Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli..

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione e l’accessiblità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o scrivere a visite@fondazionepirelli.org

Insistere sull’Europa, nonostante tutto. E sugli eurobond per difesa, ambiente, sviluppo 

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

Milano tra successi della Design Week e migliori equilibri sociali da rilanciare 

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

Relazioni d’impresa

Uno studio condotto sugli imprenditori immigrati delinea l’importanza del capitale relazionale

 

Essere immigrati ed essere imprenditori. Non si tratta di una rarità ma, invece, di una realtà che in Italia ha ormai numerose espressioni importanti. Questione, anche in questi casi, di una cultura ad intraprendere che si trasforma in capacità di fare. Con un elemento in più: la dotazione di capitale relazionale che le persone immigrate si portano dietro. Comprendere proprio il valore del capitale relazionale è allora fondamentale per studiare l’imprenditorialità degli individui nati all’estero.

E’ attorno a questi concetti che ruota il lavoro di ricerca di Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo) da poco pubblicato con il titolo “Capital and immigrant entrepreneurship in Italy”.

Lo studio – viene spiegato – si propone di indagare la dimensione quantitativa dell’imprenditorialità di proprietà straniera in Italia, identificare i fattori trainanti di questo fenomeno ed esaminare il valore del capitale relazionale per la creazione e lo sviluppo di imprese di proprietà di immigrati. Si tratta cioè di un’indagine a tutto campo che prima mette a fuoco i tratti salienti di quanto sta accadendo, poi gli elementi che contribuiscono a far crescere il fenomeno dell’imprenditoria immigrata e, quindi, il contributo che a questa fornisce proprio la presenza di particolari capacità di relazione.

Anzi, gli autori indicano proprio il particolare approccio umano come “asset immateriale nello sviluppo delle imprese straniere”. Il capitale relazionale, è l’idea alla base dell’indagine, permette alle start-up di superare le loro principali difficoltà: l’aspetto organizzativo e la capacità finanziaria. Pur sottoposta al vincolo della limitatezza del numero di casi analizzati, la ricerca di Paoloni, De Andreis e Papa fornisce una prima descrizione di un fenomeno sempre più importante in Italia e, soprattutto, indica la chiave per una sua migliore comprensione: quella capacità di relazioni umane che, non solo per gli immigrati, rimane alla fine come il vero elemento in grado di fare la differenza tra successo e insuccesso. Anche per le imprese.

Capital and immigrant entrepreneurship in Italy

Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo)

International Entrepreneurship and Management Journal, aprile 2024

Uno studio condotto sugli imprenditori immigrati delinea l’importanza del capitale relazionale

 

Essere immigrati ed essere imprenditori. Non si tratta di una rarità ma, invece, di una realtà che in Italia ha ormai numerose espressioni importanti. Questione, anche in questi casi, di una cultura ad intraprendere che si trasforma in capacità di fare. Con un elemento in più: la dotazione di capitale relazionale che le persone immigrate si portano dietro. Comprendere proprio il valore del capitale relazionale è allora fondamentale per studiare l’imprenditorialità degli individui nati all’estero.

E’ attorno a questi concetti che ruota il lavoro di ricerca di Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo) da poco pubblicato con il titolo “Capital and immigrant entrepreneurship in Italy”.

Lo studio – viene spiegato – si propone di indagare la dimensione quantitativa dell’imprenditorialità di proprietà straniera in Italia, identificare i fattori trainanti di questo fenomeno ed esaminare il valore del capitale relazionale per la creazione e lo sviluppo di imprese di proprietà di immigrati. Si tratta cioè di un’indagine a tutto campo che prima mette a fuoco i tratti salienti di quanto sta accadendo, poi gli elementi che contribuiscono a far crescere il fenomeno dell’imprenditoria immigrata e, quindi, il contributo che a questa fornisce proprio la presenza di particolari capacità di relazione.

