficiente è certo. Accanto a questo c’è però dell’altro. Così, almeno, è in ogni impresa a tutto tondo che veramente sia tale. La sintesi è in quella cultura del produrre che guarda ai conti ma anche all’uomo, all’efficienza ma anche oltre il perimetro della tecnica. La buona impresa, insomma, non ottimizza solo il ciclo produttivo ma anche il suo stare al mondo. Ed evita le trappole del calcolo a tutti i costi e dell’ottimizzazione portata all’estremo. Proprio sui rischi dell’ottimizzazione, su come superarli e arrivare ad un’economia diversa, ha ragionato Julian Nida-Rümelin,  professore ordinario di filosofia e teoria politica all’Università di Monaco di Baviera. Con il suo “Per un’economia umana. La trappola dell’ottimizzazione”, Nida-Rümelin ha messo sulla carta un ampio percorso fra la filosofia e l’economia che parte dai canoni classici del ragionamento economico razionalista per arrivare a traguardi importanti e per certi versi inaspettati.

Il libro prende le mosse dalla considerazione della “sconfitta definitiva dell’homo oeconomicus” visto come “l’ottimizzatore protagonista di un sistema economico autodistruttivo se non sottoposto a misure umane di contenimento”. Per Nida-Rümelin è possibile arrivare ad un’economia diversa e più moderna recuperando principi ed etica dimenticati, che fanno riferimento alla filosofia classica e alle virtù antiche, all’etica e al dialogo piuttosto che alla contrapposizione, al calcolo e allo scontro. “Il risultato non è un’utopia – precisa l’autore -. La posta in gioco non è la descrizione di uno stato di cose desiderabile, ma non realizzabile ne futuro prossimo, bensì le condizioni pragmatiche di una prassi economica umana”.

Il libro quindi è rigidamente diviso in tre parti. Prima di tutto una chiara analisi dei concetti di razionalità economica e dell’idea di ottimizzazione; poi un recupero della filosofia greca classica di valori e virtù considerate dall’autore irrinunciabili: affidabilità, capacità di giudizio, forza decisionale, rispetto, lealtà e attenzione. Il libro si chiude con un discorso su come sia possibile conciliare ottimizzazione economica e prassi ragionevole e accettabile.

Scandito da capitoli chiaramente individuati da concetti, il libro di Nida-Rümelin è una bella lettura, da fare anche se a tratti può risultare difficile; ma la scrittura dell’autore si svolge in maniera piana, in grado di essere affrontata da chiunque voglia per davvero comprendere dove può andare l’economia. Alimento puro per una buona cultura d’impresa che deve essere patrimonio comune. Nelle ultime righe del libro l’autore scrive che “il compito di plasmare la prassi economica umana e tale da richiedere la collaborazione di molti interlocutori: datori di lavoro e dipendenti, associazioni e sindacati, dirigenti, consigli delle aziende e rappresentanze del personale, parlamenti e governi, cittadinanza e società civile”.

Bella e importante è poi la citazione di Platone che chiude la fatica letteraria di Nida-Rümelin: “Non sara il demone a scegliere voi, ma voi il demone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, e di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa”.

Per un’economia umana. La trappola dell’ottimizzazione

Julian Nida-Rümelin

Franco Angeli, 2017

 

Cultura d’impresa del terzo settore

Una tesi presentata alla Sapienza ragiona sui legami fra cambiamenti nella struttura e del mercato del lavoro ed economia sociale

L’impresa e l’occupazione cambiano con il mutare delle tecnologie a disposizione. Assunto fondamentale e, in apparenza, elementare, in realtà il legame fra impresa, occupazione e tecnica nasconde problemi importanti e implica un continuo cambio anche della cultura del produrre. La complessità delle relazioni fra questi elementi è grande. E va indagata con cautela e attenzione. È ciò che ha provato a fare guardando ad una parte della questione,  Federico Fiorelli con la sua ricerca di dottorato in Sociologia e Sceinze sociali presentata all’Università di “La Sapienza”.

“Verso una nuova economia sociale. Il ruolo del Terzo Settore nel riassorbimento della disoccupazione tecnologica e nella soddisfazione dei nuovi bisogni sociali in Italia” è un lavoro complesso che tenta di mettere in relazione l’evoluzione dell’attuale sistema industriale con le potenzialità occupazionali offerte dal terzo settore. Con maggior precisione, Fiorelli spiega l’intento è quello di “analizzare il legame che intercorre tra l’evoluzione della società capitalista, osservando principalmente il mutamento dei bisogni sociali, e gli effetti occupazionali dovuti al cambiamento tecnologico”. Il cambiamento dell’occupazione, secondo l’autore, può essere contrastato nei suoi effetti negativi pensando ad una “maggiore ibridazione tra l’attuale struttura del mercato capitalista (terziarizzata, globale e digitalizzata) e il terzo settore”. E ancora: il terzo settore non viene “analizzato come una pericolosa anomalia del sistema economico che interviene nel caso in cui sussistano dei fallimenti del mercato”. Al contrario è visto “come un possibile contributo all’evoluzione dell’impalcatura economica dinnanzi al manifestarsi di nuovi e profondi mutamenti sociali. Il mercato e il terzo settore non rappresentano due poli opposti ma, al contrario, due fasi di uno stesso processo che parte da una dimensione materiale per evolversi verso una dimensione che nella produzione è sempre più virtuale e nella distribuzione sempre più relazionale”. Culture d’impresa diverse eppure simili, che si compenetrano, che svolgono funzioni complementari.

