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Fotografare la musica. Una Rete in Viaggio alle Gallerie d’Italia di Torino

Il 7 maggio siamo stati alle Gallerie d’Italia di Torino per parlare di “Fotografia e musica” insieme all’Archivio Storico Intesa Sanpaolo, Lelli & Masotti e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale (AESS) – Regione Lombardia. Sarà il terzo e ultimo appuntamento dell’edizione 2024 di “Una Rete in Viaggio. Storie, idee, progetti”, il programma di incontri a cura di Rete Fotografia che mette in connessione associati e istituzioni alla scoperta di punti d’incontro inediti.

A partire dalla mostra “Non ha l’età. Il Festival di Sanremo in bianco e nero 1951-1976”, fino al 12 maggio alle Gallerie d’Italia, l’Archivio Storico Intesa Sanpaolo ricostruirà il rapporto tra fotografia e musica attraverso l’archivio dell’agenzia fotogiornalistica Publifoto. L’archivio fotografico Lelli & Masotti risponderà alla domanda “cosa vuol dire fotografare la musica” spiegando cosa significhi immortalare eventi musicali dal vivo, dal rock al jazz, fino ai concerti del Teatro alla Scala di Milano, di cui Silvia Lelli Roberto Masotti sono stati a lungo fotografi ufficiali. L’intervento dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale (AESS) – Regione Lombardia si focalizzerà invece sul taglio antropologico dei reportage che documentano le esecuzioni di canti e musiche strumentali nel corso di matrimoni, carnevali, spettacoli di piazza, cogliendone gli aspetti rituali.

Il nostro intervento tratterà infine il solido rapporto tra l’impresa e la musica, che è possibile ripercorrere attraverso le fotografie pubblicate sugli house-organ aziendali Pirelli. Sono infatti periodici come la Rivista Pirelli e “Fatti e Notizie” a ospitare tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta gli articoli dedicati al mondo musicale. Con tre focus principali: i protagonisti e le novità in classifica, le inchieste e gli approfondimenti con taglio socio-antropologico, la musica come strumento di welfare e cultura d’impresa.

“Musica per chi lavora” è il titolo dell’articolo che la Rivista Pirelli dedica nel 1952 all’influenza della musica sul rendimento del lavoratore, argomento tipicamente mutuato dalla psicologia americana degli anni Cinquanta. Nel 1961 Aldo Visalberghi firma l’inchiesta sulle “Responsabilità della televisione”: si discute delle potenzialità del mezzo televisivo nell’educazione dello spettatore, e dunque della centrale presenza della musica sul piccolo schermo. Tra le fotografie del nostro archivio, poi inedite sulla Rivista, ci sono numerosi ritratti di Leonard Bernstein, uno dei quali lo vede in coppia con Igor Stravinskij in occasione del debutto del compositore russo sulla CBS con la New York Philharmonic. “Gli archeologi del blues”, pubblicato nel 1965 a firma del critico musicale Arrigo Polillo, indaga il fenomeno del passaggio dalla musica nera di Louis Armstrong – ritratto per la Rivista dallo Studio Farabola insieme a Mario Riva – al jazz di protesta di John Coltrane. E ancora, il contributo sull’istruzione musicale in Italia di Corrado Augias (1971) corredato dal reportage di Mimmo Frassineti al Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” di Roma.

“Fatti e Notizie”, il periodico interno nato nel 1950, alla fine degli anni Sessanta assume la veste di un moderno rotocalco sia nella veste grafica, con numerose illustrazioni, sia nei contenuti: oltre ai temi di cronaca sull’attività dell’azienda, numerosi sono gli articoli di ecologia, sport e cultura, così come le rubriche dedicate ai dischi, al cinema, ai libri. Nel luglio 1971 l’house-organ ha assunto da un paio di mesi il grande formato tipico dei periodici del tempo, e nel mese di luglio esordisce la rubrica Varietà: canzoni, tv, star system canoro, il Festival di Sanremo e “Canzonissima”. A Varietà si affiancano fin da subito le rubriche Dischi, Canzoni e Spettacoli. Canzoni delinea un panorama completo dell’Italia che canta, ascolta i 45 giri, segue “Cantagiro” e “Festivalbar”: protagonisti della rubrica sono, tra gli altri, Domenico Modugno che invita al recupero dei canti tradizionali e Lucio Dalla che “vuol riscoprire il folk emiliano”. Nella rubrica Spettacoli si documenta l’esibizione di un trentacinquenne Enzo Jannacci, il 16 giugno 1971 alla Bicocca: un evento organizzato dalla Pirelli e destinato non solo ai dipendenti, ma a tutta la cittadinanza, che Jannacci commenta così sulle pagine del periodico: “Qui gli applausi e i consensi non sono mai a comando, o fatti per cortesia. E a me piacciono le cose sincere”.

Tra le iniziative promosse dell’azienda, “Fatti & Notizie” documenta in primis le attività del Centro Culturale Pirelli, come il celebre “Concerto per pianoforti preparati” di John Cage e David Tudor del 1954. Compositore e teorico musicale di Los Angeles, Cage è tra i più importanti protagonisti dell’avanguardia musicale, ma in Italia nel 1954 è ancora quasi del tutto sconosciuto. Quella al Centro Culturale è infatti la prima apparizione pubblica italiana del musicista statunitense: una scelta “coraggiosa” – citando un articolo pubblicato proprio su “Fatti e Notizie” – da parte di Pirelli e di Gino Negri, allora curatore della programmazione musicale del Centro Culturale, sollecitato dal compositore Luciano Berio. È il 5 novembre e l’iniziativa, presentata dal compositore e musicologo Riccardo Malipiero, è destinata a entrare nella storia della Cultura d’Impresa moderna.

La musica, come asset della cultura d’impresa, ha trovato espressione in tempi recenti nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica. Una collaborazione che ha inizio nel 2007, e che dal 2010 ha visto Pirelli promuovere gli eventi del Festival nei propri spazi industriali: per l’edizione 2010 l’ex stabilimento di Settimo Torinese ha ospitato “I Fiati di Torino” davanti a una platea di oltre quattrocento persone. Dopo il successo dell’edizione 2010, i musicisti sono tornati in fabbrica per MITO 2011: questa volta l’orchestra “I Pomeriggi Musicali”, diretta dal maestro Luca Pfaff, nei rinnovati spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Nel 2014 è stata invece l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Hamel a esibirsi negli spazi del Polo, e nel 2016 i musicisti dell’“Altus Trio”.

All’interno del Polo Industriale di Settimo Torinese, il Maestro Salvatore Accardo ha diretto nel 2017 l’Orchestra da Camera Italiana nell’esecuzione de “Il canto della fabbrica”, opera commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore per “descrivere in musica” i suoni della fabbrica 4.0. Dal concerto, ampiamente documentato attraverso reportage fotografici, è nato nel 2018 l’omonimo progetto editoriale pubblicato da Mondadori, che racconta il mondo dell’industria e della musica in oltre 120 immagini. E quello tra Accardo e Pirelli è un rapporto di ancor più lunga data. Nel 1971 il Maestro, appena trentenne e già considerato uno dei maggiori violinisti al mondo, è chiamato dall’azienda a prendere parte al VI Festival Musicale organizzato proprio presso il Centro Culturale Pirelli.

Un percorso circolare che la fotografia ha il potere di evocare, tra passato e presente. E così, attraverso le immagini, anche la musica risuona.

 

Il 7 maggio siamo stati alle Gallerie d’Italia di Torino per parlare di “Fotografia e musica” insieme all’Archivio Storico Intesa Sanpaolo, Lelli & Masotti e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale (AESS) – Regione Lombardia. Sarà il terzo e ultimo appuntamento dell’edizione 2024 di “Una Rete in Viaggio. Storie, idee, progetti”, il programma di incontri a cura di Rete Fotografia che mette in connessione associati e istituzioni alla scoperta di punti d’incontro inediti.

A partire dalla mostra “Non ha l’età. Il Festival di Sanremo in bianco e nero 1951-1976”, fino al 12 maggio alle Gallerie d’Italia, l’Archivio Storico Intesa Sanpaolo ricostruirà il rapporto tra fotografia e musica attraverso l’archivio dell’agenzia fotogiornalistica Publifoto. L’archivio fotografico Lelli & Masotti risponderà alla domanda “cosa vuol dire fotografare la musica” spiegando cosa significhi immortalare eventi musicali dal vivo, dal rock al jazz, fino ai concerti del Teatro alla Scala di Milano, di cui Silvia Lelli Roberto Masotti sono stati a lungo fotografi ufficiali. L’intervento dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale (AESS) – Regione Lombardia si focalizzerà invece sul taglio antropologico dei reportage che documentano le esecuzioni di canti e musiche strumentali nel corso di matrimoni, carnevali, spettacoli di piazza, cogliendone gli aspetti rituali.

Il nostro intervento tratterà infine il solido rapporto tra l’impresa e la musica, che è possibile ripercorrere attraverso le fotografie pubblicate sugli house-organ aziendali Pirelli. Sono infatti periodici come la Rivista Pirelli e “Fatti e Notizie” a ospitare tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta gli articoli dedicati al mondo musicale. Con tre focus principali: i protagonisti e le novità in classifica, le inchieste e gli approfondimenti con taglio socio-antropologico, la musica come strumento di welfare e cultura d’impresa.