Anzi, gli autori indicano proprio il particolare approccio umano come “asset immateriale nello sviluppo delle imprese straniere”. Il capitale relazionale, è l’idea alla base dell’indagine, permette alle start-up di superare le loro principali difficoltà: l’aspetto organizzativo e la capacità finanziaria. Pur sottoposta al vincolo della limitatezza del numero di casi analizzati, la ricerca di Paoloni, De Andreis e Papa fornisce una prima descrizione di un fenomeno sempre più importante in Italia e, soprattutto, indica la chiave per una sua migliore comprensione: quella capacità di relazioni umane che, non solo per gli immigrati, rimane alla fine come il vero elemento in grado di fare la differenza tra successo e insuccesso. Anche per le imprese.

Capital and immigrant entrepreneurship in Italy

Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo)

International Entrepreneurship and Management Journal, aprile 2024

Trent’anni da capire

Appena pubblicato un libro con 12 saggi che aiutano a comprendere l’Italia dal 1992 al 2022

Conoscere la storia, anche recente, per comprendere meglio dove e come si sta vivendo e, soprattutto, verso quale orizzonte ci si sta dirigendo. Insegnamento mai inutile da ricordare. Anche per chi fa impresa. E’ per questo che è utile leggere “L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022” curato da Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio.
Il libro è, come d’altra parte indica il titolo, una raccolta di saggi che hanno l’obiettivo di fare un bilancio di trent’anni di vicende italiane. Bilancio non solo e non tanto economico, ma anche sociale e politico. Con una particolarità: i
12 saggi sono firmati da chi ne è stato testimone diretto o ha studiate a fondo le vicende di cui si fornisce racconto e interpretazione. Focus di tutto, sono le cosiddette “classi dirigenti” che hanno governato il Paese in tre decenni.
I temi affrontati dai 12 saggi sono quelli delle riforme mancate e del debito pubblico (Mario Perugini, Roberto Artoni); Mani Pulite e la svolta del1992 (Pietro Modiano, Giuliano Amato); il grande capitolo delle privatizzazioni (Franco Amatori, Ruggiero Ranieri, Marco Onado, Edoardo Reviglio, Franco Bernabé); la svolta delle relazioni industriali (Stefano Musso, Sergio Cofferati); la crisi dei vecchi equilibri e i nuovi protagonisti dell’economia (Marco Doria, Andrea Colli, Innocenzo Cipolletta, Franco Amatori, Ilaria Sangalli, Aldo Fumagalli Romario); il permanente divario Nord/Sud (Leandra D’Antone, Gianfranco Viesti, Renato Quaglia); le nostre inadeguatezze di fronte alla sfida globale (Piarluigi Ciocca, Laura Pennacchi). Chiude il volume una lunga intervista a Romano Prodi che “tira le fila” dei vari contributi.
Ma quale può essere, dunque, il bilancio di tre decenni così travagliati? Dalle analisi contenute nel libro, emerge una valutazione negativa di quanto è stato fatto e ottenuto. Si è trattato – è l’opinione che emerge dalle pagine del libro avrebbero potuto condurre in una diversa direzione, se ci fossero state classi dirigenti all’altezza del momento storico.
Come ogni libro che ha davvero intenzione di dire le cose chiare, anche “L’Italia al bivio” fa discutere, suscita dibattito e accetta che non tutti quelli che leggono siano d’accordo. Ed è per questo che il lavoro curato da Amatori, Modiano e Reviglio è da leggere e rileggere.

L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022
Franco Amatori Pietro Modiano Edoardo Reviglio (a cura di)
Franco Angeli, 2024

Appena pubblicato un libro con 12 saggi che aiutano a comprendere l’Italia dal 1992 al 2022