Il percorso di Fiorelli segue una sentiero classico. Prima di tutto un inquadramento dei collegamenti fra i metodi di studio della società e il metodo di produzione industriale; poi un approfondimento dell’evoluzione storica e organizzativa  degli spazi di produzione, delle tecnologie e dei metodi di produzione; infine l’esame delle relazioni fra terzo settore e mercato del lavoro.

Scrive verso la fine del suo lavoro Fiorelli: “Da un punto di vista globale la disoccupazione tecnologica diviene l’effetto di un mercato non sempre in grado di soddisfare i bisogni sociali degli individui. Imporre nuovi bisogni materiali e ricorrere alle tecnologie per ridurre i prezzi dei beni di consumo, anche quando quest’ultimi rappresentano ‘l’incarnazione del superfluo’, comporta continui e imprevedibili mutamenti della struttura occupazionale”. Fiorelli quindi conclude spiegando che “la crescita delle unità produttive che operano nell’economia sociale determina la possibilità di ricostruire un rapporto tra efficienza economica e sostenibilità sociale. Il cambiamento tecnologico richiede un capitale umano maggiormente formato rispetto al passato così come il cambiamento della domanda di bisogni sociali richiede la produzione di nuovi beni di natura relazionale. Rispondere attivamente a questi cambiamenti significa riconoscere l’importanza di un’ibridazione dell’economia di mercato”.

Quanto scritto da Federico Fiorelli non è sempre di facile approccio, ma fa pensare e quindi rappresenta un’utile lettura.

Verso una nuova economia sociale. Il ruolo del Terzo Settore nel riassorbimento della disoccupazione tecnologica e nella soddisfazione dei nuovi bisogni sociali in Italia

Federico Fiorelli

Tesi di dottorato, Università di Roma “La Sapienza” Dipartimento di scienze sociali ed economiche, Corso di Dottorato in Sociologia e Scienze Sociali Applicate (SESSA) XXIX Ciclo, 2017

Verso una nuova economia sociale.

Una tesi presentata alla Sapienza ragiona sui legami fra cambiamenti nella struttura e del mercato del lavoro ed economia sociale

L’impresa e l’occupazione cambiano con il mutare delle tecnologie a disposizione. Assunto fondamentale e, in apparenza, elementare, in realtà il legame fra impresa, occupazione e tecnica nasconde problemi importanti e implica un continuo cambio anche della cultura del produrre. La complessità delle relazioni fra questi elementi è grande. E va indagata con cautela e attenzione. È ciò che ha provato a fare guardando ad una parte della questione,  Federico Fiorelli con la sua ricerca di dottorato in Sociologia e Sceinze sociali presentata all’Università di “La Sapienza”.

“Verso una nuova economia sociale. Il ruolo del Terzo Settore nel riassorbimento della disoccupazione tecnologica e nella soddisfazione dei nuovi bisogni sociali in Italia” è un lavoro complesso che tenta di mettere in relazione l’evoluzione dell’attuale sistema industriale con le potenzialità occupazionali offerte dal terzo settore. Con maggior precisione, Fiorelli spiega l’intento è quello di “analizzare il legame che intercorre tra l’evoluzione della società capitalista, osservando principalmente il mutamento dei bisogni sociali, e gli effetti occupazionali dovuti al cambiamento tecnologico”. Il cambiamento dell’occupazione, secondo l’autore, può essere contrastato nei suoi effetti negativi pensando ad una “maggiore ibridazione tra l’attuale struttura del mercato capitalista (terziarizzata, globale e digitalizzata) e il terzo settore”. E ancora: il terzo settore non viene “analizzato come una pericolosa anomalia del sistema economico che interviene nel caso in cui sussistano dei fallimenti del mercato”. Al contrario è visto “come un possibile contributo all’evoluzione dell’impalcatura economica dinnanzi al manifestarsi di nuovi e profondi mutamenti sociali. Il mercato e il terzo settore non rappresentano due poli opposti ma, al contrario, due fasi di uno stesso processo che parte da una dimensione materiale per evolversi verso una dimensione che nella produzione è sempre più virtuale e nella distribuzione sempre più relazionale”. Culture d’impresa diverse eppure simili, che si compenetrano, che svolgono funzioni complementari.

Il percorso di Fiorelli segue una sentiero classico. Prima di tutto un inquadramento dei collegamenti fra i metodi di studio della società e il metodo di produzione industriale; poi un approfondimento dell’evoluzione storica e organizzativa  degli spazi di produzione, delle tecnologie e dei metodi di produzione; infine l’esame delle relazioni fra terzo settore e mercato del lavoro.

Scrive verso la fine del suo lavoro Fiorelli: “Da un punto di vista globale la disoccupazione tecnologica diviene l’effetto di un mercato non sempre in grado di soddisfare i bisogni sociali degli individui. Imporre nuovi bisogni materiali e ricorrere alle tecnologie per ridurre i prezzi dei beni di consumo, anche quando quest’ultimi rappresentano ‘l’incarnazione del superfluo’, comporta continui e imprevedibili mutamenti della struttura occupazionale”. Fiorelli quindi conclude spiegando che “la crescita delle unità produttive che operano nell’economia sociale determina la possibilità di ricostruire un rapporto tra efficienza economica e sostenibilità sociale. Il cambiamento tecnologico richiede un capitale umano maggiormente formato rispetto al passato così come il cambiamento della domanda di bisogni sociali richiede la produzione di nuovi beni di natura relazionale. Rispondere attivamente a questi cambiamenti significa riconoscere l’importanza di un’ibridazione dell’economia di mercato”.