“Musica per chi lavora” è il titolo dell’articolo che la Rivista Pirelli dedica nel 1952 all’influenza della musica sul rendimento del lavoratore, argomento tipicamente mutuato dalla psicologia americana degli anni Cinquanta. Nel 1961 Aldo Visalberghi firma l’inchiesta sulle “Responsabilità della televisione”: si discute delle potenzialità del mezzo televisivo nell’educazione dello spettatore, e dunque della centrale presenza della musica sul piccolo schermo. Tra le fotografie del nostro archivio, poi inedite sulla Rivista, ci sono numerosi ritratti di Leonard Bernstein, uno dei quali lo vede in coppia con Igor Stravinskij in occasione del debutto del compositore russo sulla CBS con la New York Philharmonic. “Gli archeologi del blues”, pubblicato nel 1965 a firma del critico musicale Arrigo Polillo, indaga il fenomeno del passaggio dalla musica nera di Louis Armstrong – ritratto per la Rivista dallo Studio Farabola insieme a Mario Riva – al jazz di protesta di John Coltrane. E ancora, il contributo sull’istruzione musicale in Italia di Corrado Augias (1971) corredato dal reportage di Mimmo Frassineti al Conservatorio di Musica “Santa Cecilia” di Roma.

“Fatti e Notizie”, il periodico interno nato nel 1950, alla fine degli anni Sessanta assume la veste di un moderno rotocalco sia nella veste grafica, con numerose illustrazioni, sia nei contenuti: oltre ai temi di cronaca sull’attività dell’azienda, numerosi sono gli articoli di ecologia, sport e cultura, così come le rubriche dedicate ai dischi, al cinema, ai libri. Nel luglio 1971 l’house-organ ha assunto da un paio di mesi il grande formato tipico dei periodici del tempo, e nel mese di luglio esordisce la rubrica Varietà: canzoni, tv, star system canoro, il Festival di Sanremo e “Canzonissima”. A Varietà si affiancano fin da subito le rubriche Dischi, Canzoni e Spettacoli. Canzoni delinea un panorama completo dell’Italia che canta, ascolta i 45 giri, segue “Cantagiro” e “Festivalbar”: protagonisti della rubrica sono, tra gli altri, Domenico Modugno che invita al recupero dei canti tradizionali e Lucio Dalla che “vuol riscoprire il folk emiliano”. Nella rubrica Spettacoli si documenta l’esibizione di un trentacinquenne Enzo Jannacci, il 16 giugno 1971 alla Bicocca: un evento organizzato dalla Pirelli e destinato non solo ai dipendenti, ma a tutta la cittadinanza, che Jannacci commenta così sulle pagine del periodico: “Qui gli applausi e i consensi non sono mai a comando, o fatti per cortesia. E a me piacciono le cose sincere”.

Tra le iniziative promosse dell’azienda, “Fatti & Notizie” documenta in primis le attività del Centro Culturale Pirelli, come il celebre “Concerto per pianoforti preparati” di John Cage e David Tudor del 1954. Compositore e teorico musicale di Los Angeles, Cage è tra i più importanti protagonisti dell’avanguardia musicale, ma in Italia nel 1954 è ancora quasi del tutto sconosciuto. Quella al Centro Culturale è infatti la prima apparizione pubblica italiana del musicista statunitense: una scelta “coraggiosa” – citando un articolo pubblicato proprio su “Fatti e Notizie” – da parte di Pirelli e di Gino Negri, allora curatore della programmazione musicale del Centro Culturale, sollecitato dal compositore Luciano Berio. È il 5 novembre e l’iniziativa, presentata dal compositore e musicologo Riccardo Malipiero, è destinata a entrare nella storia della Cultura d’Impresa moderna.

La musica, come asset della cultura d’impresa, ha trovato espressione in tempi recenti nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica. Una collaborazione che ha inizio nel 2007, e che dal 2010 ha visto Pirelli promuovere gli eventi del Festival nei propri spazi industriali: per l’edizione 2010 l’ex stabilimento di Settimo Torinese ha ospitato “I Fiati di Torino” davanti a una platea di oltre quattrocento persone. Dopo il successo dell’edizione 2010, i musicisti sono tornati in fabbrica per MITO 2011: questa volta l’orchestra “I Pomeriggi Musicali”, diretta dal maestro Luca Pfaff, nei rinnovati spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Nel 2014 è stata invece l’Orchestra Filarmonica di Torino diretta da Micha Hamel a esibirsi negli spazi del Polo, e nel 2016 i musicisti dell’“Altus Trio”.

All’interno del Polo Industriale di Settimo Torinese, il Maestro Salvatore Accardo ha diretto nel 2017 l’Orchestra da Camera Italiana nell’esecuzione de “Il canto della fabbrica”, opera commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore per “descrivere in musica” i suoni della fabbrica 4.0. Dal concerto, ampiamente documentato attraverso reportage fotografici, è nato nel 2018 l’omonimo progetto editoriale pubblicato da Mondadori, che racconta il mondo dell’industria e della musica in oltre 120 immagini. E quello tra Accardo e Pirelli è un rapporto di ancor più lunga data. Nel 1971 il Maestro, appena trentenne e già considerato uno dei maggiori violinisti al mondo, è chiamato dall’azienda a prendere parte al VI Festival Musicale organizzato proprio presso il Centro Culturale Pirelli.

Un percorso circolare che la fotografia ha il potere di evocare, tra passato e presente. E così, attraverso le immagini, anche la musica risuona.

 

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La responsabilità sociale d’impresa che fa bene ai lavoratori

Una ricerca appena pubblicata mette in correlazione la CSR con il benessere aziendale

 

L’attenzione dell’impresa alle sue responsabilità verso il contesto che la circonda, e l’attenzione della stessa impresa al benessere dei lavoratori. Relazione importante, che dà il segno anche di una cultura del produrre più attenta.

E’ attorno a questi concetti che ha lavorato Usma Zaidi con il suo contributo di ricerca “CSR and Employee Happiness: A Systematic Review and Critique of Organizational Cultures for Employee Satisfaction” da poco pubblicato on line sul Open Journal of Social Sciences.

Obiettivo esplicito dell’indagine è quello di esplorare i potenziali effetti della “cultura organizzativa aziendale, attenta al ruolo della responsabilità sociale interna d’impresa (CSR), sulla felicità dei dipendenti”. Detto in altri termini, traguardo della ricerca è stato quello di scoprire e analizzare i legami e l’interazione tra la cultura organizzativa, in particolare quella legata alla CSR, e il benessere dei dipendenti nella loro vita lavorativa. In particolare poi, la ricerca ha inteso fornire spunti utili per promuovere la soddisfazione lavorativa e la dedizione all’organizzazione attraverso la presenza e l’operatività della CSR.

Il lavoro di Zaidi è iniziato da una descrizione dei tratti caratteristici della responsabilità sociale d’impresa per poi passare ad una analisi di più casi aziendali attraverso l’applicazione di metodi di indagine statistica sulle relazioni tra CSR e i dipendenti. L’articolo di Zaidi stabilisce così una connessione statistica tra la CSR interna, la cultura dell’organizzazione e la soddisfazione dei dipendenti. Al di là del risultato quantitativo, Zaidi riesce a dimostrare la correlazione tra la pratica della CSR con l’attività personale di qualsiasi dipendente volta, spiega l’autore, “a migliorare la produttività del lavoro con emozioni positive”. E’ quindi una sinergia positiva tra impresa e lavoratore quella che si sviluppa nelle aziende in cui la CSR viene correttamente intesa.

L’indagine di Usma Zaidi consente così di comprendere meglio, e da un punto di vista anche quantitativo, i legami forti tra CSR e welfare aziendale.

CSR and Employee Happiness: A Systematic Review and Critique of Organizational Cultures for Employee Satisfaction

Uzma Zaidi (HASS Department, Amity University, Dubai, UAE)

Open Journal of Social Sciences, Vol.12 No.4, April 2024

Una ricerca appena pubblicata mette in correlazione la CSR con il benessere aziendale

 

L’attenzione dell’impresa alle sue responsabilità verso il contesto che la circonda, e l’attenzione della stessa impresa al benessere dei lavoratori. Relazione importante, che dà il segno anche di una cultura del produrre più attenta.

E’ attorno a questi concetti che ha lavorato Usma Zaidi con il suo contributo di ricerca “CSR and Employee Happiness: A Systematic Review and Critique of Organizational Cultures for Employee Satisfaction” da poco pubblicato on line sul Open Journal of Social Sciences.

Obiettivo esplicito dell’indagine è quello di esplorare i potenziali effetti della “cultura organizzativa aziendale, attenta al ruolo della responsabilità sociale interna d’impresa (CSR), sulla felicità dei dipendenti”. Detto in altri termini, traguardo della ricerca è stato quello di scoprire e analizzare i legami e l’interazione tra la cultura organizzativa, in particolare quella legata alla CSR, e il benessere dei dipendenti nella loro vita lavorativa. In particolare poi, la ricerca ha inteso fornire spunti utili per promuovere la soddisfazione lavorativa e la dedizione all’organizzazione attraverso la presenza e l’operatività della CSR.

Il lavoro di Zaidi è iniziato da una descrizione dei tratti caratteristici della responsabilità sociale d’impresa per poi passare ad una analisi di più casi aziendali attraverso l’applicazione di metodi di indagine statistica sulle relazioni tra CSR e i dipendenti. L’articolo di Zaidi stabilisce così una connessione statistica tra la CSR interna, la cultura dell’organizzazione e la soddisfazione dei dipendenti. Al di là del risultato quantitativo, Zaidi riesce a dimostrare la correlazione tra la pratica della CSR con l’attività personale di qualsiasi dipendente volta, spiega l’autore, “a migliorare la produttività del lavoro con emozioni positive”. E’ quindi una sinergia positiva tra impresa e lavoratore quella che si sviluppa nelle aziende in cui la CSR viene correttamente intesa.

L’indagine di Usma Zaidi consente così di comprendere meglio, e da un punto di vista anche quantitativo, i legami forti tra CSR e welfare aziendale.