Conoscere la storia, anche recente, per comprendere meglio dove e come si sta vivendo e, soprattutto, verso quale orizzonte ci si sta dirigendo. Insegnamento mai inutile da ricordare. Anche per chi fa impresa. E’ per questo che è utile leggere “L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022” curato da Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio.
Il libro è, come d’altra parte indica il titolo, una raccolta di saggi che hanno l’obiettivo di fare un bilancio di trent’anni di vicende italiane. Bilancio non solo e non tanto economico, ma anche sociale e politico. Con una particolarità: i
12 saggi sono firmati da chi ne è stato testimone diretto o ha studiate a fondo le vicende di cui si fornisce racconto e interpretazione. Focus di tutto, sono le cosiddette “classi dirigenti” che hanno governato il Paese in tre decenni.
I temi affrontati dai 12 saggi sono quelli delle riforme mancate e del debito pubblico (Mario Perugini, Roberto Artoni); Mani Pulite e la svolta del1992 (Pietro Modiano, Giuliano Amato); il grande capitolo delle privatizzazioni (Franco Amatori, Ruggiero Ranieri, Marco Onado, Edoardo Reviglio, Franco Bernabé); la svolta delle relazioni industriali (Stefano Musso, Sergio Cofferati); la crisi dei vecchi equilibri e i nuovi protagonisti dell’economia (Marco Doria, Andrea Colli, Innocenzo Cipolletta, Franco Amatori, Ilaria Sangalli, Aldo Fumagalli Romario); il permanente divario Nord/Sud (Leandra D’Antone, Gianfranco Viesti, Renato Quaglia); le nostre inadeguatezze di fronte alla sfida globale (Piarluigi Ciocca, Laura Pennacchi). Chiude il volume una lunga intervista a Romano Prodi che “tira le fila” dei vari contributi.
Ma quale può essere, dunque, il bilancio di tre decenni così travagliati? Dalle analisi contenute nel libro, emerge una valutazione negativa di quanto è stato fatto e ottenuto. Si è trattato – è l’opinione che emerge dalle pagine del libro avrebbero potuto condurre in una diversa direzione, se ci fossero state classi dirigenti all’altezza del momento storico.
Come ogni libro che ha davvero intenzione di dire le cose chiare, anche “L’Italia al bivio” fa discutere, suscita dibattito e accetta che non tutti quelli che leggono siano d’accordo. Ed è per questo che il lavoro curato da Amatori, Modiano e Reviglio è da leggere e rileggere.

L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022
Franco Amatori Pietro Modiano Edoardo Reviglio (a cura di)
Franco Angeli, 2024

Una scuola in altalena, tra record di abbandoni e università ai vertici della qualità mondiale

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

Tutto solo per profitto?

La storia delle imprese dall’antichità ad oggi delinea le componenti e gli obiettivi di queste organizzazioni

 

Per profitto (sempre) ma non solo. Comprendere perché e come le imprese vengono create, è parte fondamentale della comprensione della cultura che sta dietro e dentro di esse. Umanità densa, quella che deve essere ricercata ogni volta, con le sue storie, le vittorie e le sconfitte. Umanità che, talvolta, ha fatto anche la cosiddetta “grande storia” ma pure la storia minuta. E che davvero costruisce il presente e il futuro. Leggere “Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta” scritto da William Magnuson e appena riproposto in Italia, serve proprio per capire di più delle relazioni tra profitto e altri obiettivi che pressoché da sempre hanno suscitato la creazione di aziende.

In particolare, il libro è la storia della nascita delle società per azioni, della loro evoluzione e del ruolo che hanno svolto e continuano a svolgere nel plasmare il mondo e il nostro modo di pensare. E non si tratta solo di aspetti economici. William Magnuson traccia il percorso delle cosiddette corporation nei secoli: dai palazzi dell’antica Roma alle navi della Compagnia britannica delle Indie orientali, alle rotaie costruite dalla Union Pacific Railroad Company per attraversare il continente nordamericano; dalle multinazionali del petrolio in Medio Oriente fino agli odierni colossi della Silicon Valley. La narrazione di Magnuson inizia da prima della nascita di Cristo e arriva fino ad oggi, ponendo esempi che fanno capire subito il ruolo delle imprese. Per capire bastano pochi esempi. Nel 215 a.C. l’esercito romano rischia di collassare di fronte all’avanzata dei cartaginesi; a salvare le truppe e la Repubblica saranno un manipolo di facoltosi cittadini, riunitisi in societates – le prime aziende della storia –, che riforniranno i soldati di abiti, cereali ed equipaggiamenti ribaltando così le sorti del conflitto. Nella prima metà del XV secolo, sotto la guida di Giovanni di Bicci de’ Medici, il Banco Medici diventa la più importante impresa d’Europa, capace di influenzare guerre, tregue e trattati a migliaia di chilometri di distanza. Nel maggio 2012 Facebook, la società di Mark Zuckerberg che diventerà Meta, si quota in borsa; nel 2018, sarà accusata di aver condizionato le elezioni che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Profitto, dunque, ma anche altri obiettivi hanno animato e animano le organizzazioni della produzione e gli uomini che le progettano, costruiscono e gestiscono. Magnuson racconta quindi le sorti di banchieri, esploratori, pirati, uomini d’affari e imprenditori digitali nel solco ambiguo che esiste tra interessi personali e benessere comune. Ed è proprio l’oscillare del pendolo tra questi due estremi che porta il libro a raccontare successi e insuccessi del fare impresa ma anche, appunto, il ruolo del profitto.

Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta

William Magnuson

il Saggiatore 2024

La storia delle imprese dall’antichità ad oggi delinea le componenti e gli obiettivi di queste organizzazioni

 

Per profitto (sempre) ma non solo. Comprendere perché e come le imprese vengono create, è parte fondamentale della comprensione della cultura che sta dietro e dentro di esse. Umanità densa, quella che deve essere ricercata ogni volta, con le sue storie, le vittorie e le sconfitte. Umanità che, talvolta, ha fatto anche la cosiddetta “grande storia” ma pure la storia minuta. E che davvero costruisce il presente e il futuro. Leggere “Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta” scritto da William Magnuson e appena riproposto in Italia, serve proprio per capire di più delle relazioni tra profitto e altri obiettivi che pressoché da sempre hanno suscitato la creazione di aziende.

In particolare, il libro è la storia della nascita delle società per azioni, della loro evoluzione e del ruolo che hanno svolto e continuano a svolgere nel plasmare il mondo e il nostro modo di pensare. E non si tratta solo di aspetti economici. William Magnuson traccia il percorso delle cosiddette corporation nei secoli: dai palazzi dell’antica Roma alle navi della Compagnia britannica delle Indie orientali, alle rotaie costruite dalla Union Pacific Railroad Company per attraversare il continente nordamericano; dalle multinazionali del petrolio in Medio Oriente fino agli odierni colossi della Silicon Valley. La narrazione di Magnuson inizia da prima della nascita di Cristo e arriva fino ad oggi, ponendo esempi che fanno capire subito il ruolo delle imprese. Per capire bastano pochi esempi. Nel 215 a.C. l’esercito romano rischia di collassare di fronte all’avanzata dei cartaginesi; a salvare le truppe e la Repubblica saranno un manipolo di facoltosi cittadini, riunitisi in societates – le prime aziende della storia –, che riforniranno i soldati di abiti, cereali ed equipaggiamenti ribaltando così le sorti del conflitto. Nella prima metà del XV secolo, sotto la guida di Giovanni di Bicci de’ Medici, il Banco Medici diventa la più importante impresa d’Europa, capace di influenzare guerre, tregue e trattati a migliaia di chilometri di distanza. Nel maggio 2012 Facebook, la società di Mark Zuckerberg che diventerà Meta, si quota in borsa; nel 2018, sarà accusata di aver condizionato le elezioni che hanno portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

Profitto, dunque, ma anche altri obiettivi hanno animato e animano le organizzazioni della produzione e gli uomini che le progettano, costruiscono e gestiscono. Magnuson racconta quindi le sorti di banchieri, esploratori, pirati, uomini d’affari e imprenditori digitali nel solco ambiguo che esiste tra interessi personali e benessere comune. Ed è proprio l’oscillare del pendolo tra questi due estremi che porta il libro a raccontare successi e insuccessi del fare impresa ma anche, appunto, il ruolo del profitto.

Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta

William Magnuson

il Saggiatore 2024

Passare la mano nell’impresa

Il passaggio generazionale nelle aziende visto dal lato delle emozioni

 

Pensare, creare e gestire un’impresa è anche questione di umanità. E di emozioni. Lo sanno bene molti imprenditori e molti manager. E lo sa bene anche chi deve, ad un certo punto del suo cammino d’impresa, affrontare il passaggio generazionale. Gestibile emozioni e conti, può diventare allora un ulteriore esercizio in cui provare la propria cultura del produrre. E’ proprio attorno alla questione del passaggio generazionale che scatta quando viene a mancare il fondatore dell’impresa, che si esercitano Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta con il loro intervento “Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese”.

L’indagine prende le mosse da un caso particolare (e reale) per arrivare ad un inquadramento più generale del tema. Un intervento per favorire il passaggio generazionale all’interno di una piccola-media impresa – spiegano i due autori – diventa spunto per poter affrontare il passaggio generazionale anche dal punto di vista delle emozioni, cosa non del tutto scontata quando si parla di produzione, dimensione organizzativa, budget, problemi gestionali, procedure.

Ma cosa è accaduto? Alla morte del fondatore gli eredi si erano bloccati in una sorta di paralisi gestionale in cui il primogenito si era assunto il ruolo dell’erede designato per primogenitura mantenendo la struttura organizzata verticisticamente dal padre-fondatore e chiedendo di fatto ai consulenti di farlo accettare in quel ruolo dai fratelli e dai dipendenti tutti, delegando così a terzi la propria autorizzazione a occupare quel posto. Da questa situazione, De Vincenzo e Torretta desumono un profilo più generale.

Il vocabolo fondamentale è “tempo”. La morte di un fondatore pone il problema del tempo nel processo dell’elaborazione della trasmissione e della acquisizione dell’eredità e la sua trasformazione è parte imprescindibile nel passaggio. È indispensabile tempo per fare i conti con la perdita del padre-fondatore e, con lui, lasciare andare idealizzazioni di sé e incontrare la realtà. Mantenere inalterata una organizzazione spostando un uomo al posto di un altro si rivela essere solo una strategia introdotta per non affrontare il dolore e il cambiamento. Un percorso culturale e umano prima che gestionale e manageriale. Che non può essere seguito senza aiuti esperti. Riuscire a vedere la strada giusta, ripensare all’organizzazione e alla collocazione di chi segue in azienda, sono passaggi che non possono essere automatici e veloci.

Per descrivere tutto questo, De Vincenzo e Torretta analizzano prima le caratteristiche delle due entità principali in gioco (famiglia e impresa), per passare poi ad approfondire aspetti particolari come la sofferenza, la storia stessa dell’impresa posta a caso studio, gli “attori” coinvolti, la figura particolare del fondatore, il nodo del passaggio di generazione e quindi dell’eredità e infine il percorso intrapreso per affrontarla e gestirla.

L’intervento di Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta non è per nulla cosa facile da leggere, ma è importante leggerla.

Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese

Mariano De Vincenzo, Rossella Torretta

Ricerca Psicoanalitica, Anno XXXV, n. 1, 2024

Il passaggio generazionale nelle aziende visto dal lato delle emozioni

 

Pensare, creare e gestire un’impresa è anche questione di umanità. E di emozioni. Lo sanno bene molti imprenditori e molti manager. E lo sa bene anche chi deve, ad un certo punto del suo cammino d’impresa, affrontare il passaggio generazionale. Gestibile emozioni e conti, può diventare allora un ulteriore esercizio in cui provare la propria cultura del produrre. E’ proprio attorno alla questione del passaggio generazionale che scatta quando viene a mancare il fondatore dell’impresa, che si esercitano Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta con il loro intervento “Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese”.

L’indagine prende le mosse da un caso particolare (e reale) per arrivare ad un inquadramento più generale del tema. Un intervento per favorire il passaggio generazionale all’interno di una piccola-media impresa – spiegano i due autori – diventa spunto per poter affrontare il passaggio generazionale anche dal punto di vista delle emozioni, cosa non del tutto scontata quando si parla di produzione, dimensione organizzativa, budget, problemi gestionali, procedure.