Quanto scritto da Federico Fiorelli non è sempre di facile approccio, ma fa pensare e quindi rappresenta un’utile lettura.

Verso una nuova economia sociale. Il ruolo del Terzo Settore nel riassorbimento della disoccupazione tecnologica e nella soddisfazione dei nuovi bisogni sociali in Italia

Federico Fiorelli

Tesi di dottorato, Università di Roma “La Sapienza” Dipartimento di scienze sociali ed economiche, Corso di Dottorato in Sociologia e Scienze Sociali Applicate (SESSA) XXIX Ciclo, 2017

Verso una nuova economia sociale.

Scienza e salute: Milano anche senza l’Ema è riferimento europeo per ricerca e imprese

Milano senza Ema. Dopo un confronto serrato e tre votazioni prima sempre in testa e poi alla pari con Amsterdam, il sorteggio ha scelto Amsterdam come sede per l’Agenzia Europea del Farmaco. Peccato. Non una sconfitta. Ma la conseguenza d’una regola che ci fa subire la variabilità della sorte. Milano non ha vinto, è vero, dopo una bella battaglia corale durata mesi. Resta, comunque, una città d’eccellenza, con l’identità ben percepita d’una metropoli aperta, colta, plurale, attrattiva. Meritevole d’avere ancora grande attenzione, nel cuore dell’Europa.

Milano è molteplice. “La sua identità è una somma d’identità”, sostiene Giuseppe Lupo, attento studioso delle relazioni tra letteratura e industria, che alla città tra boom economico e “leggerezza” della “Milano da bere” ha dedicato un bel romanzo, “Gli anni del nostro incanto”, Marsilio (presentato in Assolombarda per BookCity e “La settimana della cultura d’impresa”). Milano “città anseatica” di relazioni e commerci, dice Aldo Bonomi, sociologo capace di immaginifiche definizioni, dalla “città infinita” al “capitalismo molecolare”. Milano luogo di sintesi, insomma. Fabbriche meccatroniche e servizi finanziari, grattacieli progettati da “archistar” e luoghi di sofisticata popolare arte contemporanea (l’HangarBicocca di Pirelli, con “I sette palazzi celesti” di Kiefer e la Fondazione Prada ne sono riprova), università e design. Milano città della conoscenza. E della cultura. Milano orgogliosa di storia e affamata di futuro, capace di scalare tutti i ranking internazionali su attrattività e qualità della vita. Milano aperta e inclusiva, “Milanesi si diventa”, scriveva Carlo Castellaneta, nato a Milano da famiglia pugliese. Ma anche “A Milano non fa freddo”, scritto nel 1949 dal napoletanissimo Giuseppe Marotta e pubblicato da Valentino Bompiani, protagonista per oltre mezzo secolo dell’editoria milanese: il caldo fascino dell’accoglienza.

Milano, naturalmente, città della scienza, prima e dopo la gara per l’Ema. E dunque città della ricerca. E di una cultura politecnica intessuta di domande, dubbi, scoperte, successo e ripartenze. Milano comunque in movimento.

La città, nelle sue trasformazioni, la si può leggere bene anche da un microcosmo. Quello, per esempio, della più recente delle sue università, l’Humanitas: medicina internazionale per 1200 studenti, tre premi Nobel tra il corpo docente, un investimento da 100 milioni di euro, tutti privati, per laboratori digitali d’avanguardia, tra i più grandi e innovativi d’Europa. Ad inaugurare il nuovo campus, insieme a un paio di ministri, la scorsa settimana, è arrivato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La ricerca ha cambiato le condizioni di vita migliorandole. Ha un’importanza primaria. E va sostenuta in tutti i modi, organizzativi e finanziari”. E Gianfelice Rocca, presidente del Gruppo Humanitas: “Una piattaforma strategica per lo sviluppo di Milano nel segno della scienza e dell’innovazione. Un esempio d’un eco-sistema fondato sulla collaborazione pubblico-privato”. Life sciences, sanità, qualità della vita: un altro aspetto dell’identità e delle possibilità di sviluppo d’una metropoli europea.

Milano internazionale, dunque: vengono dall’estero 13mila dei suoi 180mila studenti universitari, sono 3.600 le imprese multinazionali (90, quelle con fatturato superiore a un miliardo), 750 quelle ad alta innovazione. Le farmaceutiche sono una punta d’eccellenza: il 60% della produzione farmaceutica italiana è concentrato in Lombardia. Human Technopole, dedicato agli insediamenti di centri di ricerca e imprese specializzate in “Life sciences” e la “Città della Salute” nelle ex aree industriali di Sesto San Giovanni rafforzeranno questo quadro.

Milano scienza, dunque. Ma anche, contemporaneamente, Milano capace di riflessioni critiche. Di attenzione a quella civiltà del confronto e del dialogo che proprio per la scienza è essenziale. Milano dialettica.

“Dobbiamo non esitare a entrare nelle sabbie mobili di una cultura che ci costringe a riprendere l’ars interrogandi. Perciò, più che arredare il cervello di mere nozioni, è necessario organizzare bene la mente perché sia la guida morale nel cammino dell’esistenza divenuto ora più complesso e frastagliato”, ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, nella Lectio per l’apertura dell’anno accademico. Nuove domande per i tempi difficili che stiamo vivendo, ricerca per cercare chiavi di interpretazioni del presente.

L’inquietudine e la ricerca sono un altro aspetto essenziale di Milano, radicato nella sua storia, da Leonardo alle riflessioni dei circoli dell’Illuminismo, dal “Politecnico” ottocentesco di Carlo Cattaneo alle abitudini critiche degli scienziati cresciuti dei laboratori tra università e imprese, come Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1964.