CSR and Employee Happiness: A Systematic Review and Critique of Organizational Cultures for Employee Satisfaction

Uzma Zaidi (HASS Department, Amity University, Dubai, UAE)

Open Journal of Social Sciences, Vol.12 No.4, April 2024

L’imprenditore continua ad essere un enigma

Rileggere il libro di Giuseppe Berta sull’imprenditorialità per comprendere meglio la realtà

“Un conto è stare sul ponte di comando di una nave di proprietà d’altri, un altro è costruire la nave, metterla in mare e saper navigare”. E’ la sintesi pressoché perfetta, affidata ad una intervista ad Avvenire nel 2020, della figura dell’imprenditore così come delineata da Giuseppe Berta – scomparso pochi giorni fa – per anni docente di Storia contemporanea alla Bocconi di Milano ma anche attento conoscitore del sistema delle imprese italiane. L’imprenditore che ha “un sogno” (per dirla con un termine caro ad alcuni altri storici d’impresa) e che riesce a realizzarlo, a farlo realtà, soffrendo e gioendo, riuscendo a scegliere i collaboratori più adatti al caso suo, coordinarli, farli crescere e crescere con questi.

Berta ha dedicato, in particolare, un libro a questa figura e alla sua specifica cultura – “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)” – che si caratterizza a partire dal titolo. Come ogni buon libro, infatti, questa fatica letteraria di Berta (una delle tante) non fornisce certezze e parla di un “enigma” per il quale, al più, indica strumenti utili alla sua comprensione. E lega, subito appunto dal titolo, la figura dell’imprenditore al destino della sua creatura: l’impresa.

Destino che, leggendo il libro, si delinea prima dal punto di vista storico e poi sulla base della contemporaneità (valida ancora oggi a qualche anno dalla pubblicazione). L’imprenditore così, viene descritto a partire dalla metà del Settecento, quando questa figura è rappresentata come motore del processo economico, per passare poi all’Ottocento e al Novecento, quando l’imprenditore diventa innovatore fino ad essere anche organizzatore e manager. Per arrivare all’oggi, in un mondo in cui le nuove tecnologie, la digitalizzazione, la complessità e la velocità appaiono essere i nuovi vincoli e le nuove opportunità per l’impresa.

Così, la figura dell’imprenditore e della sua cultura, è per Berta occasione per raccontare l’evoluzione dell’impresa e del capitalismo (che nelle ultime pagine viene indicato come “delle piattaforme” piuttosto che dei singoli). Un racconto che, come si diceva, non fornisce soluzioni preconfezionate, ma strumenti per capire. Tutto con una scrittura che si fa leggere, a tratti forse non semplicissima ma assolutamente comprensibile. Un libro da leggere – e rileggere –, un libro che fa pensare e che non a caso si conclude con una domanda. Giuseppe Berta, infatti, parlando dell’imprenditorialità  dell’oggi le cui fortune dipendono dalle tecnologie così come dai circuiti finanziari,  scrive di “una miscela che apparentemente può alimentare all’infinito le opportunità e il numero dei nuovi imprenditori. Ma fino a quando?”.

 

L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)

Giuseppe Berta

il Mulino, 2018

Rileggere il libro di Giuseppe Berta sull’imprenditorialità per comprendere meglio la realtà

“Un conto è stare sul ponte di comando di una nave di proprietà d’altri, un altro è costruire la nave, metterla in mare e saper navigare”. E’ la sintesi pressoché perfetta, affidata ad una intervista ad Avvenire nel 2020, della figura dell’imprenditore così come delineata da Giuseppe Berta – scomparso pochi giorni fa – per anni docente di Storia contemporanea alla Bocconi di Milano ma anche attento conoscitore del sistema delle imprese italiane. L’imprenditore che ha “un sogno” (per dirla con un termine caro ad alcuni altri storici d’impresa) e che riesce a realizzarlo, a farlo realtà, soffrendo e gioendo, riuscendo a scegliere i collaboratori più adatti al caso suo, coordinarli, farli crescere e crescere con questi.

Berta ha dedicato, in particolare, un libro a questa figura e alla sua specifica cultura – “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)” – che si caratterizza a partire dal titolo. Come ogni buon libro, infatti, questa fatica letteraria di Berta (una delle tante) non fornisce certezze e parla di un “enigma” per il quale, al più, indica strumenti utili alla sua comprensione. E lega, subito appunto dal titolo, la figura dell’imprenditore al destino della sua creatura: l’impresa.

Destino che, leggendo il libro, si delinea prima dal punto di vista storico e poi sulla base della contemporaneità (valida ancora oggi a qualche anno dalla pubblicazione). L’imprenditore così, viene descritto a partire dalla metà del Settecento, quando questa figura è rappresentata come motore del processo economico, per passare poi all’Ottocento e al Novecento, quando l’imprenditore diventa innovatore fino ad essere anche organizzatore e manager. Per arrivare all’oggi, in un mondo in cui le nuove tecnologie, la digitalizzazione, la complessità e la velocità appaiono essere i nuovi vincoli e le nuove opportunità per l’impresa.

Così, la figura dell’imprenditore e della sua cultura, è per Berta occasione per raccontare l’evoluzione dell’impresa e del capitalismo (che nelle ultime pagine viene indicato come “delle piattaforme” piuttosto che dei singoli). Un racconto che, come si diceva, non fornisce soluzioni preconfezionate, ma strumenti per capire. Tutto con una scrittura che si fa leggere, a tratti forse non semplicissima ma assolutamente comprensibile. Un libro da leggere – e rileggere –, un libro che fa pensare e che non a caso si conclude con una domanda. Giuseppe Berta, infatti, parlando dell’imprenditorialità  dell’oggi le cui fortune dipendono dalle tecnologie così come dai circuiti finanziari,  scrive di “una miscela che apparentemente può alimentare all’infinito le opportunità e il numero dei nuovi imprenditori. Ma fino a quando?”.

 

L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)

Giuseppe Berta

il Mulino, 2018

La lezione sui danni della Brexit per il Regno Unito e le spinte per rafforzare ruolo e politiche della Ue

Meno Europa, maggior potere agli stati nazionali, chiedono i sovranisti. Un’Europa più compatta, affidabile, forte d’un più incisivo ruolo internazionale, pena il degrado anche dei singoli paesi europei, dicono invece tutti coloro che hanno a cuore le sintesi tra sviluppo sostenibile, democrazia liberale e welfare. E le imprese italiane? Le migliori manifatturiere oramai da molti anni considerano l’Europa come un grande mercato unico, ricco di opportunità e hanno chiari i vantaggi dell’export negli altri paesi Ue come leva di competitività anche nei confronti degli altri mercati internazionali. Più Europa ed Europa migliore, dunque, è il loro orizzonte.

Confindustria, naturalmente, continua a insistere sulle prospettive di un’Europa meno burocratica e più efficace per il rafforzamento delle relazioni o economiche e della competitività, soprattutto di fronte alle sfide che vengono dalle politiche di Usa e Cina e dai pericoli anche economici delle attuali, drammatiche crisi geopolitiche (ne abbiamo parlato a lungo nei blog delle ultime settimane). Consolida il sistema di buone relazioni con le altre organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania. E chiede un vero e proprio “cambio di passo” alle istituzioni europee, guardando con attenzione e interesse sia al Rapporto sul mercato unico elaborato da Enrico Letta come presidente del Centro Delors, su incarico della Commissione Ue di Bruxelles, sia al rapporto sulla competitività su cui sta lavorando Mario Draghi.

“Un’Europa non unita va verso il declino e la dipendenza da potenze straniere”, sostiene un grande imprenditore come Marco Tronchetti Provera, CEO di Pirelli (la Repubblica, 22 marzo). E spiega: “L’Europa non è riuscita finora a mettere a fattor comune tutte le sue risorse. Ha il mercato più ricco del mondo e 440 milioni di persone con la migliore protezione sociale a livello globale. Il tutto fondato sui valori di cultura e democrazia che sono alla base della nascita della Ue. Al momento però non c’è un progetto, ma solo qualche debole segnale sul fronte della difesa comune e della politica estera. Chi vince le elezioni europee deve riuscire a dare una regia comune a tutto ciò”. Insomma, “abbiamo bisogno di un grande piano di rilancio”. Da finanziare “agendo sul bilancio europeo” e anche “con strumenti come gli Eurobond”, seguendo “la strada già sperimentata con il NextGenEu”. In sintesi, “è importante garantire la competitività del sistema finanziario. L’Europa ha tanto risparmio privato da convogliare sugli investimenti e non può badare solo all’inflazione. Si deve crescere mettendo in connessione la politica monetaria e quella industriale”.

Sono questi, i temi da discutere in campagna elettorale. Evitando di piegare il voto di giugno per il nuovo Parlamento europeo a interessi di potere nazionali e di spendere troppa demagogia nel discorso pubblico, dimenticando di fare i conti con le sfide, i fatti, i numeri dell’economia.

Può essere utile, proprio per rispondere alle campagne antieuropee, ragionare sugli effetti economici e sociali, oltre che politici, di una scelta radicale contro la Ue: la Brexit.

“Sinora la Brexit ha fatto perdere cinque punti di Pil al Regno Unito”, sostiene uno studio di Goldman Sachs (la Repubblica, 9 febbraio) calcolando una differenza nei confronti dei grandi paesi Ue provocata dalla riduzione della crescita e dall’alta inflazione legata alla rottura tra Londra e la Ue dopo il referendum del 23 giugno 2016. Analogo il giudizio di Bloomberg: meno Pil, maggiori interessi sul debito, maggiore disoccupazione: “Il Regno Unito sembra senza scampo dai danni senza fine della Brexit” (la Repubblica, 21 marzo).

Uno studio dell’Ispi, curato da Davide Tentori (12 gennaio) consente di guardare meglio alcuni dati essenziali. La Brexit è diventata formalmente realtà dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, anche se in termini pratici alcuni cambiamenti si sono verificati già a partire dal 1 gennaio 2021, al termine del “Transition Period” dei negoziati sui termini della nuova relazione economica tra Regno Unito e Unione Europea.