Ma cosa è accaduto? Alla morte del fondatore gli eredi si erano bloccati in una sorta di paralisi gestionale in cui il primogenito si era assunto il ruolo dell’erede designato per primogenitura mantenendo la struttura organizzata verticisticamente dal padre-fondatore e chiedendo di fatto ai consulenti di farlo accettare in quel ruolo dai fratelli e dai dipendenti tutti, delegando così a terzi la propria autorizzazione a occupare quel posto. Da questa situazione, De Vincenzo e Torretta desumono un profilo più generale.

Il vocabolo fondamentale è “tempo”. La morte di un fondatore pone il problema del tempo nel processo dell’elaborazione della trasmissione e della acquisizione dell’eredità e la sua trasformazione è parte imprescindibile nel passaggio. È indispensabile tempo per fare i conti con la perdita del padre-fondatore e, con lui, lasciare andare idealizzazioni di sé e incontrare la realtà. Mantenere inalterata una organizzazione spostando un uomo al posto di un altro si rivela essere solo una strategia introdotta per non affrontare il dolore e il cambiamento. Un percorso culturale e umano prima che gestionale e manageriale. Che non può essere seguito senza aiuti esperti. Riuscire a vedere la strada giusta, ripensare all’organizzazione e alla collocazione di chi segue in azienda, sono passaggi che non possono essere automatici e veloci.

Per descrivere tutto questo, De Vincenzo e Torretta analizzano prima le caratteristiche delle due entità principali in gioco (famiglia e impresa), per passare poi ad approfondire aspetti particolari come la sofferenza, la storia stessa dell’impresa posta a caso studio, gli “attori” coinvolti, la figura particolare del fondatore, il nodo del passaggio di generazione e quindi dell’eredità e infine il percorso intrapreso per affrontarla e gestirla.

L’intervento di Mariano De Vincenzo e Rossella Torretta non è per nulla cosa facile da leggere, ma è importante leggerla.

Emozioni e passaggio generazionale nelle piccole e medie imprese

Mariano De Vincenzo, Rossella Torretta

Ricerca Psicoanalitica, Anno XXXV, n. 1, 2024

Campiello Junior

Pirelli in mostra a Torino fa “spazio al futuro” nella Capitale della Cultura d’Impresa 2024

Torino, spazio al futuro è il fil rouge che lega gli eventi promossi dall’Unione Industriali Torino per le celebrazioni della città sabauda, proclamata Capitale della cultura d’impresa 2024 da Confindustria dopo Genova nel 2019, Alba nel 2020/21, l’area Padova-Treviso-Venezia-Rovigo nel 2022 e Pavia nel 2023. I festeggiamenti, che hanno preso il via il 19 febbraio, prevedono un ricco programma di iniziative ed eventi che avranno lo scopo di rappresentare e valorizzare il Made in Italy, le eccellenze produttive e la vocazione manifatturiera dei territori.

In questo palinsesto si colloca la mostra “Torino Al Futuro. La Cultura d’Impresa, la Cultura dell’Innovazione”, organizzata da Unione Industriali Torino e visitabile dal 14 aprile al 30 settembre al Museo del Risorgimento. Evento di punta dell’anno di Torino Capitale della cultura d’impresa, il percorso espositivo si articola in sette sezioni grafiche e multimediali installate nel corridoio monumentale della Camera Italiana all’interno del Museo, lungo le quali il visitatore sarà condotto alla scoperta della storia dell’industrializzazione torinese, partendo dalle sue origini, per concludersi con una sezione immersiva dedicata alle prospettive future della città.

L’area di Torino è da sempre terreno di sperimentazione per le innovazioni industriali; non a caso, anche Pirelli è presente a Settimo Torinese con uno stabilimento per pneumatici vettura fin dagli inizi degli anni Cinquanta. Un legame col territorio piemontese messo in luce nel percorso allestitivo: dagli scatti che il fotografo olandese Arno Hammacher dedica nel 1962 alla prima fabbrica Pirelli di Settimo fino alle riprese del “Canto della fabbrica”, il concerto eseguito dall’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Uno degli stabilimenti tecnologicamente più avanzati del Gruppo Pirelli nel mondo in termini di innovazione di prodotto, processi produttivi e qualità dell’ambiente di lavoro. Il corpo centrale adibito ai servizi, la cosiddetta “Spina”, così come le opere paesaggistiche che immergono la fabbrica tra 500 alberi di ciliegio, sono un progetto dell’architetto Renzo Piano.