E’ abituale, il dibattito scientifico, a Milano. Sulle dimensioni tecniche più sofisticate. E su quelle teoriche ed etiche. Dei dilemmi della scienza si discute in preparazione dei “Dialoghi di vita buona” in Curia, in un confronto aperto e sincero con parecchie componenti laiche della città. E le parole scientifiche risuonano nei teatri, in “1927 – Monologo quantistico” di Gabriella Greison al Teatro Menotti e nella preparazione di “Copenhagen”, in cartellone al Piccolo Teatro: il colloquio tra due grandi fisici, Niels Bohr e Karl Heisenberg, sui dilemmi morali legati all’energia atomica.

Negli ambienti filosofici milanesi circola di nuovo la riflessione d’un grande scienziato, Richard Feynman, Premio Nobel per la Fisica nel 1965: “Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza. Questo tipo di esperienza è preziosa, e a mio modo di vedere anche al di là della scienza. Nell’affrontare una nuova situazione bisogna lasciare aperta la porta sull’ignoto, ammettere la possibilità di non sapere esattamente come stanno le cose; in caso contrario, potremmo non riuscire…a trovare le soluzioni. Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero. E come scienziato sento la responsabilità di proclamare il valore di questa libertà, e di insegnare che il dubbio non deve essere temuto, ma accolto volentieri in quanto possibilità di nuove potenzialità per gli esseri umani. Se non siamo sicuri, e lo sappiamo, abbiamo una chance di migliorare la situazione. Nella scienza il dubbio è chiaramente un valore… E’ importante dubitare. E il dubbio non deve incutere timore, ma dev’essere accolto come una preziosa opportunità”.

Milano, nel tempo che bisogna imparare a fare scorrere non frenetico ma fertile, creativo, proprio nel segno della buona scienza deve imparare a cercare il senso profondo d’un migliore sviluppo. La battaglia per l’Ema appartiene oramai a ieri. L’eredità di quella battaglia ha piena attualità.

Milano senza Ema. Dopo un confronto serrato e tre votazioni prima sempre in testa e poi alla pari con Amsterdam, il sorteggio ha scelto Amsterdam come sede per l’Agenzia Europea del Farmaco. Peccato. Non una sconfitta. Ma la conseguenza d’una regola che ci fa subire la variabilità della sorte. Milano non ha vinto, è vero, dopo una bella battaglia corale durata mesi. Resta, comunque, una città d’eccellenza, con l’identità ben percepita d’una metropoli aperta, colta, plurale, attrattiva. Meritevole d’avere ancora grande attenzione, nel cuore dell’Europa.

Milano è molteplice. “La sua identità è una somma d’identità”, sostiene Giuseppe Lupo, attento studioso delle relazioni tra letteratura e industria, che alla città tra boom economico e “leggerezza” della “Milano da bere” ha dedicato un bel romanzo, “Gli anni del nostro incanto”, Marsilio (presentato in Assolombarda per BookCity e “La settimana della cultura d’impresa”). Milano “città anseatica” di relazioni e commerci, dice Aldo Bonomi, sociologo capace di immaginifiche definizioni, dalla “città infinita” al “capitalismo molecolare”. Milano luogo di sintesi, insomma. Fabbriche meccatroniche e servizi finanziari, grattacieli progettati da “archistar” e luoghi di sofisticata popolare arte contemporanea (l’HangarBicocca di Pirelli, con “I sette palazzi celesti” di Kiefer e la Fondazione Prada ne sono riprova), università e design. Milano città della conoscenza. E della cultura. Milano orgogliosa di storia e affamata di futuro, capace di scalare tutti i ranking internazionali su attrattività e qualità della vita. Milano aperta e inclusiva, “Milanesi si diventa”, scriveva Carlo Castellaneta, nato a Milano da famiglia pugliese. Ma anche “A Milano non fa freddo”, scritto nel 1949 dal napoletanissimo Giuseppe Marotta e pubblicato da Valentino Bompiani, protagonista per oltre mezzo secolo dell’editoria milanese: il caldo fascino dell’accoglienza.

Milano, naturalmente, città della scienza, prima e dopo la gara per l’Ema. E dunque città della ricerca. E di una cultura politecnica intessuta di domande, dubbi, scoperte, successo e ripartenze. Milano comunque in movimento.

La città, nelle sue trasformazioni, la si può leggere bene anche da un microcosmo. Quello, per esempio, della più recente delle sue università, l’Humanitas: medicina internazionale per 1200 studenti, tre premi Nobel tra il corpo docente, un investimento da 100 milioni di euro, tutti privati, per laboratori digitali d’avanguardia, tra i più grandi e innovativi d’Europa. Ad inaugurare il nuovo campus, insieme a un paio di ministri, la scorsa settimana, è arrivato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La ricerca ha cambiato le condizioni di vita migliorandole. Ha un’importanza primaria. E va sostenuta in tutti i modi, organizzativi e finanziari”. E Gianfelice Rocca, presidente del Gruppo Humanitas: “Una piattaforma strategica per lo sviluppo di Milano nel segno della scienza e dell’innovazione. Un esempio d’un eco-sistema fondato sulla collaborazione pubblico-privato”. Life sciences, sanità, qualità della vita: un altro aspetto dell’identità e delle possibilità di sviluppo d’una metropoli europea.