Dal 2021 al 2023 – calcola l’Ispi – il Pil del paese è cresciuto a un tasso annuo medio del 4,5%, a fronte di una crescita media che in Unione Europea è stata invece del 3,3%. Ma è necessario considerare che nel 2020 (l’anno della pandemia Covid, a cui si è aggiunta l’incertezza legata ai negoziati con l’UE per la definizione del Trade and Cooperation Agreement – TCA) “il Pil si era contratto del -10,3%, ben più del -5,8% registrato in media dai 27 Paesi UE”. Insomma, “l’economia britannica è stata certamente penalizzata da elementi imprevedibili, come gli strascichi della pandemia sulle supply chains internazionali a livello di logistica e trasporti – che hanno causato una carenza di forniture di generi alimentari; ma hanno pesato anche gli errori compiuti durante la breve, quanto disastrosa esperienza del governo di Liz Truss”.

Contingenze a parte, l’Ispi insiste su “una strutturale perdita di competitività del sistema produttivo britannico, frutto di una ventennale carenza di investimenti, sia nel settore pubblico che privato, e una parziale perdita di ruolo di “hub” del Paese una volta fuori dal mercato unico europeo”.

L’esecutivo di Rishi Sunak, subentrato a Liz Truss, è riuscito a raddrizzare la barra del timone, evitando così una recessione nel 2023 (anche favorito da una congiuntura globale che si è rivelata più robusta del previsto) “ma a prezzo di una stretta fiscale e monetaria che non certamente non favorirà la crescita economica in prospettiva”.

Guardando al commercio estero, rispetto al periodo pre-Brexit e pre-pandemia, “il Regno Unito è riuscito ad aumentare i propri flussi commerciali già nel 2022, anche se alle spese di una notevole crescita dell’import che si è tradotta in un significativo incremento del deficit commerciale (passato da 224 miliardi di dollari nel 2019 a 288 nel 2022). Il commercio bilaterale con l’UE ha registrato una dinamica simile, calando nel 2020 e 2021 per poi riprendersi superando i livelli pre-Covid nel 2022 ma anche in questo caso con un ampliamento del deficit derivante dalla crescita dell’import. Il prossimo stress-test sarà con l’introduzione dell’ultima tranche di controlli sulle merci agro-alimentari in arrivo dall’UE, a partire dalla primavera 2024”.

Le “mani libere” dai vincoli Ue hanno consentito a Londra di tessere nuove relazioni commerciali soprattutto nell’area dell’Indo-Pacifico. Ma tanto attivismo non ha compensato né la crescente debolezza dell’economia, né la perdita della centralità di Londra come piazza finanziaria (molte funzioni, oltre che molte sedi bancarie, si sono spostate ad Amsterdam) né il peggioramento del tenore di vita.

Le recenti elezioni amministrative, con una pesante sconfitta dei Tory, ne sono un evidente riflesso. Dopo 15 anni di potere dei conservatori, sono in molti a ritenere prossimo un cambio di guardia alle prossime elezioni politiche in autunno, con un possibile successo dei laburisti.

“Un’isola alla deriva o con una strategia chiara?”, si chiede il rapporto dell’Ispi.

Le tensioni geopolitiche, le strategie di Washington e le pressioni della Cina anche in campo economico non giocano a favore del ruolo di singoli paesi, ancorché importanti come il Regno Unito.

Le riflessioni sul futuro dell’Europa, sia per le politiche industriali (con un recupero di competitività) che per quelle sulla sicurezza, l’energia e la difesa chiamano comunque in ballo Londra. E se la Brexit non è un fenomeno modificabile nel breve periodo, una nuova stagione di relazioni più robuste sembra auspicabile. In un mondo così carico di rischi e tensioni, nessuno può “ballare da solo”.

(foto Getty Images)

Meno Europa, maggior potere agli stati nazionali, chiedono i sovranisti. Un’Europa più compatta, affidabile, forte d’un più incisivo ruolo internazionale, pena il degrado anche dei singoli paesi europei, dicono invece tutti coloro che hanno a cuore le sintesi tra sviluppo sostenibile, democrazia liberale e welfare. E le imprese italiane? Le migliori manifatturiere oramai da molti anni considerano l’Europa come un grande mercato unico, ricco di opportunità e hanno chiari i vantaggi dell’export negli altri paesi Ue come leva di competitività anche nei confronti degli altri mercati internazionali. Più Europa ed Europa migliore, dunque, è il loro orizzonte.

Confindustria, naturalmente, continua a insistere sulle prospettive di un’Europa meno burocratica e più efficace per il rafforzamento delle relazioni o economiche e della competitività, soprattutto di fronte alle sfide che vengono dalle politiche di Usa e Cina e dai pericoli anche economici delle attuali, drammatiche crisi geopolitiche (ne abbiamo parlato a lungo nei blog delle ultime settimane). Consolida il sistema di buone relazioni con le altre organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania. E chiede un vero e proprio “cambio di passo” alle istituzioni europee, guardando con attenzione e interesse sia al Rapporto sul mercato unico elaborato da Enrico Letta come presidente del Centro Delors, su incarico della Commissione Ue di Bruxelles, sia al rapporto sulla competitività su cui sta lavorando Mario Draghi.

“Un’Europa non unita va verso il declino e la dipendenza da potenze straniere”, sostiene un grande imprenditore come Marco Tronchetti Provera, CEO di Pirelli (la Repubblica, 22 marzo). E spiega: “L’Europa non è riuscita finora a mettere a fattor comune tutte le sue risorse. Ha il mercato più ricco del mondo e 440 milioni di persone con la migliore protezione sociale a livello globale. Il tutto fondato sui valori di cultura e democrazia che sono alla base della nascita della Ue. Al momento però non c’è un progetto, ma solo qualche debole segnale sul fronte della difesa comune e della politica estera. Chi vince le elezioni europee deve riuscire a dare una regia comune a tutto ciò”. Insomma, “abbiamo bisogno di un grande piano di rilancio”. Da finanziare “agendo sul bilancio europeo” e anche “con strumenti come gli Eurobond”, seguendo “la strada già sperimentata con il NextGenEu”. In sintesi, “è importante garantire la competitività del sistema finanziario. L’Europa ha tanto risparmio privato da convogliare sugli investimenti e non può badare solo all’inflazione. Si deve crescere mettendo in connessione la politica monetaria e quella industriale”.

Sono questi, i temi da discutere in campagna elettorale. Evitando di piegare il voto di giugno per il nuovo Parlamento europeo a interessi di potere nazionali e di spendere troppa demagogia nel discorso pubblico, dimenticando di fare i conti con le sfide, i fatti, i numeri dell’economia.

Può essere utile, proprio per rispondere alle campagne antieuropee, ragionare sugli effetti economici e sociali, oltre che politici, di una scelta radicale contro la Ue: la Brexit.

“Sinora la Brexit ha fatto perdere cinque punti di Pil al Regno Unito”, sostiene uno studio di Goldman Sachs (la Repubblica, 9 febbraio) calcolando una differenza nei confronti dei grandi paesi Ue provocata dalla riduzione della crescita e dall’alta inflazione legata alla rottura tra Londra e la Ue dopo il referendum del 23 giugno 2016. Analogo il giudizio di Bloomberg: meno Pil, maggiori interessi sul debito, maggiore disoccupazione: “Il Regno Unito sembra senza scampo dai danni senza fine della Brexit” (la Repubblica, 21 marzo).

Uno studio dell’Ispi, curato da Davide Tentori (12 gennaio) consente di guardare meglio alcuni dati essenziali. La Brexit è diventata formalmente realtà dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, anche se in termini pratici alcuni cambiamenti si sono verificati già a partire dal 1 gennaio 2021, al termine del “Transition Period” dei negoziati sui termini della nuova relazione economica tra Regno Unito e Unione Europea.

Dal 2021 al 2023 – calcola l’Ispi – il Pil del paese è cresciuto a un tasso annuo medio del 4,5%, a fronte di una crescita media che in Unione Europea è stata invece del 3,3%. Ma è necessario considerare che nel 2020 (l’anno della pandemia Covid, a cui si è aggiunta l’incertezza legata ai negoziati con l’UE per la definizione del Trade and Cooperation Agreement – TCA) “il Pil si era contratto del -10,3%, ben più del -5,8% registrato in media dai 27 Paesi UE”. Insomma, “l’economia britannica è stata certamente penalizzata da elementi imprevedibili, come gli strascichi della pandemia sulle supply chains internazionali a livello di logistica e trasporti – che hanno causato una carenza di forniture di generi alimentari; ma hanno pesato anche gli errori compiuti durante la breve, quanto disastrosa esperienza del governo di Liz Truss”.

Contingenze a parte, l’Ispi insiste su “una strutturale perdita di competitività del sistema produttivo britannico, frutto di una ventennale carenza di investimenti, sia nel settore pubblico che privato, e una parziale perdita di ruolo di “hub” del Paese una volta fuori dal mercato unico europeo”.

L’esecutivo di Rishi Sunak, subentrato a Liz Truss, è riuscito a raddrizzare la barra del timone, evitando così una recessione nel 2023 (anche favorito da una congiuntura globale che si è rivelata più robusta del previsto) “ma a prezzo di una stretta fiscale e monetaria che non certamente non favorirà la crescita economica in prospettiva”.

Guardando al commercio estero, rispetto al periodo pre-Brexit e pre-pandemia, “il Regno Unito è riuscito ad aumentare i propri flussi commerciali già nel 2022, anche se alle spese di una notevole crescita dell’import che si è tradotta in un significativo incremento del deficit commerciale (passato da 224 miliardi di dollari nel 2019 a 288 nel 2022). Il commercio bilaterale con l’UE ha registrato una dinamica simile, calando nel 2020 e 2021 per poi riprendersi superando i livelli pre-Covid nel 2022 ma anche in questo caso con un ampliamento del deficit derivante dalla crescita dell’import. Il prossimo stress-test sarà con l’introduzione dell’ultima tranche di controlli sulle merci agro-alimentari in arrivo dall’UE, a partire dalla primavera 2024”.

Le “mani libere” dai vincoli Ue hanno consentito a Londra di tessere nuove relazioni commerciali soprattutto nell’area dell’Indo-Pacifico. Ma tanto attivismo non ha compensato né la crescente debolezza dell’economia, né la perdita della centralità di Londra come piazza finanziaria (molte funzioni, oltre che molte sedi bancarie, si sono spostate ad Amsterdam) né il peggioramento del tenore di vita.