Il Polo, nato anche grazie alla proficua collaborazione con le istituzioni locali e con il Politecnico di Torino, ben rappresenta l’idea di innovazione di Pirelli. Non solo tecnologia, ma anche sostenibilità, rispetto per l’ambiente, cura delle persone. Un racconto che non poteva mancare in una mostra dedicata alla cultura d’impresa, che ripercorre una grande storia industriale per approdare a uno “spazio al futuro”, aperto anche alle giovani generazioni.

Torino, spazio al futuro è il fil rouge che lega gli eventi promossi dall’Unione Industriali Torino per le celebrazioni della città sabauda, proclamata Capitale della cultura d’impresa 2024 da Confindustria dopo Genova nel 2019, Alba nel 2020/21, l’area Padova-Treviso-Venezia-Rovigo nel 2022 e Pavia nel 2023. I festeggiamenti, che hanno preso il via il 19 febbraio, prevedono un ricco programma di iniziative ed eventi che avranno lo scopo di rappresentare e valorizzare il Made in Italy, le eccellenze produttive e la vocazione manifatturiera dei territori.

In questo palinsesto si colloca la mostra “Torino Al Futuro. La Cultura d’Impresa, la Cultura dell’Innovazione”, organizzata da Unione Industriali Torino e visitabile dal 14 aprile al 30 settembre al Museo del Risorgimento. Evento di punta dell’anno di Torino Capitale della cultura d’impresa, il percorso espositivo si articola in sette sezioni grafiche e multimediali installate nel corridoio monumentale della Camera Italiana all’interno del Museo, lungo le quali il visitatore sarà condotto alla scoperta della storia dell’industrializzazione torinese, partendo dalle sue origini, per concludersi con una sezione immersiva dedicata alle prospettive future della città.

L’area di Torino è da sempre terreno di sperimentazione per le innovazioni industriali; non a caso, anche Pirelli è presente a Settimo Torinese con uno stabilimento per pneumatici vettura fin dagli inizi degli anni Cinquanta. Un legame col territorio piemontese messo in luce nel percorso allestitivo: dagli scatti che il fotografo olandese Arno Hammacher dedica nel 1962 alla prima fabbrica Pirelli di Settimo fino alle riprese del “Canto della fabbrica”, il concerto eseguito dall’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Uno degli stabilimenti tecnologicamente più avanzati del Gruppo Pirelli nel mondo in termini di innovazione di prodotto, processi produttivi e qualità dell’ambiente di lavoro. Il corpo centrale adibito ai servizi, la cosiddetta “Spina”, così come le opere paesaggistiche che immergono la fabbrica tra 500 alberi di ciliegio, sono un progetto dell’architetto Renzo Piano.

Il Polo, nato anche grazie alla proficua collaborazione con le istituzioni locali e con il Politecnico di Torino, ben rappresenta l’idea di innovazione di Pirelli. Non solo tecnologia, ma anche sostenibilità, rispetto per l’ambiente, cura delle persone. Un racconto che non poteva mancare in una mostra dedicata alla cultura d’impresa, che ripercorre una grande storia industriale per approdare a uno “spazio al futuro”, aperto anche alle giovani generazioni.

Multimedia

Images

Reti d’impresa efficaci ma da migliorare

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul settore indica molti pregi di queste forme di aggregazione ma anche notevoli spazi di miglioramento

 

Reti d’impresa come una delle migliori espressioni di quella buona cultura del produrre che fa bene all’economia e allo sviluppo del Paese. Reti che, naturalmente, devono essere ben costruite e gestite e che, quindi, occorre capire. Partendo dagli strumenti messi a disposizione come, appunto, i contratti di rete.