Milano internazionale, dunque: vengono dall’estero 13mila dei suoi 180mila studenti universitari, sono 3.600 le imprese multinazionali (90, quelle con fatturato superiore a un miliardo), 750 quelle ad alta innovazione. Le farmaceutiche sono una punta d’eccellenza: il 60% della produzione farmaceutica italiana è concentrato in Lombardia. Human Technopole, dedicato agli insediamenti di centri di ricerca e imprese specializzate in “Life sciences” e la “Città della Salute” nelle ex aree industriali di Sesto San Giovanni rafforzeranno questo quadro.

Milano scienza, dunque. Ma anche, contemporaneamente, Milano capace di riflessioni critiche. Di attenzione a quella civiltà del confronto e del dialogo che proprio per la scienza è essenziale. Milano dialettica.

“Dobbiamo non esitare a entrare nelle sabbie mobili di una cultura che ci costringe a riprendere l’ars interrogandi. Perciò, più che arredare il cervello di mere nozioni, è necessario organizzare bene la mente perché sia la guida morale nel cammino dell’esistenza divenuto ora più complesso e frastagliato”, ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, nella Lectio per l’apertura dell’anno accademico. Nuove domande per i tempi difficili che stiamo vivendo, ricerca per cercare chiavi di interpretazioni del presente.

L’inquietudine e la ricerca sono un altro aspetto essenziale di Milano, radicato nella sua storia, da Leonardo alle riflessioni dei circoli dell’Illuminismo, dal “Politecnico” ottocentesco di Carlo Cattaneo alle abitudini critiche degli scienziati cresciuti dei laboratori tra università e imprese, come Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1964.

E’ abituale, il dibattito scientifico, a Milano. Sulle dimensioni tecniche più sofisticate. E su quelle teoriche ed etiche. Dei dilemmi della scienza si discute in preparazione dei “Dialoghi di vita buona” in Curia, in un confronto aperto e sincero con parecchie componenti laiche della città. E le parole scientifiche risuonano nei teatri, in “1927 – Monologo quantistico” di Gabriella Greison al Teatro Menotti e nella preparazione di “Copenhagen”, in cartellone al Piccolo Teatro: il colloquio tra due grandi fisici, Niels Bohr e Karl Heisenberg, sui dilemmi morali legati all’energia atomica.

Negli ambienti filosofici milanesi circola di nuovo la riflessione d’un grande scienziato, Richard Feynman, Premio Nobel per la Fisica nel 1965: “Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza. Questo tipo di esperienza è preziosa, e a mio modo di vedere anche al di là della scienza. Nell’affrontare una nuova situazione bisogna lasciare aperta la porta sull’ignoto, ammettere la possibilità di non sapere esattamente come stanno le cose; in caso contrario, potremmo non riuscire…a trovare le soluzioni. Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero. E come scienziato sento la responsabilità di proclamare il valore di questa libertà, e di insegnare che il dubbio non deve essere temuto, ma accolto volentieri in quanto possibilità di nuove potenzialità per gli esseri umani. Se non siamo sicuri, e lo sappiamo, abbiamo una chance di migliorare la situazione. Nella scienza il dubbio è chiaramente un valore… E’ importante dubitare. E il dubbio non deve incutere timore, ma dev’essere accolto come una preziosa opportunità”.

Milano, nel tempo che bisogna imparare a fare scorrere non frenetico ma fertile, creativo, proprio nel segno della buona scienza deve imparare a cercare il senso profondo d’un migliore sviluppo. La battaglia per l’Ema appartiene oramai a ieri. L’eredità di quella battaglia ha piena attualità.

Cinema & Storia 2017-2018
Saper leggere il mondo di oggi

Sono aperte le iscrizioni al nuovo corso di formazione e aggiornamento per docenti “Cinema & Storia”, realizzato da Fondazione Pirelli in collaborazione con Fondazione Isec – Istituto per la storia dell’età contemporanea – e Fondazione Cineteca Italiana. Il percorso proposto quest’anno – “Per un lessico della contemporaneità. Comprendere e insegnare l’età contemporanea”- affronta alcune grandi questioni della contemporaneità: la geopolitica, le nuove frontiere del lavoro, il rapporto tra finanza ed economia reale.

Il corso, giunto alla sua sesta edizione, si sviluppa in tre lezioni, tre laboratori e una proiezione cinematografica. In particolare il laboratorio tematico Pirelli. Una storia del lavoro dalla fabbrica novecentesca ai robot digitali permetterà ai partecipanti di seguire un percorso che va dall’attuale Headquarters Pirelli all’interno della ex torre di raffreddamento fino allo stabilimento di Milano Bicocca dove operano i robot digitali Next MIRS.

Alle attività per i docenti sono abbinate due proiezioni cinematografiche introdotte da studiosi di storia del cinema. Le proiezioni si svolgeranno al mattino e saranno aperte anche alle classi di studenti interessati.

Il corso è gratuito ed è necessaria l’iscrizione entro lunedì 15 gennaio scrivendo a didattica@fondazioneisec.it

Per scaricare il programma clicca qui.

Sono aperte le iscrizioni al nuovo corso di formazione e aggiornamento per docenti “Cinema & Storia”, realizzato da Fondazione Pirelli in collaborazione con Fondazione Isec – Istituto per la storia dell’età contemporanea – e Fondazione Cineteca Italiana. Il percorso proposto quest’anno – “Per un lessico della contemporaneità. Comprendere e insegnare l’età contemporanea”- affronta alcune grandi questioni della contemporaneità: la geopolitica, le nuove frontiere del lavoro, il rapporto tra finanza ed economia reale.