Le recenti elezioni amministrative, con una pesante sconfitta dei Tory, ne sono un evidente riflesso. Dopo 15 anni di potere dei conservatori, sono in molti a ritenere prossimo un cambio di guardia alle prossime elezioni politiche in autunno, con un possibile successo dei laburisti.

“Un’isola alla deriva o con una strategia chiara?”, si chiede il rapporto dell’Ispi.

Le tensioni geopolitiche, le strategie di Washington e le pressioni della Cina anche in campo economico non giocano a favore del ruolo di singoli paesi, ancorché importanti come il Regno Unito.

Le riflessioni sul futuro dell’Europa, sia per le politiche industriali (con un recupero di competitività) che per quelle sulla sicurezza, l’energia e la difesa chiamano comunque in ballo Londra. E se la Brexit non è un fenomeno modificabile nel breve periodo, una nuova stagione di relazioni più robuste sembra auspicabile. In un mondo così carico di rischi e tensioni, nessuno può “ballare da solo”.

(foto Getty Images)

Fare impresa con le società benefit

Una tesi discussa recentemente fa il punto teorico e pratico su uno dei temi del momento

Fare impresa e fare buona impresa attraverso lo schema d’azione delle società benefit. Salto positivo di cultura del produrre, la società benefit deve tuttavia essere compresa e messa in pratica correttamente. Partendo non solo dalla teoria ma anche, e forse soprattutto, dall’esempio di chi ha già compiuto questo passo. Sono queste le idee che sorreggono la ricerca – trasformata poi in tesi – di Giuliano Badecco discussa presso l’Università degli studi di Padova.

“Società benefit: un passo importante verso un futuro sostenibile e il caso aziendale Illy” – questo il titolo del lavoro – ha una struttura semplice. Prima di tutto viene inquadrato “lo strumento societario” cioè appunto la società benefit della quale si vogliono indagare teoria e pratica. In questa parte, quindi, sono approfonditi l’inquadramento generale di queste società, il modus operandi e gli aspetti giuridico-fiscali che le differenziano dalle società tradizionali. La seconda parte del lavoro concerne le possibilità di gestione di questo modello d’impresa, i vari tipi di collegamenti che si creano con i vari soggetti attivi, i cosiddetti stakeholder, l’identificazione delle basi per l’analisi analitica di un caso concreto aziendale, quello di Illy caffè, che viene approfondito nella terza parte.

Tutto viene collegato alla nuova prospettiva che le organizzazioni della produzione devono perseguire e cioè quella della sostenibilità aziendale.

La ricerca di Giuliano Badecco è un’onesta indagine su uno dei temi più complessi e battuti di questi ultimi tempi. “Si è dedotto come la trasformazione in società benefit – è una delle conclusioni di Badecco – avvantaggi soprattutto in termini di percezione del rischio e di reputazione del marchio, generando così effetti positivi anche sulle prestazioni aziendali”. E poi ancora: “Minimizzando il contesto, lo sforzo richiesto alle imprese per entrare a far parte del modello ‘For benefit’ è minimo se si considerano gli innumerevoli vantaggi che può generare questa scelta imprenditoriale”.

Società benefit: un passo importante verso un futuro sostenibile e il caso aziendale Illy

Giuliano Badecco

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto,

Corso di Laurea in Consulente del Lavoro, 2024

Una tesi discussa recentemente fa il punto teorico e pratico su uno dei temi del momento

Fare impresa e fare buona impresa attraverso lo schema d’azione delle società benefit. Salto positivo di cultura del produrre, la società benefit deve tuttavia essere compresa e messa in pratica correttamente. Partendo non solo dalla teoria ma anche, e forse soprattutto, dall’esempio di chi ha già compiuto questo passo. Sono queste le idee che sorreggono la ricerca – trasformata poi in tesi – di Giuliano Badecco discussa presso l’Università degli studi di Padova.

“Società benefit: un passo importante verso un futuro sostenibile e il caso aziendale Illy” – questo il titolo del lavoro – ha una struttura semplice. Prima di tutto viene inquadrato “lo strumento societario” cioè appunto la società benefit della quale si vogliono indagare teoria e pratica. In questa parte, quindi, sono approfonditi l’inquadramento generale di queste società, il modus operandi e gli aspetti giuridico-fiscali che le differenziano dalle società tradizionali. La seconda parte del lavoro concerne le possibilità di gestione di questo modello d’impresa, i vari tipi di collegamenti che si creano con i vari soggetti attivi, i cosiddetti stakeholder, l’identificazione delle basi per l’analisi analitica di un caso concreto aziendale, quello di Illy caffè, che viene approfondito nella terza parte.

Tutto viene collegato alla nuova prospettiva che le organizzazioni della produzione devono perseguire e cioè quella della sostenibilità aziendale.

La ricerca di Giuliano Badecco è un’onesta indagine su uno dei temi più complessi e battuti di questi ultimi tempi. “Si è dedotto come la trasformazione in società benefit – è una delle conclusioni di Badecco – avvantaggi soprattutto in termini di percezione del rischio e di reputazione del marchio, generando così effetti positivi anche sulle prestazioni aziendali”. E poi ancora: “Minimizzando il contesto, lo sforzo richiesto alle imprese per entrare a far parte del modello ‘For benefit’ è minimo se si considerano gli innumerevoli vantaggi che può generare questa scelta imprenditoriale”.

Società benefit: un passo importante verso un futuro sostenibile e il caso aziendale Illy

Giuliano Badecco

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto,

Corso di Laurea in Consulente del Lavoro, 2024

Imprese luoghi di turismo e cultura

Dato alle stampe un libro che illustra teoria e pratica del turismo industriale

Imprese come mete turistiche. Per scoprire “monumenti” particolari, storie nascoste, paesaggi umani e una cultura del produrre che si fa cultura a tutto tondo. Fabbriche e siti produttivi che, così, si aprono al grande pubblico per farsi scoprire e raccontare un’Italia al lavoro da un particolare punto di vista. Il fenomeno non è di oggi, ma deve essere ancora studiato, e a fondo e, soprattutto, compreso nei suoi numerosi aspetti, anche pratici. Dell’analisi del fenomeno e dei diversi casi che indicano le strade migliori da prendere, si occupa “Il turismo industriale. Come e perché le imprese del made in Italy possono diventare attrattori turistici”, libro curato da Ettore Ruggiero che, oltre a delineare teoria e pratica, raccoglie una serie importante di casi studio.

Il libro parte dalla considerazione che negli ultimi anni sono nati in Italia percorsi locali e regionali, reti di musei e veri e propri sistemi di promozione del territorio per conoscere l’Italia, al di là del suo patrimonio artistico, attraverso un nuovo approccio culturale: quello industriale.

Il libro cerca di rispondere ad una serie di domande come quale sia il mercato attuale e potenziale del turismo industriale, quali possano essere le tipologie di turisti e di “prodotti”; ma anche come i siti d’archeologia industriale, i musei e gli archivi d’impresa, le imprese di tutti i settori piccole e grandi possano diventare luoghi di attrazione turistica.

Un vero “manuale d’uso” del turismo d’impresa. Nella prima parte vengono quindi delineati gli scenari a cui fare riferimento oltre che il concetto di Made in Italy che supporta questa attività. E’ in questa sezione che vengono anche posti alcuni esempi tra luoghi da visitare e organizzazioni dedicate alla valorizzazione e allo studio del fenomeno oppure a particolari iniziative collegate. La seconda parte, invece, affronta il tema dell’impresa italiana di fronte alle possibilità turistiche offerte dall’impresa stessa, approfondendo anche in questo caso il ruolo delle organizzazioni (come Museimpresa) e di particolari casi aziendali posti come esempi (Piaggio, Fantoni Group, Acquedotto Pugliese) oppure di determinati settori più adatti di altri (come quelli del vetro e dell’alimentare). La terza parte del libro viene infine presentata come una vera “cassetta degli attrezzi per offrire un’offerta di qualità”.

In definitiva, il libro curato da Ruggiero racconta come e perché le imprese industriali, artigianali e dei servizi possono diventare attrattive per visitatori e turisti spesso amanti del made in Italy, del bello e del ben fatto. Con una sorta di guida in dieci passi per progettare ed erogare visite ed eventi in aziende di qualità, funzionali alle strategie dell’impresa e dei sistemi turistici locali. Da leggere e, soprattutto, da usare.

Il turismo industriale. Come e perché le imprese del made in Italy possono diventare attrattori turistici

Ettore Ruggiero (a cura di)

Franco Angeli, 2024

Dato alle stampe un libro che illustra teoria e pratica del turismo industriale

Imprese come mete turistiche. Per scoprire “monumenti” particolari, storie nascoste, paesaggi umani e una cultura del produrre che si fa cultura a tutto tondo. Fabbriche e siti produttivi che, così, si aprono al grande pubblico per farsi scoprire e raccontare un’Italia al lavoro da un particolare punto di vista. Il fenomeno non è di oggi, ma deve essere ancora studiato, e a fondo e, soprattutto, compreso nei suoi numerosi aspetti, anche pratici. Dell’analisi del fenomeno e dei diversi casi che indicano le strade migliori da prendere, si occupa “Il turismo industriale. Come e perché le imprese del made in Italy possono diventare attrattori turistici”, libro curato da Ettore Ruggiero che, oltre a delineare teoria e pratica, raccoglie una serie importante di casi studio.

Il libro parte dalla considerazione che negli ultimi anni sono nati in Italia percorsi locali e regionali, reti di musei e veri e propri sistemi di promozione del territorio per conoscere l’Italia, al di là del suo patrimonio artistico, attraverso un nuovo approccio culturale: quello industriale.