Proprio i contratti di rete sono oggetto, ormai da diverso tempo, dell’analisi dell’Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa (condotto da Università Ca’ Foscari, Retimpresa e Infocamere) che ha messo a punto una raccolta di ricerche aggiornata sullo stato dell’arte di questa modalità di aggregazione e collaborazione tra aziende.

Attraverso la serie di indagini condotte dall’Osservatorio, raccolte adesso in volume a cura di Anna Cabigiosu, è possibile quindi avere “il polso” di questo strumento e le linee della sua possibile evoluzione. La prima analisi, quindi, concerne le dinamiche recenti dei contratti e le novità che stanno emergendo. Si passa poi ad approfondire  le caratteristiche e la capacità di dare risultati degli attuali contratti per arrivare ad un focus sulla governance  degli stessi. Il rapporto, quindi, passa ad approfondire alcuni aspetti particolari come i rapporti di lavoro, la resilienza delle reti d’impresa, la prossimità geografica come fattori ore di competitività, il grado di innovazione delle reti e gli aspetti fiscali e finanziaria delle stesse.

“Le reti negli anni si stanno compattando geograficamente e settorialmente” commenta la curatrice nelle sue conclusioni aggiungendo però che le reti “per essere efficaci devono mettere a sistema risorse diverse”. Particolare attenzione, quindi, viene posta ad elementi che aggiungono resilienza e innovazione così come capacità di usare meglio gli strumenti messi a disposizione dalle norme fiscali e giuslavoristiche.

Reti d’impresa importanti, dunque, anche se ancora da migliorare. E’ un messaggio chiaro quello che arriva dall’Osservatorio, un messaggio che vale molto per la crescita generale della cultura d’impresa in Italia.

Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa 2023

Anna Cabigiosu (a cura di), Venezia Edizioni Ca’ Foscari – Venice University Press, 2024

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul settore indica molti pregi di queste forme di aggregazione ma anche notevoli spazi di miglioramento

 

Reti d’impresa come una delle migliori espressioni di quella buona cultura del produrre che fa bene all’economia e allo sviluppo del Paese. Reti che, naturalmente, devono essere ben costruite e gestite e che, quindi, occorre capire. Partendo dagli strumenti messi a disposizione come, appunto, i contratti di rete.

Proprio i contratti di rete sono oggetto, ormai da diverso tempo, dell’analisi dell’Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa (condotto da Università Ca’ Foscari, Retimpresa e Infocamere) che ha messo a punto una raccolta di ricerche aggiornata sullo stato dell’arte di questa modalità di aggregazione e collaborazione tra aziende.

Attraverso la serie di indagini condotte dall’Osservatorio, raccolte adesso in volume a cura di Anna Cabigiosu, è possibile quindi avere “il polso” di questo strumento e le linee della sua possibile evoluzione. La prima analisi, quindi, concerne le dinamiche recenti dei contratti e le novità che stanno emergendo. Si passa poi ad approfondire  le caratteristiche e la capacità di dare risultati degli attuali contratti per arrivare ad un focus sulla governance  degli stessi. Il rapporto, quindi, passa ad approfondire alcuni aspetti particolari come i rapporti di lavoro, la resilienza delle reti d’impresa, la prossimità geografica come fattori ore di competitività, il grado di innovazione delle reti e gli aspetti fiscali e finanziaria delle stesse.

“Le reti negli anni si stanno compattando geograficamente e settorialmente” commenta la curatrice nelle sue conclusioni aggiungendo però che le reti “per essere efficaci devono mettere a sistema risorse diverse”. Particolare attenzione, quindi, viene posta ad elementi che aggiungono resilienza e innovazione così come capacità di usare meglio gli strumenti messi a disposizione dalle norme fiscali e giuslavoristiche.

Reti d’impresa importanti, dunque, anche se ancora da migliorare. E’ un messaggio chiaro quello che arriva dall’Osservatorio, un messaggio che vale molto per la crescita generale della cultura d’impresa in Italia.

Osservatorio Nazionale sulle reti d’impresa 2023

Anna Cabigiosu (a cura di), Venezia Edizioni Ca’ Foscari – Venice University Press, 2024

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?