Il corso, giunto alla sua sesta edizione, si sviluppa in tre lezioni, tre laboratori e una proiezione cinematografica. In particolare il laboratorio tematico Pirelli. Una storia del lavoro dalla fabbrica novecentesca ai robot digitali permetterà ai partecipanti di seguire un percorso che va dall’attuale Headquarters Pirelli all’interno della ex torre di raffreddamento fino allo stabilimento di Milano Bicocca dove operano i robot digitali Next MIRS.

Alle attività per i docenti sono abbinate due proiezioni cinematografiche introdotte da studiosi di storia del cinema. Le proiezioni si svolgeranno al mattino e saranno aperte anche alle classi di studenti interessati.

Il corso è gratuito ed è necessaria l’iscrizione entro lunedì 15 gennaio scrivendo a didattica@fondazioneisec.it

Per scaricare il programma clicca qui.

Alle inglesi piacciono gli italiani.
Con Toleman in F1

Inglesissima, la scuderia Toleman che nella primavera del 1981 si affaccia con Pirelli alla Formula 1, dopo la vittoria –stesso binomio- nel Campionato Europeo di Formula 2 dell’anno precedente. Per il produttore italiano di pneumatici è un ritorno ai vertici dell’automobilismo dopo venticinque anni di assenza: anni spesi a consolidarsi nelle corse rally dove ormai Pirelli detta legge. “Pirelli ritorna con il P7”, titola l’house organ della Bicocca “Fatti e Notizie”, specificando subito prudentemente che “…la partecipazione con la piccola scuderia avrà necessariamente carattere sperimentale…”. Da troppo tempo manca dai circuiti mondiali.

Una storia tutta britannica, se non fosse per quelle gomme italiane. Ma si sa, alle inglesi di Oxford piacciono gli italiani, meglio ancora se milanesi: il “matrimonio” tra Toleman e Pirelli viene celebrato, ad uso stampa e pubblico appassionato, in Galleria Vittorio Emanuele. Inglese è il “patron” della scuderia, Ted Toleman. Suo nonno Eddie opera fin dal 1926 come autotrasportarore per Ford, prima a Old Trafford, vicino a Manchester, e poi a Brentwood, per star vicino al colosso automobilistico di Dagenham. Mentre si consolida l’impero delle bisarche Toleman, il padre Albert corre nei rally inglesi degli anni Cinquanta. Anche Bob, fratello di Ted, corre in macchina. E ci lascia la vita -nel settembre del 1976-  in una gara del monomarca Formula Ford. Ma un vero Toleman non indietreggia di fronte ai rischi dei motori: l’automobilismo è una missione, da perseverare anche creando un proprio team che porti il cognome di famiglia. E così nel 1977 nasce la Toleman Motorsport, con sede a Witney, nell’Oxfordshire. Inglese è il direttore generale, Alex Hawkridge. Il settimanale Autosprint, bibbia italiana delle corse auto, lo definisce “avventuroso al limite dell’avventuriero, estroverso e dalle inclinazioni che paiono ben diverse da quelle di un terziario francescano, eccitato dall’idea di passare weekend adrenalinici”. Insomma, un Figlio dei Fiori prestato ai motori. Fin dal 1968 è il fidato “compagno di pista” dei fratelli Toleman.

Sudafricano ma ormai naturalizzato inglese è il progettista Rory Byrne. E’ laureato in chimica alla Witswatersrand University di Johannesburg, ma gli piacciono le macchine da corsa. Non solo da guidare ma anche e soprattutto da progettare. Perchè lui ci sa fare con l’aerodinamica: si dice che da ragazzo costruisse modellini di alianti in balsa che davano spettacolo nelle gare di resistenza in volo, facendo perfette evoluzioni in aria fino a scomparire trionfalmente in cielo. Nel 1972 emigra in Inghilterra e si ritrova a disegnare vetture da competizione per il costruttore Royale Racing, dove Rory può cominciare a mettere a frutto tutto quel capitale di “conoscenza dell’aria” che lo renderà presto famoso. L’incontro con Toleman è quasi nella logica di un circolo britannico. Inglese il motore, prodotto dalla Brian Hart Ltd che da qualche anno costruisce propulsori in proprio dopo essersi  fatta le ossa sui motori Ford Cosworth. Lui, Brian Hart, viene dall’aeronautica con la gloriosa de Havilland Aircraft Company ma da sempre ha la passione delle competizioni, dalla Formula Junior alla Formula 2. Inglesi i piloti. Brian Henton, trentacinquenne da Castle Donington che già pensa di andare a svernare in America con la Can-Am del team dell’attore Paul Newman e invece viene richiamato in Europa per correre  con la Toleman. Nella stagione che sta per cominciare avrà il numero 35, Brian: prima guida. Con il numero 36, Derek Warwick da Alresford: viene dalla Formula 3. I due assieme hanno vinto -nel 1980- il Campionato Europeo di Formula 2 proprio con la Toleman già gommata Pirelli. E’ il momento giusto per fare il grande salto.