Il libro cerca di rispondere ad una serie di domande come quale sia il mercato attuale e potenziale del turismo industriale, quali possano essere le tipologie di turisti e di “prodotti”; ma anche come i siti d’archeologia industriale, i musei e gli archivi d’impresa, le imprese di tutti i settori piccole e grandi possano diventare luoghi di attrazione turistica.

Un vero “manuale d’uso” del turismo d’impresa. Nella prima parte vengono quindi delineati gli scenari a cui fare riferimento oltre che il concetto di Made in Italy che supporta questa attività. E’ in questa sezione che vengono anche posti alcuni esempi tra luoghi da visitare e organizzazioni dedicate alla valorizzazione e allo studio del fenomeno oppure a particolari iniziative collegate. La seconda parte, invece, affronta il tema dell’impresa italiana di fronte alle possibilità turistiche offerte dall’impresa stessa, approfondendo anche in questo caso il ruolo delle organizzazioni (come Museimpresa) e di particolari casi aziendali posti come esempi (Piaggio, Fantoni Group, Acquedotto Pugliese) oppure di determinati settori più adatti di altri (come quelli del vetro e dell’alimentare). La terza parte del libro viene infine presentata come una vera “cassetta degli attrezzi per offrire un’offerta di qualità”.

In definitiva, il libro curato da Ruggiero racconta come e perché le imprese industriali, artigianali e dei servizi possono diventare attrattive per visitatori e turisti spesso amanti del made in Italy, del bello e del ben fatto. Con una sorta di guida in dieci passi per progettare ed erogare visite ed eventi in aziende di qualità, funzionali alle strategie dell’impresa e dei sistemi turistici locali. Da leggere e, soprattutto, da usare.

Il turismo industriale. Come e perché le imprese del made in Italy possono diventare attrattori turistici

Ettore Ruggiero (a cura di)

Franco Angeli, 2024

Insistere sull’Europa, nonostante tutto. E sugli eurobond per difesa, ambiente, sviluppo 

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

Passare il tempo che ci separa dai primi di giugno per parlare di Europa. E impegnarsi a capire bene per cosa voteremo, quando andremo alle urne, dal 6 al 9, in tutti e 27 i paesi della Ue, per rinnovare il Parlamento Europeo. Quali politiche vorremmo, per lo sviluppo, la sicurezza, l’ambiente, un migliore futuro anche per i nostri figli e nipoti. E a quali partiti e a quali donne e uomini ne delegheremo la responsabilità.

Eccolo, il dovere di questo nostro tempo così incerto e inquieto, dolente e comunque decisivo. Eccola, la speranza da nutrire. “Ora serve parlare di Europa”, titola il Corriere della Sera sull’articolo di fondo di Goffredo Buccini (27 aprile). “Invertire il declino dell’Europa”, prescrive Giorgio Barba Navaretti su la Repubblica (19 aprile). “Come possiamo salvare l’Europa?”, si chiede Sergio Fabbrini su Il Sole24Ore (21 aprile). E così via continuando. Con un motivo comune, in tanti autorevoli pareri: si dovrebbe andare a votare pensando agli elementi che segneranno il futuro di questa parte del mondo che ha così robusti elementi culturali comuni (ne scrive “La Lettura” del Corriere della Sera, parlando di musica, letteratura, teatro e arti figurative; 28 aprile) e soprattutto, unica, ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, l’economia di mercato e il miglior sistema di welfare. Ma che oggi soffre la concorrenza economica dei giganti come gli Usa, la Cina e, tra non molto, l’India, è messa sotto pressione dalle autocrazie e non sa bene come affrontare lo strapotere delle Big Tech, le multinazionali tecnologiche che stravolgono, nel bene e nel male, il nostro modo di vivere.

Si dovrebbe andare a votare, insomma, pensando ai valori e agli interessi comuni. E invece, finora, il dibattito politico, sia in Italia che negli altri paesi Ue, si concentra prevalentemente sugli interessi locali, sugli intrighi di potere nazionali e regionali, sulle trame di piccole e grandi corporazioni e clientele. Mentre cresce il peso di sovranismi e nazionalismi che, anche dai vertici di alcuni paesi europei, chiedono esplicitamente “meno Europa” e più spazio per i poteri e le scelte nazionali. E si aggravano le minacce dell’espansione del peso delle “democrazie illiberali”.

Europa, nonostante tutto”, si augurava già nel 2019, un libro di saggi essenziali, editi da “La nave di Teseo” e scritti da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa e da chi redige questo blog, per tracciare un bilancio critico dei successi e delle sfide della Ue , alla vigilia delle scorse elezioni europee. Da allora molti drammatici eventi politici, sociali ed economici hanno radicalmente cambiato il contesto geopolitico e le ragioni di fondo della competitività internazionale: la pandemia da Covid 19, l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, il conflitto in Medio Oriente, l’aggravarsi delle tensioni tra Usa e Cina, la scomposizione e ricomposizione delle tradizionali catene del valore e degli scambi. Ma quell’indicazione conserva un’ancora più drammatica attualità: “nonostante tutto”, o l’Europa rinsalda e rilancia le ragioni dell’unione e delle politiche comuni, a cominciare dai temi della sicurezza e dello sviluppo sostenibile o le sue fragilità si aggraveranno.

La nostra Europa oggi è mortale. Può morire. E questo dipende unicamente dalle nostre scelte”, ha dichiarato il presidente francese Emmanuel Macron, in un lungo e accorato discorso alla Sorbona, il 25 aprile, proponendo una profonda svolta politica e trovando il consenso del Cancelliere tedesco Scholz: “Buone idee per mantenere l’Europa forte”.

Europa né totem né tabù, dunque. Né mito né mostro sacro. Il nostro destino migliore, piuttosto. Da criticare. Ma da non demolire né da immiserire tra egoismi nazionali, rigidità burocratiche o vaghe dichiarazioni di buone intenzioni. Viene in mente l’antica saggezza meridionale: “Chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non prende in pegno”. L’Europa che serve, in una stagione d’emergenza, è tutt’altro che un club delle chiacchiere e delle demagogie.

Sfida politica, dunque. E programmatica. Come ricorda bene il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando (Corriere della Sera, 22 aprile) calcola che nel prossimo giugno 400 milioni di europei andranno a votare, si augura “una grande partecipazione perché così si diventa protagonisti del proprio futuro” e sollecita “le istituzioni” che saranno elette a “far sì che l’Europa diventi protagonista e non solo spettatore di questa stagione” con “riforme coraggiose”.

Nel corso degli ultimi giorni il documento presentato da Enrico Letta, presidente della Fondazione Delors sul mercato unico e le anticipazioni che Mario Draghi ha fatto sullo studio sulla competitività (entrambi incaricati dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen) hanno indicato gli schemi delle scelte da fare per tenere insieme la “transizione verde” con lo sviluppo economico in chiave di sostenibilità e per poter reggere, appunto come Ue, le pressioni che vengono da Usa e Cina, sulle grandi questioni della sicurezza, dell’energia e dell’economia digitale, insistendo soprattutto sull’AI (Artificial Intelligence).

Un mercato unico dei capitali, delle telecomunicazioni, della difesa, insomma (“Ora serve una difesa europea, tra Nato e Ue”, spiega Marta Dassù, la Repubblica, 27 aprile). E investimenti europei, sia aumentano il peso del bilancio Ue sia andando sui mercati finanziari, come Ue, per trovare risorse da investire. Con gli Eurobond, già cari negli anni Ottanta proprio a Delors. E con altri strumenti finanziari comuni.

Le dimensioni sono imponenti: oltre 800 miliardi all’anno almeno per i prossimi dieci anni, sia per il green deal (e per le misure di welfare indispensabili per fare fronte ai costi sociali della transizione, a cominciare dalle conseguenze sui posti di lavoro e la tenuta delle imprese) sia per la sicurezza.

Le resistenze, naturalmente, non mancano. I piccoli paesi temono per la perdita di sovranità (e dei privilegi) in caso di mercato unico dei capitali. I “nordici” sono diffidenti sugli investimenti e sui nuovi debiti in comune con i paesi del Sud. In parecchi, soprattutto a destra, guardano con sospetto a un rafforzamento dell’Unione. E tanti temono che un’applicazione “ideologica” del green deal metta fuori dal gioco competitivo parte ampia dell’industria europea. Timori fondati e buone ragioni si intrecciano a difese nazionaliste e a preoccupazioni per la fine di una espansione della spesa pubblica usata per “comprare consenso” (molti guardano con sospetto proprio all’Italia, in serie difficoltà con i conti anche per gli effetti devastanti del “superbonus” edilizio).

Il voto di giugno potrebbe fare chiarezza, con l’elezione di un Parlamento europeo e poi di una Commissione Ue capaci di quelle “riforme coraggiose” cui ha fatto cenno il presidente Mattarella e delle scelte politiche indispensabili a far sì che l’Europa non sia “schiacciata” dalla forza economica e politica di Usa e Cina.

Per orientarsi, anche in vista del voto, possono essere utili alcune riflessioni recenti. Quella del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (il Sole24Ore, 24 aprile). O le proposte avanzate da  Marco Buti e Marcello Messori sulla transizione verde e digitale e sulla necessità che l’Europa superi l’attuale condizione di “scarsa produttività” (Il Sole24Ore, 21 aprile). O ancora l’appello  di Emma Marcegaglia, presidentessa del B7 (l’insieme delle imprese dei paesi del G7) per “un accordo globale per accelerare la transizione verde” (Il Sole24Ore, 28 aprile), usando anche gli Eurobond. Vediamo meglio.

Panetta (“Una nuova star dell’antipopulismo”, secondo Il Foglio, 24 aprile) sostiene che, senza cedere ai protezionismi, occorre “rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale”. Come? Anche per Panetta, usando pure la leva degli Eurobond.

E la Bce? Dovrà andare oltre i confini della responsabilità sulla moneta e sull’inflazione e “saper guardare al futuro”. In altre parole, è una strategia analoga, in tempi difficili, a quel “whatever it takes” con cui Mario Draghi, da presidente della Bce, salvò l’euro e l’economia europea al tempo della crisi post Covid.

Buti e Messori insistono sulla necessità di “differenziare la strategia europea dalle scelte monopolistiche della Cina e dal protezionismo statunitense”. E propongono la produzione e il finanziamento di “Beni pubblici europei” (Bpe, in sigla) sia in campo economico che geopolitico: per le politiche industriali e sociali comuni, per l’innovazione e, naturalmente, per la sicurezza. Una strategia. Che si articola in progetti. E trova finanziamenti sul mercato. Riecco gli Eurobond.

Sono, appunto, i temi che si ritrovano nel rapporto Letta e che riascolteremo con il rapporto Draghi. Che risuonano nel discorso di Panetta. E che cominciano a trovare riscontri sia nelle posizioni della Francia di Macron che nella Germania purtroppo ancora in cerca su come fare uscire la propria economia dalla crisi in corso.

Sono temi su cui proprio l’Italia può giocare un ruolo fondamentale. E’ uno del grandi paesi fondatori dell’Europa ma non può suscitare preoccupazioni egemoniche come quelle provocate da Francia e Germania. Ha sempre mostrato un’attitudine dialogante con gli altri paesi europei, ma anche con nazioni estranee alla Ue, a cominciare dall’area del Mediterraneo. Ed è forte di un sistema di imprese flessibili, aperte, competitive, ben inserite in parecchie catene del valore globali. Può fare molto, insomma. Con idee innovative. E ruoli di responsabilità. A patto di non cadere in tentazioni sovraniste e in chiusure propagandiste, da spesa pubblica irresponsabile e chiusure nazionaliste. Un’Italia che sa far bene l’Italia e si fa carico del bene dell’Europa e, dunque, di se stessa.

(foto Getty Images)

Milano tra successi della Design Week e migliori equilibri sociali da rilanciare 

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

Milano splendida splendente, all’indomani della chiusura della Design Week e del Salone del Mobile. Milano cardine della creatività e dell’innovazione internazionale. Milano fabbrica e vetrina. Milano, per l’ennesima volta, attrattiva e vitale.

Si può giocare, a buon diritto, con la retorica dei record e dei superlativi, anche mettendo in fila i numeri: oltre 350mila presenze, tra Salone e Fuorisalone, 1950 espositori da tutto il mondo, più di 1300 eventi, un indotto che vale 261 milioni di euro, con un incremento del 13,7% rispetto al ‘23. Un via vai di persone tra il cuore della città (Brera, l’Università Statale, Porta Venezia, l’Arco della Pace al Parco Sempione, la Triennale e l’Adi Museum, via Durini) ma anche i Navigli, via Tortona, via Sarpi e cioè Chinatown e poi ancora NoLo (North of Loreto, via Padova insomma, quartiere trendy da nuovo stile di gentrification), Scalo Farini e Lambrate, Mecenate e Assago…

Tutta quanta la città, insomma, strade e piazze, palazzi e cortili, allargandosi anche, per la prima volta, verso l’hinterland, a Varedo. Installazioni luminose e sorprendenti, amarcord di “venerati maestri” come Alessandro Mendini e Cini Boeri, inni alla “sostenibilità” degli arredi e delle installazioni stesse. E una gran passione per il colore verde in tutte le sue tonalità.

In aggiunta, tutto un grande via vai con le altre due manifestazioni contemporanee, il Vinitaly a Verona e soprattutto la Biennale a Venezia. Calici e brindisi, inaugurazioni e feste, “Salone mare e monti. E fritto misto”, con scrive con sapida ironia Michele Masneri (“Il Foglio”, 16 aprile).

Tutto bene, dunque? Certamente. L’importante, però, è non illudersi che l’ennesimo, meritato successo d’un così grande evento come la Design Week possa essere una risposta sufficiente ai tanti problemi aperti a Milano, ai sempre più frequenti segnali di crisi di una metropoli arrivata a un passaggio essenziale della sua vita.

Si dice “crisi” e non “declino” proprio insistendo sulla semantica, sul senso profondo della parola: stato di cambiamento che si può evolvere in alterne direzioni, crinale tra due diversi percorsi giù per uno o per l’altro pendio, crivello (e cioè setaccio) tra il grano prezioso e il loglio di scarto, weiji per l’alfabeto cinese e cioè, secondo una traduzione approssimativa, “pericolo” e “opportunità” o, per essere più precisi, “passaggio cruciale” e cioè momento in cui comincia o cambia qualcosa.

Eccola, dunque, “Milano sul crinale”, tra modi originali in cui rinnovare la sua capacità di essere, contemporaneamente, competitiva e socialmente inclusiva, tra le opportunità di un’attrattività che polarizza ed esclude e una dinamica economica che non si limiti alla crescita (più affari, più soldi, più ricchezza istantanea luccicante ed effimera) ma punti allo sviluppo, naturalmente sostenibile, sia ambientale che sociale. Milano, insomma, davanti alla responsabilità di un migliore futuro (ne discute da tempo, appassionatamente, il Centro Studi Grande Milano presieduto da Daniela Mainini).

Il dibattito è naturalmente ampio. Riguarda il ruolo delle metropoli, il futuro della “economia della conoscenza” e dunque anche delle università, le strategie delle imprese e della Fiera di Milano (un polo economico che potrebbe assumere un peso crescente, come centro di servizi e laboratorio di idee). E soprattutto i nodi di una radicale questione sociale: come fare convivere le logiche creative della competitività con la necessità di abbattere le diseguaglianze amplificate proprio da quelle logiche, se non ben governate da politiche di welfare, scelte urbanistiche, ambiziose scelte fiscali e culturali.

Proprio su questi temi, eventologia delle “week” a parte, Milano, insieme a Venezia, si prepara a un paio di appuntamenti strategici legati al destino delle metropoli: l’Esposizione Internazionale in Triennale dedicata al tema “Inequalities. How to mend the fractures oh humanity” da maggio a novembre 2025 e, nello stesso periodo, la prossima Biennale di Architettura a Venezia, per ragionare di concentrazione di ricchezze e dunque di diseguaglianze nelle metropoli e nelle megalopoli, di crisi climatiche, di utilizzo efficace dei dati sui flussi di persone, merci e idee, grazie all’Artificial Intelligence e dunque di democrazia, economia circolare e, appunto, sviluppo sostenibile (ne discutono Stefano Boeri, presidente della Triennale e Carlo Ratti, esperto di smart City al Mit di Boston e curatore della Biennale veneziana, su “la Repubblica”, 21 aprile).

Ecco il punto: la funzione essenziale dell’urbanistica e della buona politica per ridisegnare le città. A cominciare proprio da Milano. Come suggeriscono, partendo dal successo del Salone del Mobile, anche Federica Verona (“Non bastano i grandi numeri, servono progetti che restano”, la Repubblica, 20 aprile) e Dario Di Vico (“Il Salone delle prossime sfide: Milano deve continuare a essere inclusiva e attrattiva”, Corriere della Sera, 21 aprile).

L’essere, Milano, una grande città universitaria, con oltre 200mila studenti provenienti dal resto d’Italia e, sempre più spesso, dall’estero, è un grande vantaggio, sulla forza della ricerca e delle idee. E può pesare adesso, con risposte originali ai problemi, anche il fatto che ci sono tre donne alla guida delle principali università pubbliche milanesi: Marina Brambilla appena eletta rettrice della Statale, Giovanna Iannantuoni alla Bicocca e Donatella Sciuto al Politecnico. L’importante è garantire, agli studenti, ai ricercatori e ai professori universitari condizioni abitative e costi di vita che non li facciano fuggire via o li spingano a vivere Milano con disagio, fastidio, ostilità.

I progetti del Comune sul social housing e gli impegni di una multinazionale immobiliare come Hines (“Una città con i sogni giusti. Il nuovo ciclo di Milano sarà un mix di mercato e welòfare: studentati e housing”, sostiene Mario Abbadessa, responsabile italiano del gruppo americano; Il Foglio, 11 aprile) dicono che ci sono passi avanti verso una migliore dimensione civile del vivere e dell’abitare. Di tutt’altro segno, naturalmente, rispetto al clamore delle operazioni immobiliari di gran lusso, come lo shopping da 1,3 miliardi del gruppo Kering di Francois Pinault (moda) per un palazzo in via Montenapoleone, oramai la seconda strada più cara al mondo dopo la Fifth Avenue a New York (la stima è di Cushman & Wakefield, Il Sole24Ore, 5 aprile).

Il mercato, naturalmente, anche per il settore immobiliare, fa il suo mestiere. Ma una metropoli, organismo vivente, civitas e non solo urbs (le strutture, le strade, i palazzi) non può essere lasciata soltanto alle dinamiche di mercato. Ha bisogno di politica sapiente, efficiente pubblica amministrazione, lungimirante urbanistica, solida cultura dell’innovazione e dell’inclusione sociale. Pena la perdita delle caratteristiche di fondo di Milano, della sua anima solidale, dunque nel lungo periodo della sua stessa bellezza e attrattività.

Salute, ambiente, qualità della vita, sviluppo sostenibile, dunque. Temi comuni a quell’area fortemente antropizzata ed economicamente e culturalmente dinamica che comprende il Nord Ovest, la Lombardia, l’Emilia e il Nord Est, cuore produttivo europeo con un originale e robusto capitale sociale di imprese, università, banche, strutture culturali e di ricerca e istituzioni e organizzazioni ricche di virtù civili (ne abbiamo scritto nel blog del 3 aprile).

Ne discutono, in questi giorni, appunto a Milano, per la “Giornata della Terra”, i sindaci dei comuni padani (oltre che Milano, anche Torino, Bologna, Treviso, Venezia, etc, calcolando che nella grande area vivono 23 milioni di cittadini). E il sindaco di Milano ne fa una sintesi così: “Nel nostro futuro, mobilità green e città multicentrica” (la Repubblica, 21 aprile). Si vedrà.