“Necessariamente un carattere sperimentale” s’era subito detto in Pirelli. La scuderia è certamente innovativa ma alla sua prima esperienza di vertice… La Toleman-Hart Tg181 è pesante, poco affidabile. In una parola: è lenta. Di superare le qualifiche non se ne parla fino a settembre. Gran Premio di Monza: Henton riesce a guadagnarsi la gara finale e alla fine è 10°. E un mese dopo è Warwick che riesce a qualificarsi a Las Vegas: il ritiro in gara per rottura del cambio è quasi un fatto indolore. E’ la luce in fondo al tunnel. E così vengono le nuove stagioni, e la Toleman TG181 diventa TG183 e poi TG183B, e via via.. Warwick si accaparra la prima guida, affiancato dagli italiani Teo Fabi nel 1982 e Bruno Giacomelli nel 1983. Finalmente i primi punti in classifica, in Olanda, e subito dopo a Monza, a Brands Hatch, in Sudafrica. Poi, poi arriva il 1984. L’esclusivo cerchio magico italo-britannico si rompe. Warwick lascia la guida all’emergente brasiliano Ayrton Senna, Giacomelli è sostituito dal venezuelano Cecotto. E’ il divorzio anche con Pirelli. Nel maggio del 1985 la Toleman viene acquistata dalla Benetton: quasi una Brexit…

Inglesissima, la scuderia Toleman che nella primavera del 1981 si affaccia con Pirelli alla Formula 1, dopo la vittoria –stesso binomio- nel Campionato Europeo di Formula 2 dell’anno precedente. Per il produttore italiano di pneumatici è un ritorno ai vertici dell’automobilismo dopo venticinque anni di assenza: anni spesi a consolidarsi nelle corse rally dove ormai Pirelli detta legge. “Pirelli ritorna con il P7”, titola l’house organ della Bicocca “Fatti e Notizie”, specificando subito prudentemente che “…la partecipazione con la piccola scuderia avrà necessariamente carattere sperimentale…”. Da troppo tempo manca dai circuiti mondiali.

Una storia tutta britannica, se non fosse per quelle gomme italiane. Ma si sa, alle inglesi di Oxford piacciono gli italiani, meglio ancora se milanesi: il “matrimonio” tra Toleman e Pirelli viene celebrato, ad uso stampa e pubblico appassionato, in Galleria Vittorio Emanuele. Inglese è il “patron” della scuderia, Ted Toleman. Suo nonno Eddie opera fin dal 1926 come autotrasportarore per Ford, prima a Old Trafford, vicino a Manchester, e poi a Brentwood, per star vicino al colosso automobilistico di Dagenham. Mentre si consolida l’impero delle bisarche Toleman, il padre Albert corre nei rally inglesi degli anni Cinquanta. Anche Bob, fratello di Ted, corre in macchina. E ci lascia la vita -nel settembre del 1976-  in una gara del monomarca Formula Ford. Ma un vero Toleman non indietreggia di fronte ai rischi dei motori: l’automobilismo è una missione, da perseverare anche creando un proprio team che porti il cognome di famiglia. E così nel 1977 nasce la Toleman Motorsport, con sede a Witney, nell’Oxfordshire. Inglese è il direttore generale, Alex Hawkridge. Il settimanale Autosprint, bibbia italiana delle corse auto, lo definisce “avventuroso al limite dell’avventuriero, estroverso e dalle inclinazioni che paiono ben diverse da quelle di un terziario francescano, eccitato dall’idea di passare weekend adrenalinici”. Insomma, un Figlio dei Fiori prestato ai motori. Fin dal 1968 è il fidato “compagno di pista” dei fratelli Toleman.

Sudafricano ma ormai naturalizzato inglese è il progettista Rory Byrne. E’ laureato in chimica alla Witswatersrand University di Johannesburg, ma gli piacciono le macchine da corsa. Non solo da guidare ma anche e soprattutto da progettare. Perchè lui ci sa fare con l’aerodinamica: si dice che da ragazzo costruisse modellini di alianti in balsa che davano spettacolo nelle gare di resistenza in volo, facendo perfette evoluzioni in aria fino a scomparire trionfalmente in cielo. Nel 1972 emigra in Inghilterra e si ritrova a disegnare vetture da competizione per il costruttore Royale Racing, dove Rory può cominciare a mettere a frutto tutto quel capitale di “conoscenza dell’aria” che lo renderà presto famoso. L’incontro con Toleman è quasi nella logica di un circolo britannico. Inglese il motore, prodotto dalla Brian Hart Ltd che da qualche anno costruisce propulsori in proprio dopo essersi  fatta le ossa sui motori Ford Cosworth. Lui, Brian Hart, viene dall’aeronautica con la gloriosa de Havilland Aircraft Company ma da sempre ha la passione delle competizioni, dalla Formula Junior alla Formula 2. Inglesi i piloti. Brian Henton, trentacinquenne da Castle Donington che già pensa di andare a svernare in America con la Can-Am del team dell’attore Paul Newman e invece viene richiamato in Europa per correre  con la Toleman. Nella stagione che sta per cominciare avrà il numero 35, Brian: prima guida. Con il numero 36, Derek Warwick da Alresford: viene dalla Formula 3. I due assieme hanno vinto -nel 1980- il Campionato Europeo di Formula 2 proprio con la Toleman già gommata Pirelli. E’ il momento giusto per fare il grande salto.