(Foto Getty Images)

Relazioni d’impresa

Uno studio condotto sugli imprenditori immigrati delinea l’importanza del capitale relazionale

 

Essere immigrati ed essere imprenditori. Non si tratta di una rarità ma, invece, di una realtà che in Italia ha ormai numerose espressioni importanti. Questione, anche in questi casi, di una cultura ad intraprendere che si trasforma in capacità di fare. Con un elemento in più: la dotazione di capitale relazionale che le persone immigrate si portano dietro. Comprendere proprio il valore del capitale relazionale è allora fondamentale per studiare l’imprenditorialità degli individui nati all’estero.

E’ attorno a questi concetti che ruota il lavoro di ricerca di Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo) da poco pubblicato con il titolo “Capital and immigrant entrepreneurship in Italy”.

Lo studio – viene spiegato – si propone di indagare la dimensione quantitativa dell’imprenditorialità di proprietà straniera in Italia, identificare i fattori trainanti di questo fenomeno ed esaminare il valore del capitale relazionale per la creazione e lo sviluppo di imprese di proprietà di immigrati. Si tratta cioè di un’indagine a tutto campo che prima mette a fuoco i tratti salienti di quanto sta accadendo, poi gli elementi che contribuiscono a far crescere il fenomeno dell’imprenditoria immigrata e, quindi, il contributo che a questa fornisce proprio la presenza di particolari capacità di relazione.

Anzi, gli autori indicano proprio il particolare approccio umano come “asset immateriale nello sviluppo delle imprese straniere”. Il capitale relazionale, è l’idea alla base dell’indagine, permette alle start-up di superare le loro principali difficoltà: l’aspetto organizzativo e la capacità finanziaria. Pur sottoposta al vincolo della limitatezza del numero di casi analizzati, la ricerca di Paoloni, De Andreis e Papa fornisce una prima descrizione di un fenomeno sempre più importante in Italia e, soprattutto, indica la chiave per una sua migliore comprensione: quella capacità di relazioni umane che, non solo per gli immigrati, rimane alla fine come il vero elemento in grado di fare la differenza tra successo e insuccesso. Anche per le imprese.

Capital and immigrant entrepreneurship in Italy

Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo)

International Entrepreneurship and Management Journal, aprile 2024

Uno studio condotto sugli imprenditori immigrati delinea l’importanza del capitale relazionale

 

Essere immigrati ed essere imprenditori. Non si tratta di una rarità ma, invece, di una realtà che in Italia ha ormai numerose espressioni importanti. Questione, anche in questi casi, di una cultura ad intraprendere che si trasforma in capacità di fare. Con un elemento in più: la dotazione di capitale relazionale che le persone immigrate si portano dietro. Comprendere proprio il valore del capitale relazionale è allora fondamentale per studiare l’imprenditorialità degli individui nati all’estero.

E’ attorno a questi concetti che ruota il lavoro di ricerca di Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo) da poco pubblicato con il titolo “Capital and immigrant entrepreneurship in Italy”.

Lo studio – viene spiegato – si propone di indagare la dimensione quantitativa dell’imprenditorialità di proprietà straniera in Italia, identificare i fattori trainanti di questo fenomeno ed esaminare il valore del capitale relazionale per la creazione e lo sviluppo di imprese di proprietà di immigrati. Si tratta cioè di un’indagine a tutto campo che prima mette a fuoco i tratti salienti di quanto sta accadendo, poi gli elementi che contribuiscono a far crescere il fenomeno dell’imprenditoria immigrata e, quindi, il contributo che a questa fornisce proprio la presenza di particolari capacità di relazione.

Anzi, gli autori indicano proprio il particolare approccio umano come “asset immateriale nello sviluppo delle imprese straniere”. Il capitale relazionale, è l’idea alla base dell’indagine, permette alle start-up di superare le loro principali difficoltà: l’aspetto organizzativo e la capacità finanziaria. Pur sottoposta al vincolo della limitatezza del numero di casi analizzati, la ricerca di Paoloni, De Andreis e Papa fornisce una prima descrizione di un fenomeno sempre più importante in Italia e, soprattutto, indica la chiave per una sua migliore comprensione: quella capacità di relazioni umane che, non solo per gli immigrati, rimane alla fine come il vero elemento in grado di fare la differenza tra successo e insuccesso. Anche per le imprese.

Capital and immigrant entrepreneurship in Italy

Paola Paoloni (Università degli Studi “La Sapienza” Roma), Federico De Andreis (Università “Giustino Fortunato”, Benevento), Armando Papa (Università degli Studi di Teramo, Teramo)

International Entrepreneurship and Management Journal, aprile 2024

Trent’anni da capire

Appena pubblicato un libro con 12 saggi che aiutano a comprendere l’Italia dal 1992 al 2022

Conoscere la storia, anche recente, per comprendere meglio dove e come si sta vivendo e, soprattutto, verso quale orizzonte ci si sta dirigendo. Insegnamento mai inutile da ricordare. Anche per chi fa impresa. E’ per questo che è utile leggere “L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022” curato da Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio.
Il libro è, come d’altra parte indica il titolo, una raccolta di saggi che hanno l’obiettivo di fare un bilancio di trent’anni di vicende italiane. Bilancio non solo e non tanto economico, ma anche sociale e politico. Con una particolarità: i
12 saggi sono firmati da chi ne è stato testimone diretto o ha studiate a fondo le vicende di cui si fornisce racconto e interpretazione. Focus di tutto, sono le cosiddette “classi dirigenti” che hanno governato il Paese in tre decenni.
I temi affrontati dai 12 saggi sono quelli delle riforme mancate e del debito pubblico (Mario Perugini, Roberto Artoni); Mani Pulite e la svolta del1992 (Pietro Modiano, Giuliano Amato); il grande capitolo delle privatizzazioni (Franco Amatori, Ruggiero Ranieri, Marco Onado, Edoardo Reviglio, Franco Bernabé); la svolta delle relazioni industriali (Stefano Musso, Sergio Cofferati); la crisi dei vecchi equilibri e i nuovi protagonisti dell’economia (Marco Doria, Andrea Colli, Innocenzo Cipolletta, Franco Amatori, Ilaria Sangalli, Aldo Fumagalli Romario); il permanente divario Nord/Sud (Leandra D’Antone, Gianfranco Viesti, Renato Quaglia); le nostre inadeguatezze di fronte alla sfida globale (Piarluigi Ciocca, Laura Pennacchi). Chiude il volume una lunga intervista a Romano Prodi che “tira le fila” dei vari contributi.
Ma quale può essere, dunque, il bilancio di tre decenni così travagliati? Dalle analisi contenute nel libro, emerge una valutazione negativa di quanto è stato fatto e ottenuto. Si è trattato – è l’opinione che emerge dalle pagine del libro avrebbero potuto condurre in una diversa direzione, se ci fossero state classi dirigenti all’altezza del momento storico.
Come ogni libro che ha davvero intenzione di dire le cose chiare, anche “L’Italia al bivio” fa discutere, suscita dibattito e accetta che non tutti quelli che leggono siano d’accordo. Ed è per questo che il lavoro curato da Amatori, Modiano e Reviglio è da leggere e rileggere.

L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022
Franco Amatori Pietro Modiano Edoardo Reviglio (a cura di)
Franco Angeli, 2024

Appena pubblicato un libro con 12 saggi che aiutano a comprendere l’Italia dal 1992 al 2022

Conoscere la storia, anche recente, per comprendere meglio dove e come si sta vivendo e, soprattutto, verso quale orizzonte ci si sta dirigendo. Insegnamento mai inutile da ricordare. Anche per chi fa impresa. E’ per questo che è utile leggere “L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022” curato da Franco Amatori, Pietro Modiano e Edoardo Reviglio.
Il libro è, come d’altra parte indica il titolo, una raccolta di saggi che hanno l’obiettivo di fare un bilancio di trent’anni di vicende italiane. Bilancio non solo e non tanto economico, ma anche sociale e politico. Con una particolarità: i
12 saggi sono firmati da chi ne è stato testimone diretto o ha studiate a fondo le vicende di cui si fornisce racconto e interpretazione. Focus di tutto, sono le cosiddette “classi dirigenti” che hanno governato il Paese in tre decenni.
I temi affrontati dai 12 saggi sono quelli delle riforme mancate e del debito pubblico (Mario Perugini, Roberto Artoni); Mani Pulite e la svolta del1992 (Pietro Modiano, Giuliano Amato); il grande capitolo delle privatizzazioni (Franco Amatori, Ruggiero Ranieri, Marco Onado, Edoardo Reviglio, Franco Bernabé); la svolta delle relazioni industriali (Stefano Musso, Sergio Cofferati); la crisi dei vecchi equilibri e i nuovi protagonisti dell’economia (Marco Doria, Andrea Colli, Innocenzo Cipolletta, Franco Amatori, Ilaria Sangalli, Aldo Fumagalli Romario); il permanente divario Nord/Sud (Leandra D’Antone, Gianfranco Viesti, Renato Quaglia); le nostre inadeguatezze di fronte alla sfida globale (Piarluigi Ciocca, Laura Pennacchi). Chiude il volume una lunga intervista a Romano Prodi che “tira le fila” dei vari contributi.
Ma quale può essere, dunque, il bilancio di tre decenni così travagliati? Dalle analisi contenute nel libro, emerge una valutazione negativa di quanto è stato fatto e ottenuto. Si è trattato – è l’opinione che emerge dalle pagine del libro avrebbero potuto condurre in una diversa direzione, se ci fossero state classi dirigenti all’altezza del momento storico.
Come ogni libro che ha davvero intenzione di dire le cose chiare, anche “L’Italia al bivio” fa discutere, suscita dibattito e accetta che non tutti quelli che leggono siano d’accordo. Ed è per questo che il lavoro curato da Amatori, Modiano e Reviglio è da leggere e rileggere.

L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento1992-2022
Franco Amatori Pietro Modiano Edoardo Reviglio (a cura di)
Franco Angeli, 2024

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