“Necessariamente un carattere sperimentale” s’era subito detto in Pirelli. La scuderia è certamente innovativa ma alla sua prima esperienza di vertice… La Toleman-Hart Tg181 è pesante, poco affidabile. In una parola: è lenta. Di superare le qualifiche non se ne parla fino a settembre. Gran Premio di Monza: Henton riesce a guadagnarsi la gara finale e alla fine è 10°. E un mese dopo è Warwick che riesce a qualificarsi a Las Vegas: il ritiro in gara per rottura del cambio è quasi un fatto indolore. E’ la luce in fondo al tunnel. E così vengono le nuove stagioni, e la Toleman TG181 diventa TG183 e poi TG183B, e via via.. Warwick si accaparra la prima guida, affiancato dagli italiani Teo Fabi nel 1982 e Bruno Giacomelli nel 1983. Finalmente i primi punti in classifica, in Olanda, e subito dopo a Monza, a Brands Hatch, in Sudafrica. Poi, poi arriva il 1984. L’esclusivo cerchio magico italo-britannico si rompe. Warwick lascia la guida all’emergente brasiliano Ayrton Senna, Giacomelli è sostituito dal venezuelano Cecotto. E’ il divorzio anche con Pirelli. Nel maggio del 1985 la Toleman viene acquistata dalla Benetton: quasi una Brexit…

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Autoscatto d’impresa

Appena pubblicato l’ultimo Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi di Banca d’Italia

Essere imprenditori e manager  consapevoli aiuta l’impresa, fa bene all’organizzazione della produzione, accrescere la corretta cultura del produrre. Ed essere consapevoli significa anche avere informazioni affidabili per comprendere meglio il mondo che ci circonda. Servono buone fonti.

Per questo è utile leggere uno degli ultimi rapporti di Banca d’Italia. Il “Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi” appena reso noto dalla banca centrale italiana scatta una fotografia  utile proprio per acquisire maggiore consapevolezza rispetto a dove si è e a dove sono collocate le imprese. E soprattutto su quali possano essere le prospettive.

Un orizzonte che appare fra l’altro migliore che in passato. “La quota di imprese dell’industria in senso stretto e dei servizi che hanno riportato una crescita del fatturato nei primi nove mesi del 2017 rispetto a un anno prima è salita a circa il 50 per cento, un valore prossimo a quello registrato nel biennio precedente la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro”, spiega infatti il resoconto della rilevazione. Migliorano, sembra, sia il mercato interno che quello estero e di espansione delle vendite parlano anche gli imprenditori rispetto ai prossimi mesi. Crescono anche i livelli occupazionali, così come la quota di imprese che hanno rivisto al rialzo i propri investimenti.

Ciò che qui interessa tuttavia, è un’altra cosa. E’ la stessa natura del Sondaggio. Banca d’Italia, cioè, dà modo al sistema della produzione industriale e dei servizi di scattarsi una fotografia, un vero autoscatto, di riflettere collettivamente sul proprio stato e sulle previsioni generali che emergono dal sentire comune di imprenditori e manager alle prese con la gestione d’impresa così come con le previsioni per essa. Certo, parliamo di un sondaggio per sua natura rivolto ad un numero limitato di aziende (in questo caso circa tremila industriali), ma il risultato è anche una sorta di istantanea del risvolto pratico della cultura d’impresa italiana: ogni impresa racconta la sua condizione  e l’insieme di questi racconti compone un quadro unico.

E’ per questa caratteristica – oltre che dalle statistiche oggettive -, che il Sondaggio assume interesse particolare ed utile proprio per acquisire una  maggiore consapevolezza del sistema industriale nazionale. Il report prodotto da Banca d’Italia è poi scritto con le consuete caratteristiche dell’istituto centrale: chiarezza e brevità. Una buona lettura.

Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi

AA.VV.

Banca d’Italia, 9 novembre 2017

Appena pubblicato l’ultimo Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi di Banca d’Italia

Essere imprenditori e manager  consapevoli aiuta l’impresa, fa bene all’organizzazione della produzione, accrescere la corretta cultura del produrre. Ed essere consapevoli significa anche avere informazioni affidabili per comprendere meglio il mondo che ci circonda. Servono buone fonti.

Per questo è utile leggere uno degli ultimi rapporti di Banca d’Italia. Il “Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi” appena reso noto dalla banca centrale italiana scatta una fotografia  utile proprio per acquisire maggiore consapevolezza rispetto a dove si è e a dove sono collocate le imprese. E soprattutto su quali possano essere le prospettive.

Un orizzonte che appare fra l’altro migliore che in passato. “La quota di imprese dell’industria in senso stretto e dei servizi che hanno riportato una crescita del fatturato nei primi nove mesi del 2017 rispetto a un anno prima è salita a circa il 50 per cento, un valore prossimo a quello registrato nel biennio precedente la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro”, spiega infatti il resoconto della rilevazione. Migliorano, sembra, sia il mercato interno che quello estero e di espansione delle vendite parlano anche gli imprenditori rispetto ai prossimi mesi. Crescono anche i livelli occupazionali, così come la quota di imprese che hanno rivisto al rialzo i propri investimenti.

Ciò che qui interessa tuttavia, è un’altra cosa. E’ la stessa natura del Sondaggio. Banca d’Italia, cioè, dà modo al sistema della produzione industriale e dei servizi di scattarsi una fotografia, un vero autoscatto, di riflettere collettivamente sul proprio stato e sulle previsioni generali che emergono dal sentire comune di imprenditori e manager alle prese con la gestione d’impresa così come con le previsioni per essa. Certo, parliamo di un sondaggio per sua natura rivolto ad un numero limitato di aziende (in questo caso circa tremila industriali), ma il risultato è anche una sorta di istantanea del risvolto pratico della cultura d’impresa italiana: ogni impresa racconta la sua condizione  e l’insieme di questi racconti compone un quadro unico.

E’ per questa caratteristica – oltre che dalle statistiche oggettive -, che il Sondaggio assume interesse particolare ed utile proprio per acquisire una  maggiore consapevolezza del sistema industriale nazionale. Il report prodotto da Banca d’Italia è poi scritto con le consuete caratteristiche dell’istituto centrale: chiarezza e brevità. Una buona lettura.

Sondaggio congiunturale sulle imprese industriali e dei servizi

AA.VV.

Banca d’Italia, 9 novembre 2017

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